Homepage personale di

Eugenio Montale

Articolo di Massimo Barile – Rivista Il Club degli autori 149-150 Gennaio-Febbraio 2005)


Eugenio Montale: L’educazione intellettuale e le occasioni della poesia

La personalità di Eugenio Montale si delinea con precisione in una sorta di autopresentazione per una antologia che data agli anni ’60. Poche parole eppure folgoranti: «Non sono in grado di scrivere nulla su di me, né tanto meno per il popolo. Le mie poesie sono funghi nati spontaneamente in un bosco; sono stati raccolti, mangiati. C‘è chi li ha trovati velenosi, mentre altri li hanno detti commestibili. Il bosco… non era vergine; era stato concimato da molte esperienze e letture». Nessun riferimento alla novità della sua voce ma alla “spontaneità” delle sue poesie che nascono da una cultura che le sottintende come un terreno adatto dove il micelio possa svilupparsi: «Nacquero per una volontà, un bisogno, di esprimersi con certe parole, con parole che suggeriscono un certo mondo fisico e morale. Incontro, dunque, di sensualità (verbale) e di ascetismo. Musica più idee, o meglio compenetrazione piuttosto che addizione». Ecco il cuore della personalità poetica di Montale, quelle “certe parole” che sono lo strumento applicato con rigore per rappresentare sempre “un mondo fisico e morale”.
La sua vita non conosce grandi svolte, tempeste o sussulti.
Fin dall’inizio la premonizione, che sarà certezza con il passare degli anni, che per soddisfare la sua bruciante voracità culturale dovrà farlo nei ritagli di tempo, negli spazi tenacemente conquistati dopo la scuola, dopo l’orario di lavori incerti, dopo le ore passate nella redazione del Corriere della Sera nello stesso ufficio di Indro Montanelli: il poeta stesso ricorderà di avere sempre letto e scritto «da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale».
Ecco il carattere di Montale, uomo d’indole schiva e borghese, che, per necessità o virtù, non ha mai badato all’aureola di poeta, anzi ha incarnato la figura del poeta solitario con un comportamento definito da molti di “aristocratico distacco”.
Il suo amore per la poesia diventa sostanzialmente un fatto privato perché così il poeta lo dichiara quasi con una punta d’orgoglio. Montale sottolinea con il suo comportamento, fedele, uguale, quasi monotono, la sua idea che la poesia in quel momento (o anche al giorno d’oggi?) non aveva bisogno di gesti eclatanti e per vivere doveva solo attingere ai moti del nostro essere. La testimonianza dell’umano sentire disperso tra ordito e trama dell’avventura dell’uomo moderno: lo sguardo attento ad un imprevisto incrocio fra un oggetto insignificante e un concetto esistenziale che fa rivelare una improvvisa significazione come osserverà la critica.
Eugenio Montale è la rappresentazione di un uomo chiuso nella sua stanza, costretto dalla vita a compiere anch’egli un lavoro comune. Come tutti noi.
La gloria un effimero idillio senza sorriso; la mente assorta nella visione di una terra fra spuma del mare, limoni ed agavi; lo sguardo pietrificato in quella natura arsa e polverosa, unica realtà fondamentale, unica presenza d’una poesia-etica assaporata seguendo una sola direzione, quella d’un poeta che vede sostituirsi all’antico male di vivere, l’alienazione e la noia di una società moderna. E infine l’apparire della desolazione ancor più irrimediabile, l’incredulità nella storia e il pessimismo accompagnati da un sorriso che è smorfia scettica.
Un fatto di stile, di raffinata civiltà, di proverbiale sintassi di un’arte che ha inciso le sue parole sulla dura pietra della vita.
Montale e, con lui, noi tutti, costretti a scendere “milioni di scale”, a superare il vuoto ad ogni gradino al pensiero che la donna amata non c‘è più, a convincerci che il nostro viaggio, breve o lungo che sia, a volte pare non finire mai. «Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio/non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due/le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue». E poi quel disincanto montaliano, quell’ironia fulminante dell’ultima stagione: «La sera fui paragonato ai massimi/lusitani dai nomi impronunciabili/e al Carducci in aggiunta./Per nulla impressionata io ti vedevo piangere/dal ridere nascosta in una folla/forse annoiata ma compunta».

