Novelletta a puntate di Bianconeve senza i nani: istoria in prosa senza pretese letterarie di un Lazzarillo di provincia (fiaba solo per adulti sadici…) 1^ puntata. In un Regno vicino, poi diventato Repubblica, viveva Bianconeve senza i nani. Era un bambino piccino piccino, dagli occhi grandi e dal cuore tenero. Il suo Papà Cattivone l’aveva messo nelle mani della Pecoraia, una donna ignorante e manesca. La Pecoraia probabilmente era l’amante del Papà Cattivone, ma Bianconeve allora non poteva saperlo. Perchè la Pecoraia da bambina accudiva un gregge in montagna, ma un giorno la mandarono a servizio in casa di Papà Cattivone. Lei aveva meno di diciassette anni, mentre lui viaggiava sulla trentina o poco più. E si sa come vanno a finire queste cose: passa un giorno, passa l’altro e finirono a letto. Lei dalla pelle di pesca, lui dal portafoglio pieno. La sgualdrina subito fiutò l’affare: invece di fare la pastora era più conveniente fare la padrona. Lui però, scapolone impenitente, a quei tempi non cedette alle lusinghe matrimoniali: era un medico affermato dal futuro promettente, lei un’astuta ignorante, cosa che però non poteva immaginare… E da qui nacque l’avventura di Bianconeve miserello, un Lazzarillo di provincia che il destino aveva segnato. 2^ puntata. Avvenne che il Papa’ Cattivone fosse nato in un’amena cittadina del sud, oggi dichiarata Patrimonio dell’umanità. Si trasferì poi con la famiglia nel capoluogo, ove durante la seconda guerra mondiale sbarcarono le truppe alleate. Suo padre, cioè il nonno di Bianconeve, era un colonnello dei Carabinieri, e per avventura padre e figlio si trovarono entrambi al fronte nella guerra ’15-‘18. I loro rapporti dovettero essere conflittuali, perchè Papà Cattivone ne fece sempre accenni fugaci. Fatto sta che negli anni giusti vinse una condotta medica in un paese del nord, da dove più non si mosse. Quivi, in pieno regime dittatoriale (ma a suo dire rivestì raramente l’orbace), volando di fiore in fiore incappò nella madre del pischello. Donna bellissima, si buccinava, dagli occhi verdi di ghiaccio. Di ghiaccio anche il cuore, tanto che quando Bianconeve nacque ella pensò bene di non riconoscerlo, abbandonandolo. In quel torno di tempo, Papà Cattivone si era dato ad una vita di baldoria… Un giorno, dopo aver mangiato un’intera anguria da solo in un chiosco locale (tutti se ne meravigliarono…), fu colto da grave colica, fin quasi da morirne. Siccome era un gran devoto, secondo gli usi della sua terra, fece voto solenne alla Madonna di Pompei che se fosse guarito avrebbe riconosciuto Bianconeve come suo figlio legittimo. Detto fatto, fu accontentato e lui mantenne fede al giuramento. La storia del Lazzarillo senza i nani praticamente iniziò qui. Papà Cattivone, già imbranato con la sua Pecoraia lolita, pensò bene allora di affidare il neonato ad una sua sorella (che d’ora in avanti verrà chiamata Fata Turchina, perchè tale si dimostrò) residente in città, già sposata con due figli. Così da guadagnare tempo e decidere sul da farsi. 3^ puntata. Papà Cattivone, da sospettoso qual’era, si affidò però anche ad un investigatore privato per saperne di più sulla madre snaturata da lui scopata nove mesi prima. Dalle carte venne fuori che la < signorina > era conosciutissima in riviera lacustre, e forse anche come una delle spasimanti del Rapagnetta nazionale. Fatto sta che da allora ogni loro rapporto si interruppe:ognuno per la sua strada. Bianconeve crebbe i suoi primi anni in casa della Fata Turchina, con suo marito (zio Ciccio) ed i due cuginetti più grandi di lui. Furono gli anni più belli. Bianconeve non ricordò mai d’avere avuto uno scapaccione o una punizione solenne . In casa zio Ciccio ogni tanto lo chiamava < il ferroviere >, non si sa perchè, ma senza cattiveria. Poi giunse la guerra. Zio Ciccio partì per il fronte francese, la bocca a orciolo… La Fata Turchina rimase sola coi figlioletti e Bianconeve. Tempi duri, da fame, malgrado l’aiuto di mantenimento di Papà Cattivone. Non c’era cibo, il pane ed altro tesserati, bisognava arrangiarsi. La Fata Turchina ogni tanto poneva delle briciole di pane in fila dal poggiolo alla cucina. I colombi entravano beccando ed i ragazzini nascosti < pam! > chiudevano la porta- finestra facendoli prigionieri. Svolazzavano per tutta la cucina, ma una volta catturati la zia li annegava sotto il rubinetto del secchiaio, tra l’orrore dei bambini. Ma zitti, tutti zitti, che il vicinato non sapesse… Era cosa proibita dalle Autorità, ma Bianconeve non ne sapeva il perchè! 4^ puntata. Intanto la guerra era quasi al suo apogeo. Le bombe alleate piovevano sulla città con l’obiettivo di far saltare le fabbriche convertite in produzione di guerra ed i nodi ferroviari. Al piccino Bianconeve piacevano tanto gli spezzoni incendiari ed i bengala per le loro luci notturne che illuminavano gli orizzonti tutt’intorno. Con la gente in strada che naso all’insù sottovoce commiserava quei poveretti presi di mira dai bombardieri. Gli piacevano molto anche le formazioni dei quadrimotori che, in successione, solcavano il cielo dirette al nord per sganciare i loro carichi di morte. I curiosi, tra il contento ed il preoccupato, mormoravano che andavano a rendere la pariglia a certi cattivi, che però Lazzarillo non aveva mai visto. Lo stupivano anche le scritte sui muri < rifugio antiaereo > che spiccavano in grande con la freccia direzionata verso le bocche di lupo alla base del palazzo ove abitava. Un terrore invincibile lo prendeva quando le sirene d’allarme ululavano sulla città. Allora bisognava uscire di corsa sulle scale, precipitandosi tra una folla in fuga, e rintanarsi negli scantinati. Quando le bombe scoppiavano fragorose facendo tremare le fondamenta, gli prendeva un’ansia profonda per il timore di morire sotto le macerie. Il rifugio gli sembrava una trappola per topi. Appena scesi nel sotterraneo, c’erano degli animosi che cercavano di farsi e fare coraggio scherzando con la voce rotta dalla paura. Ma ai primi scoppi tutti zittivano d’improvviso e movevano silenti le labbra, chi in preghiera, chi coprendo con le braccia i piccini, chi stringendosi l’uno con l’altro. 