Fiori di sabbia (Poesie)

di

Eros Nava


Eros Nava - Fiori di sabbia (Poesie)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 48 - Euro 6,20
ISBN 88-8356-685-8

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Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 5° classificato nel concorso letterario Ottavio Nipoti Ferrera Erbognone 2002


L’elaborazione grafica delle immagini è opera di Carla Scaglione


Introduzione

Il sottile intreccio tra il tempo della memoria e il presente che lo coglie in emozioni intense attribuisce a questa nuova raccolta un’evanescente suggestione di atemporalità.
Quasi sospesi come il fruscio di un volo, di un soffio, di un alito, così come sembra suggerire il rincorrersi del suono ricorrente della consonante “f”, i ricordi affiorano veicolati dalle sensazioni e volano via.
Il passato rivive nei suoi rumori naturali, primordiali, nei giochi d’infanzia, di scuola, negli odori delle presenze umane e al suo silenzio ritorna non senza aver lasciato traccia in una nuova vitalità.
Tuttavia la memoria si espande a comprendere antiche memorie ancestrali collettive evocate nella ricercatezza di un lessico accuratamente arcaico.
Il sostantivo inusuale, l’aggettivo fortemente evocativo, le assonanze, le allitterazioni creano atmosfere senza tempo, sia pure generate dall’esperienza individuale.
I verbi, quasi assenti e comunque al presente o nei modi infiniti, non costruiscono uno sviluppo lineare della temporalità, ma un presente esistenziale, assoluto, un “hic et nunc” in cui tutto è presente.
Il divenire è concepito dal poeta come un procedere ciclico di un eterno ritorno mai, però, uguale in cui l’oggi, che pur comprende l’ieri, lo possiede fino a reinventarlo in rinnovate tentazioni emotive.
Anche il futuro appartiene al presente: è nella vita che, posta al termine di molte composizioni poetiche, anziché chiuderle le riapre.
È, dunque, VITA la parola chiave dell’intera raccolta e con essa la donna, ambivalente Penelope o Circe, madre o maliarda tentatrice, ma sempre generatrice di vita.
Il gioco dell’infanzia è ormai diventato il gioco della vita, forse grigio nella sua quotidianità, ma illuminato dal sogno che la poesia sa creare ed Eros Nava ne è ben consapevole.

Elisabetta Tassis


Fiori di sabbia (Poesie)

...l’arte è la menzogna che ci permette
di conoscere la verità...
(Pablo Picasso)


Hanno esultato

Hanno esultato
sulle spoglie dissolte
davanti a un chiostro o a un libro
con una chiave in mano.

Hanno sognato
nei contrapposti credi
le levantine stelle
dell’antico presagio.

Hanno plaudito
con accenti diversi
le ceneri roventi
di vetro e di cemento.

Hanno esultato
le squille occidentali
e ancora esulteranno
o forse piangeranno.


La foce

La foce dell’Osa
all’ancore effonde
sospiri di zolfo
un ago una pigna.

E blanda conduce
un tratto di scotta
il giunco la piuma
un petalo al giglio.

Nel campo riarso
il regio flagello
emerge fra poggi
e lingue di canne.

Dipartono acerbe
dall’acre sentiero
le dita terrestri
intinte nel mare.

L’impronta di un labbro
vermiglia abbandona
sul vivo dirupo
i resti del tempio.


Leonessa

Cidnea rupe a lungo resistemmo
fregiando di rose valli e graffiti
Cenòmani antichi dentro i castelli
sui lidi sebini e sopra i navigli.

I marmi di Roma fieri acclamammo
i fori i templi le alate vittorie
i litui nei cardi e nei decumani
forgiando sul Mella aratri ed usberghi.

Le orde degli Unni qui combattemmo
serbando il sacro carroccio a Legnano
nel cuore le croci di Desiderio
i falchi i gastaldi il trono di Carlo.

Il sacco del Garza atroce subimmo
le spose offese dai gigli angioini
fidando nel motto insigne di Marco
nell’evo sereno prima del Corso.

I rostri d’Asburgo torvi sfidammo
noi impavidi figli della leonessa
le brame le idee estreme e globali
solcando i deserti le steppe e i mari.