A coloro che gli rimproveravano di aver volto la sua parola all’individuale, e agli intellettuali impegnati che lo criticavano per aver sempre preso una “certa” distanza dal “ribollire” della vita, per non aver agguantato spada ed elmo per lanciarsi irresponsabilmente all’assalto, Montale risponde: «...No,/non si trattò mai d’una fuga/ma solo di un rispettabile/prendere le distanze./Non fu molto difficile dapprima,/quando le separazioni erano nette,/l’orrore da una parte e la decenza,/oh solo una decenza infinitesima/dall’altra…». Quel “prendere le distanze”, seguito subito dopo da quel senso di “decenza”, sempre lo accompagnarono già da quegli anni lontani di fronte al fascismo, alla guerra, alla morte inutile. E anche dopo quel periodo di “separazioni nette”, «...dopo che le stalle si vuotarono/l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto/fondarono l’ossimoro permanente/e non fu più questione di fughe e di ripari. Era l’ora/della focomelia concettuale…»: era la stagione della scaltrezza e della furbizia che miscela, impasta, e spalma «...materialismo storico e pauperismo evangelico,/pornografia e riscatto, nausea per l’odore/di trifola…». Ecco allora venire in primo piano il diritto-dovere di inventare “la scienza del cuore”, l’esigenza di “cercare la speranza”: «...Lascia che la mia fuga immobile possa dire/forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,/che la partita è chiusa per chi rifiuta/le distanze…».
Agli altri lascia il facile ottimismo, il riscatto assoluto che pur aveva intravisto nelle Occasioni e nella Bufera per una salvezza in un mondo dove non ce n‘è più. La parola, per essere ancora tale, deve esprimere la sua continua disponibilità all’ambivalenza, il suo “ossimoro permanente” finché ha un pur minimo spazio per farlo.

Eugenio Montale è un poeta che ha “pensato”, scriverà Enzo Siciliano nel ’71, «...e il suo pensare non si è mai rovesciato come un limite sulla sua poesia, cosa che spesso accade a scrittori che desiderano esibire in vitro le loro facoltà concettuali, quasi fosse un blasone con cui migliorare la propria fisionomia». E poi ancora: «...La sua poesia ha espresso una superiore intelligenza delle cose… ha toccato non solo una musica dell’esistenza, ma l’interno segreto di essa, il senso di un destino che talvolta alla musica sfugge…» e il poeta che portava con sé l’idea di un cambiamento, dopo gli anni della guerra, della bufera, che pure credeva ancora possibile un rinnovamento da parte dell’uomo, si trovò a fare i conti con una mancata rigenerazione, con la sentenza «tutto è fisso, tutto è scritto» e il poeta metafisico sostituisce all’evidenza emblematica degli oggetti di un tempo, all’antica solitudine, all’inerte affondare, al consumarsi della vita effimera come un «frego bianco su una lavagna», l’odierno sapore amaro del disprezzo. La simbologia d’un tempo ha ora, nella miscela di poetica e poesia, nell’ispirazione di Satura che tende più alla prosa che al verso, la sensazione di un riepilogo dal tono epigrammatico e “sorridentemente demolitore”, d’una «mente vivissima, che si appassiona irridente-irriverente a un mondo che muta, attorno al poeta che fortunatamente non si adegua ma, fuor d’ogni schema, connette, amabilmente e ironicamente dissacra, sempre inventando e fin liricamente cantando» come osserverà Marco Forti in una delle più ampie e interessanti monografie critiche su Eugenio Montale. E ancora una volta il poeta si rivolgerà al non essere piuttosto che all’essere, a quella conoscenza delle cose che non può essere che negativa, alla loro imperfezione, al loro trasmutarsi rapido; e vibrerà colpi tremendi alle mitologie storiche ed ideologiche che hanno generato disastri. Nella lirica La storia si legge che «La storia non si snoda/come una catena/di anelli ininterrotta», non ha una logica interna, «non è prodotta/da chi la pensa e neppure/da chi l’ignora…», «...la sua direzione/non è nell’orario»” perché il suo senso è capriccioso ed imprevedibile, «non somministra/carezze o colpi di frusta…». «...non è magistra/di niente che ci riguardi./Accorgersene non serve/a farla più vera e più giusta». Eppure la storia non è poi così “devastante” perché lascia sempre uno spazio, un rifugio, una cripta o impensabili nascondigli dove i sopravvissuti trovano posto per ricominciare la loro vita. «La storia gratta il fondo/come una rete a strascico/con qualche strappo e più di un pesce sfugge»: coloro che sono scampati, ignari di essere fuori, sono contenti perché han trovato la via d’uscita, la salvezza, e gli altri, quelli rimasti nel sacco (dell’ideologia) credono “illusoria-mente” di essere finalmente approdati ad una vita libera e migliore.