5^ puntata. Mentre la guerra imperversava, i monelli del quartiere si davano un gran daffare per divertirsi e passare il tempo. Il gioco più praticato era quello del carrettino di legno a tre ruote con cuscinetti a sfere (anzi un semplice assone con tanto di manubrio per sterzare: una tecnologia avanzatissima…), col quale si facevano delle sfide memorabili per superarsi in curve a gomito. Essendo eternamente il più piccino, Bianconeve non ne possedeva uno, ma lui tifando per gli altri era come se l’avesse avuto. Le gare si facevano lungo i viali pubblici e le strade periferiche della città, ma i vigili non volevano per il gran fracasso e il pericolo per i passanti. E allora appena comparivano, tutti a scappare a gambe levate. I più ardimentosi si cimentavano anche col carburo. Lo mettevano in scatolette chiuse aggiungendo acqua e poi le coprivano con monticelli di terra. Poi i monelli aspettavano al riparo che saltasse per dilatazione interna con un bum rumoroso a mò di bombetta, schizzando la terra tutt’intorno. Il Meschinello non ci provò mai perchè non aveva i soldi per il carburo (chi oggi l’ha più visto?) che si acquistava di nascosto dal rivenditore di biciclette. Ma il divertimento più pericoloso consisteva nel mettere ciottoli sui binari del tram, per vedere come li stritolava. Se erano troppo grossi, il tranviere si fermava per non deragliare, scendeva e li toglieva, imprecando contro i monellacci ben nascosti che spiavano l’accaduto. Anche Bianconeve ci provava, ma con i sassolini che riusciva a trovare: e purtroppo il tram non si fermava mai e nemmeno deragliava… Un altro gioco bellissimo era quello con le scatole vuote di legno della marmellata Quarenghi. Tirandole avanti e indietro con doppio filo di spago, i compagni di ringhiera si scambiavano da un balcone all’altro , sopra l’ampio cortile, giornalini (meravigliosi quelli dell’Uomo mascherato…), biglie ed altro. Ma Lazzarillo non possedeva niente da barattare e se ne stava a guardare i più grandi. Lui aveva in tasca solo un paio di biglie di terracotta (mica quelle di vetro screziate…), rubate ai compagni disattenti durante le sfide: ma non poteva farle vedere per non essere scoperto. Tutti giochi di ripiego, come si vede, in un tempo in cui la gente tirava la cinghia a causa della guerra. 6^ puntata. Avvenne (misteriosamente per Bianconeve) che zio Ciccio dopo meno di un anno tornasse dal fronte, rioccupando il posto di Dirigente Capo in Prefettura. Ma qui avvenne un fattaccio. Un giorno sul divanetto del suo ufficio, si mise a scopare una dipendente. Scoperto sul più bello da un usciere, il fatto fece scalpore nell’ambiente. Una mattina Bianconeve vide uscire di corsa tutta aggrondata zia Fata Turchina, che sotto i portici prese a ombrellate la malcapitata chiamandola puttana pubblicamente. Rientrando poi tutta soddisfatta a casa. Zio Ciccio per punizione venne trasferito in una cittadina romagnola, ove ancor oggi il sommo Dante dorme sonni tranquilli. Il Meschinello però non seppe mai quando Ciccio, scontata la pena, fosse stato reintegrato. Intanto la città era diventata un inferno. Bombe da tutte le parti. La Fata Turchina allora si trasferì come sfollata prima in un paese confinante, e poi per sicurezza in mezzo ai monti di una valle a nord, proprio ad un tiro di schioppo dalla condotta medica del fratello Papà Cattivone. Si trattava di un paesino tipo Rio Bo (che d’ora in avanti chiameremo Poggio Ridente), non per caso proprio quello ov’era nata la terribile Pecoraia. Il piccino e i parenti vi restarono rifugiati fino alla fine della guerra. In quel torno di anni gli si aprì un nuovo mondo suggestivo. Un mondo di scoperte e di giochi. E là v’erano anche altri sfollati, con bambini più o meno della stessa sua età. 7^ puntata. Poggio Ridente era un paesino di cinquanta abitanti, salito a settanta con gli sfollati. Adagiato su un pianoro, a sud ammirava il panorama sottostante, a nord s’inerpicava subito sui monti. Era diviso in due contrade, quella di sotto e quella di sopra, poche case rustiche accorpate ciascuna attorno ad una fontana pubblica. L’acqua freschissima (chissà se potabile secondo i moderni criteri sanitari…) veniva trasportata a mano nel secchiaio di casa, ov’era bevuta con la casseruola di zinco. D’estate le mosche cadevano nei secchi pieni e venivano buttate via a colpi di mestolo, con gesto altamente professionale… Le due vasche erano a doppia partitura: in quella inferiore si lavavano i panni, in quella superiore si risciacquavano e il mattino e la sera vi si abbeveravano le mucche e gli equini. Nelle lunghe sere d’inverno gli abitanti per risparmiare si riunivano nelle stalle al tepore animale, solo la luce di una lanterna. Dal lato del fieno le donne e i bambini, vicino alle bestie gli uomini; tutti seduti su sgabelli a tre gambe , fatti a mano dai contadini. Erano i momenti più belli per i più piccini, gli occhi sgranati ad ascoltare discorsi sentimentali allusivi che non capivano, ma soprattutto le storie di fantasmi e di mostri. Il racconto più terribile e terrorizzante era quello che narrava di diavoli a custodia di un tesoro nascosto dietro una edicola votiva diroccata a metà strada della valle. A mezzanotte, quando le donne tornavano dal lanificio, i satanassi uscivano di colpo spaventandole a morte. Le donne e le ragazze grandi ridevano divertite al racconto, ed accennavano ai fantasmi chiamandoli per nome (Giacomo, Piero, Giovanni, ecc.) come fossero degli umani che le aspettassero al varco… Bianconeve in quelle sere, al momento di andare a letto, vedeva assassini dappertutto nelle ombre sinistre della notte, e bisognava spingerlo a letto con le buone e le cattive. 