Ma nulla potemmo contro i fratelli
illusi signori ebbri del mondo
vassalli di un solo fatuo villaggio
venali sementi prive di terra.


Carso

Terra di roccia
dall’acqua trasmutata
e dalle sincopi di bora
vessatrice dell’arborea esistenza.

Grigia e turrita
San Servolo s’eleva
con Duino nel settentrione
sulle morenti adriatiche sabbie.

Niveo il Timavo
dal nulla sgorga mesto
suprema alabardata vena
d’effimera luce dal sale vinta.

Terra contesa
alla pietra ed al sole
nera di pini e di lentischi
dai ginepri e dalle viti sommersi.

Torba la grotta
a Postumia soggiace
sarcofago di giovinezza
dalla mistica natura forgiato.

Bianche e fluenti
danzano le criniere
nel tripudio di querce e prore
sulle asburgiche nostalgiche note.

Terra di calce
impregnata di sangue
di crude molteplici genti
fascino antico dell’impura Europa.


L’ago

Trafigge la mano
col ferro rostrato
di canapa torta
l’ordito di iuta.

Percorre veloce
spirali sapienti
e l’esule cruna
la salda sutura.

Riduce la breccia
il lampo cromato
un nodo nel grembo
del rustico grano.


Il barbiere

bottega aperta è sabato mattina
giornata piena il gregge s’avvicina

di corsa tutti qua vi faccio belli
lozioni per la barba e per capelli

la schiuma ti sommerge e l’acqua inonda
si smorza l’occhio come a notte fonda

la forbice col pettine ticchetta
un phon e poi la pelle rado netta

politica più sport fa discussione
la lagna sulle donne è una canzone

un’ultima notizia dal giornale
e paghi la mia arte ciò che vale

rifletti nello specchio vanità
l’umore presto in faccia svanirà

mondare io posso fuori la tua testa
ma il male che tu covi dentro resta


La stiratrice

Il ventre gonfio poggia
sul tavolo ammantato
i panni stesi al sole
spruzzati sulla sedia.

Un dito intinto frigge
sul ferro arroventato
il pranzo già fragrante
nel rame della stufa.

Ondeggiano nell’aria
scintille e intensi odori
la traccia di un sudore
ardente dal divano.

La rocca accanto giace
all’ago ed al ditale
il fuso e l’arcolaio
sull’umile credenza.

Un puro cuore attende
i bimbi dalla scuola
un despota sfinito
dai campi dissodati.


Fortunale

Il litoraneo drappo schiocca
sotto i refoli sciroccali
e le indecifrabili forme
di cirri rincorrono nivei
sul monte il primo tramonto agostano.

L’onda corta rincalza franta
l’umana scogliera che il mare
riparte dinanzi al cangiante
cielo di nembi all’orizzonte
occluso nel tenebroso levante.

Vorace banchetta il gabbiano
con l’esanimi valve asperse
e le chele sulla battigia
dove la pioggia e l’acqua salsa
si fondono nel vaglio della sabbia.

S’immerge l’acrocoro folto
nell’abisso e virente smorza
a meriggio l’ultimo tuono
opposto al frastuono crescente
risorto dai villaggi balneari.

Timido s’affaccia il sereno
edace è il tempo testimone
di miserabili passioni
impassibile all’impetuoso
trasmutare dell’ardente stagione.

E il pensiero corre col vento
sull’erbose piane autunnali
quando sferzerà il cacciatore
l’aria bigia con altri tuoni
e gonfierà il mondo di piombo caldo.


Idea

Nell’unico serraglio
dispensa il mestatore
il seme demagogico
la singola pastura
a specie dette avicole
di classe tutta eguale.

Ammassi di neuroni
detersi ed evirati
del capo si alimentano
beati nelle stie
per ali che non possono
in alto più volare.


Polvere

Una lama di sole
la penombra trafigge
e nell’occhio ravviva
fantasiosi lapilli
che frementi rivelano
metafisiche fonti.

Primitivi fotoni
convergenti nei nulla
ridivergono folli
col pensiero che fugge
nel lontano mistero
sulle stille del tempo.

Solo apatiche scie
d’insanabile noia
percepita da sensi
dentro un corpo raccolti
che sarà forse polvere
nella luce sospesa.

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