La novità di Montale è in quella espressione di un atteggiamento nuovo verso la vita e in quella concezione della poesia come “dolorosa” e “severa”: quel primum esistenziale tra sofferenza e inadattabilità che ha visto nascere la sua poesia.
Il senso della vita dell’uomo che non può essere che solitaria, arida e senza scopo nonché la concezione di un’esistenza nella quale i sogni sono preclusi e la felicità è impossibile: l’unica certezza è conoscere «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Il mondo di Montale è un mondo senza un filo di speranza, l’arida pietraia, la «muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia», e tutt’intorno sterpi: una disperante situazione che non prevede una via d’uscita, non contempla una salvazione dal continuo travaglio della vita.
La sua posizione di estremo individualismo, costantemente e tenacemente mantenuta, trova in uno scritto del ’52, il cui titolo emblematico è La solitudine dell’artista, l’affermazione del carattere fittizio e fallimentare di ogni pretesa di comunicazione tra gli uomini che non sia affidata al misterioso segno della poesia: «L’uomo, in quanto essere individuato, individuo empirico, è fatalmente isolato. La vita sociale è un’addizione, un aggregato, non un’unità di individui. L’uomo che comunica è l’io trascendentale che è nascosto in noi e che riconosce se stesso negli altri. Ma l’io trascendentale è una lampada che illumina solo una brevissima striscia di spazio dinnanzi a noi, una luce che ci porta verso una condizione non individuale e dunque non umana. Il nostro tempo ha il merito di avere scoperto o accentuato come mai prima era avvenuto, il carattere totale, il carattere drammatico dell’esperienza artistica. Il tentativo di fermare l’effimero, di rendere non fenomenico il fenomeno, il tentativo di rendere comunicante l’io individuale che non è tale per definizione, la rivolta, insomma, contro la condizione umana (rivolta dettata da un appassionato amor vitae) è alla base delle ricerche artistiche e filosofiche del nostro tempo… Ritengo che anche domani le voci più importanti saranno quelle degli artisti che faranno sentire, attraverso la loro voce isolata, un’eco del fatale isolamento di ognuno di noi. In questo senso, solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano».

Il carattere drammatico dell’esperienza artistica in un tentativo di fermare l’effimero, la rivolta contro la condizione umana, la voce isolata, e quindi la parola che viene da un uomo isolato, l’unico individuo veramente (e ancora) capace di comunicare. Già nel ’65 Montale fissava il punto della situazione: «Oggi le idee sono scomparse: tutto è ipotetico, tutto è vero finché è vendibile ed è falso tutto ciò che non fa gola all’uomo economico».
L’iter del poeta passa dal «doloroso riconoscimento della creatura solitaria di fronte alla mostruosa macchina cosmica» come scrive Sergio Solmi, con lo sconforto e la vertigine d’una generazione; poi incontra il reperimento delle “occasioni” di un’autobiografia dove si poteva ritrovare la necessità di riscoprire un senso di autenticità da contrapporre ad un clima di falsificazione, di corruzione e dissolvimento dei valori; e infine una sequenza di lampi, di barlumi, di “visioni supreme” e ricognizioni della Bufera dove prevale una “intimità”.