8^ puntata. Un mattino Bianconeve se ne andava bighellonando poco fuori del paesello. D’un tratto sentì un rombo diffuso di motori aerei. Ed ecco d’improvviso solcare il cielo un paio di caccia che s’inseguivano l’un con l’altro volteggiando in capriole. Un secco crepitio di mitragliatrici, senza che lo spicchio di cielo azzurro incorniciato dalle montagne lasciasse intravvedere bene nella sua pienezza il duello aereo. Pochi secondi, e gli piovve addosso una gragnuola di bossoli bei grandi dal lucido colore ottone. Lui avrebbe voluto raccogliere i preziosi cimeli, ma si ricordò degli avvertimenti degli adulti: per nessun motivo prendere in mano oggetti di guerra; potevano esserci munizioni inesplose o oggetti esplosivi in grado di mutilare (penne, bamboline, ecc.). Rinunciò a malincuorre a quei trofei… Certe sere poi vedeva in casa un via vai sospettoso di adulti. Tutti intorno ad una Radiomarelli a valvole sintonizzata sulle onde corte. Bum… bum… bum… , faceva tra fruscii ed alti e bassi: qui radio Londra, vi parla Ruggero Orlando… Appena i monelli facevano capannello incuriositi, i grandi li cacciavano dalla stanza: via, via, andate via! Dai loro discorsi e mezze parole, si capiva del divieto di ascoltare tale emittente, a rischio di denunzia dei vicini… Bianconeve ricorda solo i bollettini ufficiali delle vittoriose armate italo-tedesche che abbattevano aerei e affondavano navi del nemico a iosa. Tra i sorrisetti degli adulti sintonizzati sull’EIAR. Un altro giorno si era inoltrato con altri grandicelli lungo una roggia, a caccia di farfalle e sassetti colorati. D’un tratto sentì un gran vociare: tutti gli amichetti intorno spariti e dalle finestre le fantesche a gridargli di rientrare subito. Pochi secondi, e con stupore vide ai suoi piedi un grandinare di bossoli piovuti dal cielo. 9^ puntata. Un certo pomeriggio l’intero paesello entrò di colpo in agitazione. Tutte le donne si erano sparpagliate di corsa per i campi e lungo i sentieri per avvisare i loro uomini. I vecchi borbottavano: «I fascisti, il rastrellamento!». Dall’alto del poggio si intravvedevano dei puntolini neri sparpagliati arrancare sugli erti costoni, con rari spari smorzati a cui in controcanto replicavano degli spari. Una volta arrivati in paese, due di quei ceffi ansanti chiesero a Bianconeve se avesse visto degli uomini passare. Il bambino spaventato e senza nemmeno rendersene conto indicò loro un sentiero sbagliato. Che anche lui inconsciamente avesse contribuito alla Resistenza? Intanto nuovi giochi assorbivano il piccino. Quello più spettacolare, avvincente e di squadra era il «ciàncol», ossia la lippa. Un corto bastoncello ben levigato, un fuso di legno a due punte, un cerchio nello sterrato, e via! Ciàncol», chiamava il battitore. «Venga!» rispondeva l’avversario. Volava il fuso nella corte, veniva rilanciato a mano nel cerchio, se colpito al volo spedito il più lontano possibile, le distanze misurate a «cannelle», il punteggio che arrivava fino a 200… Tra il baccano ed il tifo dei piccini ai lati, che tenevano il conto, sbagliando regolarmente nella gazzarra della competizione. Era bello perchè, alla sera, partecipavano i grandi, ed i bambini imparando facevano solo da contorno. E questo fino al primo buio. D’estate poi si smontavano le catene dei camini. I grandicelli le legavano alla bici tutta rotta e le trascinavano lungo le strade polverose (non esisteva l’asfalto), lucidandole alla perfezione. Il nostro pischello invece doveva limitarsi, per la sua povertà, a tirarle a mano di corsa, ma senza i brillanti risultati degli altri. 10^ puntata. Ma Bianconeve a Poggio Ridente andava anche a scuola, mica giocava soltanto… Nel paesello c’era una classe unica per tutte e cinque le elementari. Una quindicina di scolari con una sola Maestra. Ed era già un miracolo. Lui ricorda solo poche cose. D’aver inzuppato nel calamaio la treccia della bambina del banco avanti, con successivo grande casino generale… Che una mattina la Fata Turchina era entrata in classe parlottando con la Maestra (poi a casa seppe che non si potevano scrivere sul quadernetto a righe frasi tipo «le fragole maturano in giugno», «in autunno cadranno le pere», ecc. Perchè erano i messaggi di Radio Londra, proibitissimi. Il quadernetto venne bruciato, con suo grande dispiacere perchè vi si era dedicato disegnando bei fiorellini… Poi il gabinetto! Un casotto di assi sospeso, fuori classe, con al centro un buco da dove la cacca e la pipì cadevano nel prato, d’estate tra mosche ed altro. La carta non esisteva, men che mai quella igienica che non si sapeva nemmeno cosa fosse: forse pezzi di giornale, per chi li aveva. Pericoloso sbagliare coi piedi, si rischiava di precipitare di sotto… Tutti i bambini che potevano dovevano portare da casa un ceppo di legna per riscaldarsi con la stufa piazzata al centro della classe. Lazzarillo non ricorda di aver mai imparato qualcosa. I compiti a casa non esistevano. Per cui i pomeriggi erano tutti liberi per i giochi e le esplorazioni. Poggio Ridente di Sotto, dove abitava, era tutto a ridosso della bella chiesetta, con a lato la canonica ed un orto rigoglioso, vietatissimi a bambini e adulti. Il Parroco la domenica faceva prediche misteriose e minacciose, che però zio Ciccio diceva essere molto intelligenti tenuto conto dello sperduto villaggio. Perchè zio Ciccio dal capoluogo ogni settimana saliva al paesello per riunirsi alla famiglia. Portando carne ed altre provviste. Aveva persino imparato ad andare in bicicletta, lui che non vi era mai salito. Arrivava tutto sudato, tra le feste dei familiari per l’impresa superata. 