La poesia di Montale è qualificata da una passione metafisica, sofferta come lacerazione esistenziale ma anche come tensione al ritrovamento di un riscatto ultimo. È il tema degli Ossi di seppia ma anche dell’intera opera di Montale, è il filo conduttore, la necessaria continuità seppur nel variare delle stagioni poetiche: è quel dualismo metafisico tra essenza ed esistenza con la ricerca di una salvazione che redima l’uomo dallo scacco cui è destinato.
L’esistenza è un dramma ineffabile, un mistero per la ragione che solo l’illuminazione della poesia può svelare: il poeta è il portatore di quel divino dono, quasimodianamente, dell’esperienza poetica.
L’atteggiamento che vede l’uomo “in solitudine”, nel suo “aristocratico distacco”, individualista e romantico, poeta con quel gusto scabro della parola come del resto la poesia ligure dei primi decenni del ventesimo secolo d’un Roccatagliata Ceccardi, d’un Boine e ancor più di Sbarbaro.
Poesia che nasceva da un “terreno bruciato dal salino” per rifarci alle parole di Montale con quella parola “inusitata, tecnica o vocabolariesca” come osserverà ancora Francesco Solmi, e poi, grazie ad essa «la speranza di carpire l’ultimo segreto delle cose, un filo da disbrogliare che finalmente ci mette nel mezzo di una verità».