11^ puntata. Un mattino d’estate Bianconeve sentì in casa che si sarebbe andati alla caverna dell’Eremita. La cosa lo prese molto perchè Fata Turchina era meridionale, senza dimestichezza con la montagna, e quindi per smuoverla nell’avventura la cosa doveva essere importante. Fatto sta che partirono di buona lena, arrancando lungo la schiena di una montagna, con una guida del posto. Lassù entrarono veramente in una grande caverna, molto pulita e levigata, su due livelli di roccia. In basso stalattiti, in alto un fuoco spento per terra, un ricovero di pietra con pagliericcio di fieno. Ma soprattutto una sagoma a forma di piedone impressa nella roccia viva. La guida sentenziò sorridendo maliziosamente che fosse l’orma del diavolo, che tutte le sere tormentava il sant’uomo con schiere di donne nude… La cosa impressionò oltremodo Lazzarillo. La comitiva cittadina incontrò anche l’eremita che cercava di svignarsela, sui trent’anni, una lunga barba nera, vesti da contadino, i piedi nudi in calzari a sandalo. Non ci fu verso di cavargli una parola, anzi sembrava preoccupato e seccato. Al ritorno la guida ebbe a malignare che forse era un finto eremita, rifugiatosi lassù per sfuggire all’arruolamento forzoso nelle camicie nere. Da allora non se ne seppe più nulla: anzi no, una sola voce disse che l’avevano preso e l’eremita non c’era più. Un paio di volte salì nel paesello anche Papà Cattivone, che non si sa perchè si faceva chiamare zio da Bianconeve. In verità il miserello fin dal tempo dell’affido chiamava mamma la zia Fata Turchina, mentre non ricorda come chiamasse zio Ciccio. Fatto sta che per tale situazione ingarbugliata, non seppe per anni riconoscere quale legame intercorresse tra zii, suoceri, nipoti, nuore, cognati, cugini, ecc. , in una beata ignoranza parentale. Comunque in quei tempi zio-Papà Cattivone (il piccino non ne sapeva il perchè) un paio di volte lo prese in disparte, seduti sull’erba, offrendogli come un gran dono un uovo crudo da succhiare con un buchino alla sommità. Al meschinello l’uovo così viscido faceva venir da vomitare e da allora non riuscì mai a sopportare la vista e del tuorlo e dell’albume crudi. Ancora: un paio di volte dormì anche con zio-Papà Cattivone in letti separati. Ricorda di avergli chiesto come si leggessero le ore della sveglia sul comò. Lui glielo spiegò, ma Bianconeve non capì niente… In seguito gli raccontarono che zio-Papà Cattivone si era a quei tempi a sua volta rifugiato in un caseggiato diroccato fuori dal paese ove faceva il medico, per sfuggire alle bombe. Quando cadevano, tutto impaurito si nascondeva in vicine grotte di roccia. La notte, accendendo la luce in camera da letto, vedeva sul soffitto, per terra e sulle pareti nere processioni di scarafaggi in movimento. 12^ puntata. Bianconeve ricorda che d’inverno il freddo era così intenso da soffrire costantemente di geloni alle mani e ai piedi. Le dita si gonfiavano arrossandosi con un prurito insopportabile, diventando poi viola. Non poteva grattarsi nè scaldarle al fuoco perchè era peggio. Non esistevano caloriferi allora, ma solo un camino in cucina e nelle camere da letto lillipuziane si usava la < monaca > con lo < scaldino >, quest’ultimo un bracere aperto a carboni ardenti che si metteva in letto sotto le coperte prima di andare a dormire. Però avanti d’infilarsi in letto, bisognava aprire un momento le finestre per via dell’ossido di carbonio. Il mattino i vetri delle camerette erano tutti istoriati dal gelo, con stupende figure geometriche cristalline, per via dell’escursione termica. A quei tempi diffusissime tra i bambini erano le tonsilliti e la difterite (la penicillina prese piede in loco solo nel 1946), oltre alle altre malattie esantematiche dell’infanzia. Di grup (termine dialettale locale della difterite) ebbe a morire la figlioletta di un medico vicino di condotta, collega di Papà Cattivone: con grande scalpore in paese. Altre malattie correnti in contrada erano la scabbia, la tbc, il tetano, il morbillo, la varicella, gli orecchioni, la pertosse, la rosolia, la scarlattina, il tifo. Pulci e pidocchi erano di rigore. I bambini avevano un alto tasso di mortalità. La lurida Pecoraia aveva una sorellina minore che abitava a Poggio Ridente di sotto, poco più grande di Bianconeve. Era figlia illegittima di madre vedova, e come tale vessata dalla lercia Pecoraia che si sentiva orgogliosamente legittimata e glielo faceva pesare. La Lercia aveva anche un fratello maggiore, in famiglia con la madre, appena tornato dalla guerra per i benfici di unico maschio di sostentamento. Lavorava nella fabbrica a valle, ma spendeva tutti i soldi della paga da un’ostessa vicina di casa, di cui si diceva fosse l’amante accalappiato. Quand’era mezzo di vino pare che picchiasse in famiglia, persino la madre. Trattò sempre bene e con rispetto Bianconeve. Anzi una volta gli fece uno zufolo perfetto con un tralcio di siepe. La vigliacca Pecoraia aveva altre due sorelle. Una a servizio in città e l’altra che in paese se la faceva per fame con tedeschi e fascisti. Subito dopo la guerra le rasarono la testa e lei per nascondere la vergogna per qualche mese indossò un foulard annodato. Restò incinta, partorì, andò a servizio in quel di Milano. Aveva una bella voce da mezzosoprano e vinse anche un concorso alla radio per cantanti esordienti. Era una madre molto buona.
13^ puntata. Avvenne che un mattino di novembre il casolare di Bianconeve entrasse in gran subbuglio.
Pentoloni d’acqua bollente sul fuoco, tavolacci in cucina, le donne in attesa alquanto nervose ed agitate.
Poi nell’aia si materializzò un individuo piccoletto, armato di coltelli fino ai denti: era il signor norcino, accolto con deferenza.
Si infilò in porcilaia, e d’un tratto un urlo belluino a fendere l’aria.
Il tempo di raccogliere il sangue caldo in un secchio, e il maiale di 140 chili venne trasportato in cucina.
Raschiato ben bene con l’acqua bollente, tutto il giorno se ne andò tra l’andirivieni frettoloso dei lavoranti.
La famiglia cantava soddisfatta per tutto quel ben di Dio, tra carne, salami e ciccioli di maiale (le grépole).
In quella allegria generale solo Bianconeve se ne stava inorridito in disparte.
E anche offeso: perchè durante la lavorazione l’avevano spedito a prendere lo
< sgularice > (nettaorecchie) per il maiale da un vicino, il quale lo mandò da un altro avendoglielo prestato, e questi da un altro ancora e così via, per tutto il paese.
Tornato senza l’arnese, lo accolsero delle gran risate, che l’ingenuo Lazzarillo non comprese…
La matriarca della famiglia, come già detto, era una vedova che a Biancofiore pareva una centenaria, con veste lunga, grembiule nero e zoccoli (i «sòpéi»).
Il cagnaccio enorme alla catena obbediva solo a lei, era sempre inferocito ed affamato.
Bisognava girargli alla larga per non avere guai, soprattutto per evitare la 14^ puntata. Cento metri sotto il paesello abitava un bambino coetaneo di Bianconeve, di nome Brunetto. In una casa rurale male in arnese, vicino al mulino. Un mattino in nostro Lazzarillo andò a trovarlo, divenendo subito amici. Il ragazzino in segno di simpatia prese una patata cruda, la sbucciò, gliene offrì una fetta, mangiandosi il resto. Bianconeve per imitazione addentò la patata, ma la risputò subito schifato. L’ amichetto se ne meravigliò: era tanta la fame a quei tempi da ridursi a mangiare anche le patate crude! Si diceva in giro che suo padre per la stanchezza nei campi e nei boschi (o forse per il vino…) andasse a letto direttamente con gli scarponi senza nemmeno toglierseli. Brunetto aveva un sorella di poco più grande , lentigginosa e dalla treccia rossa, di cui subito Bianconeve s’innamorò. Ma lei faceva le viste di niente, forse perchè lui era troppo piccolo o per la presunta distanza sociale. Fatto sta che lui la seguiva ovunque senza parere, come un cavalier servente. Poi un bel giorno lei sparì: l’avevano mandata a servizio in Brianza. Una bocca di meno da sfamare. Bianconeve rimase di sasso, soffrendo intense pene d’amore. Ma neanche un mese, e una nuova fiamma prese il suo posto… La sorella minore della Lercia, di cui s’è già parlato, soffriva perennemente di grup alla gola per il freddo intenso. A volte sembrava che con la tosse volesse volarsene via anche l’anima. Prima di andare a letto recitava sempre, in cucina e inginocchiata, la preghiera della sera, che così rimase in mente al pischelletto: “Fammi Gesù diletto dormire sul tuo petto, giorno e notte con te stia riposando l’anima mia. Stammi sempre intorno finchè ritorna il giorno. Al buon cuor del mio Gesù che mi ha redento il cuor consacro e mi addormento”. Si è saputo poi che forse era una preghiera fin dell’ottocento. Prima che il figlio tornasse dalla guerra, la matriarca vedova guardava per ore impietrita fuor dal finestrino della cucina per vedere se per caso suo figlio soldato comparisse nel turbinio della neve. Trattò sempre bene e con una certa deferenza il piccolo miserello. Una volta mentre gli raccontava una fiaba le sfuggì la parola < amante >, che subito ritrattò dicendo di essersi confusa. Bianconeve non ne capì il significato, restando però colpito dal fatto. 15^ puntata. In un vicino paesino a valle, dove esisteva una minuscola centrale elettrica, abitava Otto, un militare tedesco di basso grado. Otto era buono. Alle bambine di primina diceva «forza, il grembiulino» e gettava loro dal secondo piano delle caramelle. Ad una di esse, dai capelli biondi quasi chiari, diceva che le ricordava la sua figlioletta lasciata in Patria. Le regalò addiritttura un bella bambolina, la quale divenne l’invidia di tutte le amichette. Un dono tanto raro in quei tempi di magra che la piccola beneficata la custodiva gelosamente, facendola vedere solo di tanto in tanto alle altre bambine. Il giorno innanzi i periodici bombardamenti tedeschi, Otto avvertiva sempre i paesani con un «raus» perentorio a che si tenessero lontani. Ma gli Stukas sbagliavano sempre la mira sia perchè la centrale aveva il tetto mimetizzato in grigioverde sia perchè era riparata in una gola tra le montagne. Verso la fine della guerra venne preso dai partigiani e fucilato. A molti dispiacque. Rimase in casa solo il suo libretto di identificazione militare, ov’era scritto che era delle SS. La mamma-zia Fata Turchina si faceva aiutare nelle faccende domestiche dalla locataria contadina, di una certa età. Un pomeriggio essa stava mescolando in una ciotola degli ingredienti per una torta paesana. Ad un certo punto disse in dialetto alla Fata Turchina: “Mi devi scusare se ho il raffreddore e se qualche goccia mi cola dal naso e cade nell’impasto…”. Ne sortì un pandemonio e quella volta la torta finì alle galline. Intanto la preparazione religiosa di Bianconeve era al di sotto dello zero. Nessuno che in casa pregasse o parlasse di Dio, i contadini bestemmiavano da matti, ma di domenica la chiesetta era strapiena. Talvolta si celebravano anche le rogazioni per impetrare la pioggia: processioni con baldacchino, turibolo e prete in testa. Intanto la sorellina minore della vigliacca Pecoraia, quella illegittima come Bianconeve, la sera continuava a recitare le orazioni al buon Dio. Lui che la sentiva sempre ciaccolare ne ricordava anche questa: “Angioletto del buon Dio cosa fai vicino a me? Sono l’Angel del Signore, son l’amico del tuo cuore. Quando dormi, quando vegli sempre sempre son con te!”. 16^ puntata. Accadde verso mezzogiorno. Da sud a nord gli Stukas cominciarono a bombardare in picchiata la ferriera della valle, convertita in produzione di guerra. Inutilmente: sfiorando in ripresa Poggio Ridente. La comunità allora, come al solito, cercò rifugio nella grotta naturale a piè del monte della contrada di Sopra. Un bambino di sei-sette anni trascinava per mano la sorellina piccolina piccolina, che cadendo per la fretta si sbucciò le ginocchia, ma non pianse perchè non c’era tempo. Le sirene a valle lanciavano il lugubre allarme. Nella caverna una mamma teneva due dita in bocca alla sua neonata, abbassandole la lingua perchè lo spostamento d’aria non la soffocasse. Gli scoppi erano sempre più ravvicinati, tremendi e spaventosi. Un adulto, di circa trent’anni, famoso bestemmiatore del paesino, ad un certo punto si mangiò ingoiandolo un santino (immaginetta sacra) invocando pietà e perdono. Tra lo sgomento di Bianconeve impietrito dal terrore (poi con l’età matura, anzi maturissima, comprese che chi bestemmia a torto o a ragione è persona che cerca Dio più degli altri, pur arrabbiatissima per il suo eterno silenzio). Quando ne aveva occasione il miserello andava a visitare di straforo la fornace di un paesino vicino. Dall’alto i manovali gettavano le pietre della cava in un grosso camino verticale, ove cuocevano nella fornace e ne uscivano in blocchi asciutti di calce viva, che poi i muratori lavoravano spegnendola con l’acqua in ampi cerchi bianchi. La calce spruzzata nei pollai serviva anche per bonificarli dai parassiti. Le donne, quando il forno veniva spento, ci portavano il pane, i dolci, ecc. per farli cuocere al residuo calore. Bianconeve, imitando i ragazzi grandi, accendeva a brace certi bastoncini di legno delle siepi, fumandoli a mò di sigaretta. Le more, grosse e succose, erano dappertutto: i monelli ne facevano scorpacciate, la bocca e le mani blu scuro… Era però proibito mangiare la frutta verde, perchè i grandi dicevano che faceva venire il tifo e si moriva. Accanto dove abitava, c’era un’osteria nella stessa cucina dei trattori (un tavolaccio, due panche…) dove i paesani giocavano a carte, alla proibitissima morra, si ubriacavano e cantavano fino a notte fonda, sperperando i pochi soldi che avevano. Le madri di famiglia alla fine ottennero dalla fabbrica a valle di poter riscuotere personalmente la < quindicina >, prima che i congiunti la dissipassero riducendo la famiglia alla fame. L’osteria era sopra il piano terra, con un balconaccio di legno. Una notte il cugino grande sfidò Bianconeve a passare di corsa sotto un getto d’acqua che a intervalli scendeva dall’alto. Naturalmente perse, bagnandosi tutto, tra le risate di scherno di tutti i monelli. S’avvide poi, su loro indicazione, che il cielo era sereno e che l’acqua era la pipì degli ubriaconi che se ne liberavano facendola sulla corte attraverso la balaustra. Intanto la sorellina buona della puttana Pecoraia continuava le sue preghiere serali borbottando a voce bassa. Bianconeve ricorda anche questa: «Io vado a letto con l’Angelo perfetto, con l’Angelo di Dio, con san Bartolomio, con la Madòna benedetta, con santa Elisabetta, coi dodici Apostoli, coi quattro Evangelisti. Tutte le sere se questa preghiera io dirò cattiva morte non farò». 17^ puntata. Un bel giorno, di primo mattino, zia-mamma Fata Turchina caricò tutto su un carretto e coi ragazzini se ne partì.
Da sfollati se ne andarono ad abitare nel paese capoluogo a valle, dove il fratello faceva il medico.
Col tempo Bianconeve realizzò che c’era stato l’armistizio dell’8 settembre 1943, con le speranze sulla fine della guerra.
Senonchè i tedeschi continuarono a bombardare dall’alto e la ferriera e la centrale elettrica poco distante, senza mai centrarle a causa delle montagne troppo ravvicinate.
Di quel periodo e fino al maggio 1945 (fine del conflitto mondiale in Italia) il monelletto ricorda solo poche cose.
“Pippo”, che di notte ronzava sul paese e i vetri delle finestre
oscurati con la carta-zucchero azzurra per non farsi individuare.
Tutti dicevano che era un pericolo, ma a lui piaceva tanto quel puntolino vagante lassù in cielo.
Le prime vere scarpe (di cartone), con la punta ed il tacco rinforzati da lunette di ferro inchiodate: per ridurne il consumo.
Le «baracche degli zingari», in realtà prefabbricati per la povera gente senza casa per via della guerra.
La colonna motorizzata dei tedeschi che attraversò il paese diretta al nord.
Si diceva che fosse intervenuto un patto di reciproca non aggressione: loro non avrebbero fatto razzie e rastrellamenti, i partigiani li avrebbero fatti passare.
Comunque a maggio del 1945 zio Ciccio se ne partì con la famiglia in biroccio per la città capoluogo ove lavorava.
Era un mattino, che vide il calesse prendere il largo, con il moccioso Bianconeve a rincorrerlo urlando e piangendo «Mamma, mamma…!». Da quel giorno la Fata Turchina divenne solo zia e zio-Papà Cattivone solo papà.
Iniziò da allora la tragedia esistenziale del nostro Lazzarillo di provincia, caduto nelle grinfie della kapò Pecoraia.
18^ puntata. Accanto al ragazzino si era mossa parte della Storia. Ora la storia diventava lui stesso. La lercia Pecoraia lo prese per un braccio, livida di rabbia, e lo trascinò in casa, quella in cui viveva con Papà Cattivone. Con un ceffone mise subito in chiaro chi era l’animale dominante. Mentre il suo amante in quel mattino era per visite, gli indicò gli spazi in cui gli era possibile muoversi: la cucina, il letto, la scrivania del padre, i servizi igienici. E subito lo mise a giorno del suo ruolo: il servo di casa. Per prima cosa lo mandò a fare la spesa. Uno sportone del tempo, a fatica trascinata per la via. La gente da allora lo vide sempre affacendato in negozi, e non diceva nulla. Gli amici monelli sparirono dalla sua cerchia e lui passava ore e ore da solo fantasticando sulle poche pubblicazioni in casa. Ad esempio mandò a memoria la storia della Madonna di Pompei e del suo servo, beato Bartolo Longo. In un cassone trovò i resti delle vestigia fasciste: il fez, la divisa nera, gli stivaloni, che il proprietario si ostinò sempre a dire di non aver mai indossato. E gli tornò alla mente l’episodio, narrato in famiglia da zio Ciccio, sullo zio Piero, ostinato antifascista e pertanto discriminato sul lavoro e sempre a rischio di licenziamento. Finchè stufo delle angherie prese la tessera del PNF e vestito di tutto punto con la divisa fascista passeggiò pavoneggiandosi sotto i portici della città. Era proprio l’8 settembre 1943: zio Ciccio lo prese di forza e lo sottrasse al pericolo di linciaggio… Da leggere v’era poco altro: qualcosa sul classico, un pamphlet su una banca locale fallita, risicate pubblicazioni d’arte. Si mangiava nella stessa stanza dell’ambulatorio medico. Alla sera sempre nello stesso locale si apprestava il divano-letto per Papà Cattivone. Il miserello dormiva con la vigliacca Pecoraia nel locale comunicante, in letti separati. A fianco del fabbricato scorreva una roggia putrida: uno dei compiti di Bianconeve era di annegare le pantegane catturate in casa sotto una fontanella esterna al caseggiato. Non passava giorno che non gli arrivasse una sberla educativa, tanto per non perdere tempo in spiegazioni. La Lercia era piccola (1,60 di altezza), tracagnotta, brutta, coi bottarelli (= polpacci) da montanara, 3^ elementare, povera, cattiva di animo. In casa trattava Papà Cattivone in malo modo, e lui come un agnellino le correva dietro. In maturità Bianconeve si convinse che il padre soffrisse della sindrome masochista, e che gli piacesse essere maltrattato. Non c’era altra spiegazione. Un giorno a tavola gli cadde un boccone sulla camicia: «sporcaccione» gli inveì la Pecoraia, e lui tutto mogio mogio lo recuperò e se lo mangiò, con sguardo sottomesso. La domenica pomeriggio stava della ore con lei dietro le persiane socchiuse, appoggiati coi gomiti al davanzale, parlottando e sparlando di chi passava nella via. 19^ puntata. Nel 1945, a fine guerra, tornò un reduce, vicino di casa.
Malandato poveretto, minato dalla malaria e dalla tbc.
La sera si andava da lui per sentire le sue storie di guerra.
Mondi meravigliosi, terre lontane, prigionia in India, nostalgia della Patria, il ritorno.
Durante il giorno lo si vedeva spesso, sofferente, dietro le tendine della finestra.
Poi d’un tratto non lo si vide più: era andato a riposare in pace nel cimitero del paese.
Il sadismo della Pecoraia non aveva limiti.
Un pomeriggio gli si presentò con un uovo crudo in mano.
Praticò con l’ago della lana un buchetto in cima e gli ordinò di berlo.
Bianconeve senza i nani a protezione ebbe un bel dire che l’uovo crudo gli faceva schifo: la cosa sembrò oltremodo interessare la fetentona.
Al primo assaggio egli protestò che era andato a male, come effettivamente era.
Macchè, una gragnuola di sberle e pugni, preso per i capelli e faccia in su dovette berlo a forza.
Si rifugiò di corsa al gabinetto, vomitando l’anima.
L’odio ed il terrore furono per sempre suoi compagni di viaggio.
Ma, direte voi, perchè non lo diceva al padre!
Si fa presto a dirlo.
Tralasciando l’età, egli rimaneva poi tutto il giorno nelle grinfie della satanassa, dimenticato dal genitore.
Il rapporto poggiava ormai sul binomio persecutrice-vittima, in tempi in cui non esistevano altri familiari a soccorso, i vicini si facevano i fatti loro, il telefono azzurro ancora da inventare.
Durante la guerra si narrava che la popolazione locale si fosse impegnata a riedificare una chiesetta diroccata in cambio della protezione della Madonna contro i bombardamenti.
Effettivamentie questi ultimi non ebbero mai esito devastante e le bombe sganciate andavano regolarmente a cadere in una località distante e deserta, in seguito chiamata < bumbì > per i residuati bellici accumulatisi.
Fatto sta che finita la guerra, il voto venne sciolto, il Santuario costruito e denominato Madonna della Rocca.
I festeggiamenti durarono tre giorni, e così per tanti anni di seguito.
Da mane a sera musica sacra a tutto volume (un incubo l‘«Ave Maria» di Schubert…), verdi archi trionfali, processioni, Messe, lotterie con ricchi premi.
Balli e balere niente, per carità, tuonava il Parroco.
Intanto Papà Cattivone, in luogo del biroccio a cavallo (chissà dove li tenesse…), ebbe a comprarsi nel 1948 una Fiat millecento blu, la prima e unica automobile in paese.
Per andare a fare le visite nell’ampia condotta.
Un giorno nel fare una curva tagliò di netto la gamba di una ragazza a bordo di una Vespa (a quei tempi le donne, avvinghiate al guidatore, sedevano sul seggiolino posteriore con le gambe al vento entrambe esposte a dx o sx).
Papà Cattivone per risparmiare aveva sottoscritto una polizza R. C. bassa, che non coprì l’infortunio.
Perse la causa, con la Pecoraia portò più volte l’infortunata al Rizzoli di Bologna per la protesi, spese una fortuna per il risarcimento.
Destino volle che la poveretta morisse per altre cause successivamente, senza godere dei soldi.
In quegli anni ogni tanto Papà Cattivone comprava la domenica il Corriere dei Piccoli, con le magnifiche avventure del signor Bonaventura.
Ma la disattenzione lo colpiva per lo più, fino a dimenticarsene del tutto, con gran disappunto di Lazzarillo dai calzoncini corti. 20^ puntata. Agli inizi del 1946 comparve per la prima volta il pane bianco sulla tavola. Sembrava incredibile a vedersi, così gonfio, così morbido, così candido. Bianconeve senza i nani fu mandato anche a scuola: privata, forse per non fare emergere la sua posizione di illegittimo, a scorno del padre (ma in paese lo sapevano già da anni…). Il miserello cadde dalla padella nella brace. Il maestro incaricato era invero buono e bravo. Ma insegnando nelle scuole pubbliche non aveva tempo a disposizione. Pertanto l’affidò alle cure della moglie, donna stizzosa e manesca, ex crocerossina, resa insensibile dalla sterilità del grembo. Fatto sta che costei pretendeva di far studiare il ragazzino a suon di scapaccioni. In aggiunta a quelli di casa. Furono mesi di calvario, al quale Bianconeve cercò di porre rimedio non andando più dalla picchiatrice, rifugiandosi in un androne del paese buio e sporco, pieno di pulci, nel freddo dell’inverno. Dopo un paio di settimane, su segnalazione dei paesani, suo padre di persona venne a sincerarsene sul posto. Va da sè che la razione di botte raddoppiò da parte della serva padrona (si deve dire a onor del vero che Papà Cattivone non lo toccò mai con un dito nè allora nè mai): ma si ottenne almeno il cambio dell’insegnante. La nuova maestra, nubile con madre a carico, fu donna esemplare e il profitto negli studi ebbe un’impennata. Nel contempo il genitore comprò una nuova casa e si traslocò. Il paese era attraversato da un fiume importante, con un affluente che scendeva dalle parti di Poggio Ridente, di poca portata. Sul greto di questo rivo svolazzavano a centinaia belle farfalle d’ogni tipo. Durante una piena, un bimbetto che vi si era avventurato per prenderle fu travolto dalle acque ed annegò. Il fatto fece enorme scalpore tra la popolazione. . Papà Cattivone e zia Fata Turchina non erano fratelli di sangue, ma fratellastri. Infatti alla morte della moglie (madre del primo), il nonno colonnello sposò la di lei sorella, secondo un costume meridionale del tempo a solidarietà familiare, dalla quale nacque Fata Turchina. Un’estate zia Fata Turchina venne a trovare per qualche giorno il fratello medico nella nuova casa, una villa con otto stanze, orto e giardino. Furono momenti molto belli per Bianconeve, che le saltava al collo con affetto. Mentre la perfida Pecoraia schiumava di rabbia. Siccome la zia era ben messa, con un bel «davanzale» davanti, Lazzarillo ingenuamente le chiese se le poppe fossero piene di latte, tra le risate generali. Tante risate anche quando lui si presentò vestito con gli abiti larghi della zia… Ricorda che le disse «quando sarò grande ti comprerò tanti bei vestiti!». Ma accadde un fatto strano, Un giorno la zia fu colta da mal di pancia e diarrea a non finire. La sentì dire che era stata avvelenata dalla sporca Pecoraia, che le avrebbe somministrato di nascosto la «silappa», potente purga per cavalli. Fatto sta che la Fata Turchina se ne fuggì alla veloce nè più ritornò. E per Bianconeve furono guai peggiori, sottoposto a male sevizie dalla vendicativa servaccia. 21^ puntata.
Partita zia Fata Turchina, la vita si fece subito dura.
Un giorno la serva gli disse di portargli il vaso del riso.
Non si sa come, gli cadde per terra e tutti i chicchi si sparpagliarono intorno. Divenne di brace dallo spavento.
La lurida Pecoraia lo assalì a calci e pugni, poi preso un ombrello glielo fracassò sul groppone a forza di colpi.
Bianconeve si mise dolorante e senza una lacrima a raccogliere i grani uno per uno. La disgraziata inveì: «Tu giochi, bestia!! e rafforzò la dose del pestaggio.
La sera i lividi in volto vennero giustificati all’amante menefreghista con un «non sa dove mette i piedi ed è caduto».
Da grande Bianconeve ebbe a pensare che forse i due volevano disfarsi di lui, chè tanto ci avrebbe pensato poi il padre ufficiale sanitario a passare l’evento per incidente fortuito. Senza esami necroscopici (a quei tempi poi…).
Il miserello viveva isolato in un mondo di fantasia tutto suo.
Una volta scoperse per caso alla radio che esisteva il gioco del calcio: dalla radiocronica in diretta della nazionale di cui però non capì nulla non conoscendo le regole.
Un mattino, mentre giocava facendo rotolare un cerchione di bicicletta da una discesina del paese, se lo fece sfuggire di mano e quello andò ad impigliarsi tra le zampe anteriori di un cavallo di passaggio, che se le ruppe.
Bianconeve fuggì a gambe levate, ma il carrettiere indagò e si fece risarcire dal padre.
Miracolosamente non subì punizioni.
La sera d’inverno la moglie del reduce defunto veniva a casa di Lazzarillo con la figlia undicenne Lucia. Per riscaldarsi alla stufa.
La ragazzina aveva preso l’abitudine di uscire subito e più volte con Bianconeve accampando cento scuse.
Appena fuori dalla porta lo sbaciucchiava e frugava, tra lo stupore ingenuo del bambino. Quando lui lo disse in famiglia, la Lucia fu cacciata a letto senza cena e non la si vide più.
Una sera la serva con una cugina portò il ragazzino a vedere un film di cappa e spada nel cinemetto del paese: divertimento eccezionale nell’immediato dopoguerra.
Fu tale lo spavento alla vista delle torture inflitte (strappavano le unghie ad un prigioniero…) che scivolò a terra mollando la pipì.
Avvenne un giorno che il miserello avesse commesso una grave mancanza, a sentire l’aguzzina.
La quale, dopo averlo al solito preso a pugni e a calci, gli cozzò a due mani il capo contro la parete più e più volte, schiumando di rabbia fino a lasciarlo rintronato.
Lo chiuse poi a chiave in cantina per tutto il pomeriggio, fino a sera, al buio. Prima di cena lo liberò, come se nulla fosse accaduto, nè il genitore si preoccupò di quelle fonde occhiaie blu. 22^ puntata. Ci sono stati dei misteri che neppure da grande Bianconeve seppe mai spiegarsi. Uno di questi, che la serva Pecoraia si rivolgesse a Papà Cattivone dandogli sempre del lei. Mentre lui le dava del tu. Mai una volta che si fosse sbagliata in presenza del piccolo. Un altro aspetto fu che non notò mai un moto di affettuosità sentimentale tra i due, che so un abbraccio, un bacio, una carezza. E infine che in macchina la serva sedesse sempre sul sedile posteriore, e Bianconeve sempre davanti, come a salvare le distanze relazionali, almeno formali. Un Capodanno padre e figlio andarono a festeggiare in città a casa della zia Fata Turchina. La carogna Pecoraia rimase in macchina al freddo dell’inverno dal mattino al pomeriggio inoltrato: quando tornarono lei aveva le labbra violace e lo sguardo violento. Una forza d’animo eccezionale , da badessa conventuale medievale… Un’estate la Pecoraia litigò col padrone, rifugiandosi al paesello natio (Poggio Ridente). L’amante la rincorse dopo un paio i giorni, regalandole denaro e gioielli (orologio, collana e anello di brillanti) che non mise mai alla presenza di Bianconeve. Papà Cattivone con figlio e serva soleva a settembre passare le acque a Montecatini Terme. Un anno, al ritorno ed alla stazione in attesa della coincidenza del treno, la vigliacca Pecoraia prese in disparte il povero disgraziato di Lazzarillo minacciandolo: «A casa faremo i conti!». Lui non sapeva il perchè, ma una volta rientrati la guerra ebbe inizio. Bianconeve dall’ottobre a dicembre si rifugiò in camera sua (senza caloriferi) in volontario isolamento, coprendosi di stracci per il freddo, scendendo a mangiare solo a pranzo e cena, senza mai proferire parola. A Natale la delinquente stupita dovette cedere e rivolgergli la parola, firmando una tregua. Il poverello non ricorda più come ciò fosse potuto accadere senza andare a scuola. Tanto violento fu lo stress subito. Probabilmente l’avevano dichiarato malato. 23^ ed ultima puntata. Avvenne che un pomeriggio il povero Bianconeve commettesse una grave mancanza. Quale non si sa, ma la perfida Pecoraia la ritenne degna di nota. E minacciosamente: «Lo dirò a tuo padre, così ti ammazzerà di botte». Il miserello ormai non ne poteva più. Oltre a quelle della servaccia, ora anche Papà Cattivone ci avrebbe messo del suo. E prese la gran decisione, una volte per tutte. Verso sera, prima di uscire a prendere il latte (mansione da sempre di sua competenza), si tracannò una buona dose di barbiturici, lasciati incautamente incustoditi nell’armadietto dell’ambulatorio casalingo, prese la bottiglia vuota del latte e s’incamminò verso la ferrovia invece che dai contadini. Si svegliò il mattino in ospedale, raccolto da sotto un cespuglio. La lavanda gastrica malauguratamente lo salvò. Lo misero in Collegio in altra città ben distante ed ivi abbandonato. Fu la sua salvezza, almeno dalle percosse. La prima estate utile, durante le vacanze, la Lercia tentò nuovamente di aggredirlo. Ma Bianconeve, ormai cresciutello e fisicamente rinforzato, l’abbrancò e fece per annegarla nella vasca dell’orto piena d’acqua. La fetentona riuscì a divincolarsi e a darsela a gambe. Da allora non lo toccò più con un dito, ma stese la sua subdola rete psicologica a rovinarlo verbalmente presso l’amante. E qui si chiude definitivamente la historia dell’infanzia di Bianconeve senza i nani a soccorso, misero Lazzarillo di uno sperduto paesino di provincia.
Appendice: Dopo tremendi maltrattamenti psicologici sostanziantisi in privazioni materiali, il giovane Lazzarillo se ne fuggì di casa. Una settimana da randagio nei boschi, dormiente sulle panchine pubbliche della città, ospite della mensa dei poveri e dei dormitori pubblici, venditore di automobili, agente assicurativo, prefetto in un orfanatrofio, laureato, diplomatico fallito, primo in un concorso pubblico per esami su quattrocento candidati, sindacalista, portaborse politico, una decina di altri lavori… Ma questa è un’altra storia. La novelletta si rivolge a tutti i lettori sollecitandone lo sdegno, a che simili violenze non abbiano mai più a ripetersi su vittime innocenti. FINE. Contatore visite dal 01-01-1970: 1957. |
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