Eugenio Montale rappresenta l’icona del poeta del nostro Novecento, la sua figura assume un valore emblematico nel mettere in primo piano, le contraddizioni, le inquietudini e una profonda coscienza morale. Ogni tentativo per capire il lungo percorso letterario ed intellettuale di Montale deve necessariamente partire dall’uomo, dal fatto che “la sua esistenza è stata lo specchio più fedele della sua poetica e della sua etica”: da un lato, acuto osservatore ed indagatore, poeta e critico e, dall’altro, severo “spettatore della coscienza”.
Montale non ha mai sentito l’esigenza di essere un maestro, eppure gradualmente ed autorevolmente diventa il “maestro” per eccellenza; non ha mai accettato catalogazioni od effimere etichette eppure assurge al ruolo di austero detentore d’un messaggio di una verità capace di situarsi nella storia, di interpretarla e di resistervi; non ha l’intenzione di estrarre dal cilindro trovate da perfetto mago ed affascinare con suggestioni e prodigi d’ogni sorta ma offrire la parola d’un poeta che vive una interiore visione negativa e pessimistica, un rifiuto che non conosce medicina sin dalle prime poesie degli Ossi di Seppia eppure quell’invisibile “male di vivere spesso incontrato” è sempre accompagnato da una impensabile urgenza, quasi un’ansia insopprimibile, di descrivere ed inventariare quel mondo a cui non crede, a cui non offre speranza. La poesia di Montale «in tanto suo dubbio sull’esistenza ci aveva appassionati in gioventù alla vita» scriverà Vittorio Sereni ed è proprio quella condizione così contraddittoria eppur densa d’impulsi vitali che alimenterà il valore della poesia di Montale con la trama di rivelazioni delle occasioni quando il dubbio sull’esistenza diventa appassionamento alla vita e gli oggetti e le presenze salvifiche si fanno bagliori nelle tenebre d’una rinuncia alla vita, creature che conducono dall’inesistenza all’esistenza offrendo con i loro segnali una nuova visione, una nuova tensione, un nuovo stato di “sospensione” tra l’enigma e il privilegio.
Il mestiere del poeta, con lui e grazie a lui, è stato radicalmente stravolto come per una trasmutazione alchemica, e sempre presente è stata la sua intenzione di mischiarsi tra la folla di uomini come lui, di non ergersi al di sopra di tutto e di tutti, di abbandonare il piedistallo che sappiamo essere sempre vacillante, poteva essere un protagonista attivo e godere di eclatanti e roboanti squilli di trombe e invece fu un attore in negativo, nel senso che non calcò mai l’arena, non si offrì mai alla pugna, tutt’al più qualche monito, un cenno d’insofferenza, qualche sommessa parola, e poi quella sensazione di disgusto verso la politica, prima nei confronti del fascismo e poi del partito d’azione, ma propina del veleno anche ai critici militanti che, come egli stesso scrive, sono «condannati a inseguire lo straripare della produzione con l’obbligo d’informare e giudicare ma ormai senza più la possibilità di avere un’idea e un metodo in comune e per di più costretti, dalla stessa mediocrità dei testi, a farsi leggere tra le righe». Montale non è un combattente, «si limita a registrare le perdite e le sconfitte subite dagli altri» e la sua scelta è quella del poeta solitario, del custode a protezione della propria poesia. Montale fin dal suo esordio aveva scoperto la regola preziosa del rifiuto o del minimo indispensabile mentre, al contrario, gli esempi che aveva davanti avevano dato l’assalto alla letteratura, adeguandosi alle regole comuni, accettando i compromessi, incontrando i profeti; ed invece lui escludeva di proposito dai suoi progetti certe figure e determinati ambiti in una sorta di sedimentazione di negazioni critiche per lasciarsi andare in un cupio dissolvi fin quasi a scomparire dalla scena (per fare i conti in privato) nelle poche prove necessarie a far sentire la sua voce, insomma un poeta di “pochi libri”. Nel discorso pronunciato in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel all’Accademia di Svezia il 12 dicembre del 1975 dirà: «Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco…» «Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia». Devastante è l’interrogativo che il poeta si pone: «In tale paesaggio di esibizionismo isterico, (di sterilità, d’immensa sfiducia nella vita), quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?».
«La poesia così detta lirica è frutto di solitudine e di accumulazione».
Quello che Montale chiama il “sedicente poeta” è colui che si “mette al passo coi nuovi tempi”, colui che fa “schizzare” le parole in tutte le direzioni in una deflagrazione caotica, ed allora non esiste più un vero significato ma un “terremoto verbale con molti epicentri”: capire le intenzioni, comprendere appieno, decifrare non è più un lavoro necessario e in molti casi “può soccorrere l’aiuto dello psicanalista”. Esistono due poesie: una è di «consumo immediato e muore appena è stata espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla» con la speranza che «un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo».
«La vera poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche” perché “il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario».
Eppure l’idea di scrivere per pochi beati non è mai stata la sua «l’arte è sempre per tutti e per nessuno» ma quel che resta imprevedibile è il suo destinatario.
«Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale». Nemmeno un’emozione che è stata generata da tali visioni, direi.
La poesia lirica ha rotto le “barriere”, ha frantumato gli argini, e «milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia».
Tutto ciò per Montale significava poco o nulla perché si trattava di fare i conti con il costante divenire d’un mondo culturale di massa già definito dal suo carattere “effimero e fatiscente” eppure vedeva lo spiraglio per una cultura che fosse anche “argine e riflessione”.
Potrà sopravvivere la poesia nella bolgia infernale della cultura delle comunicazioni di massa? Certamente.
A patto di limitarsi alla poesia che «rifiuta con orrore il termine di produzione», quella che sorge quasi «per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale»: ecco allora che non c‘è morte possibile per la poesia.
«Nella civiltà consumistica quale può essere la sorte della poesia?»
«La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione».
«L’incendio della biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni».

L’ambizione di Montale era di dire soltanto il minimo indispensabile ed era palese la preoccupazione di non ripetersi e di non cedere ad avventate sperimentazioni. Non ha mai tradito quella sua interiore urgenza e, del resto, a guardare le date dei suoi libri, si può ben comprendere come abbia seguito alla lettera tale comandamento. Gli Ossi di seppia sono del ’25, Le Occasioni del ’39, La Bufera del ’56: tre libri in trent’anni. E se pensiamo che una delle sue prime liriche Meriggiare pallido e assorto è datata 1916 quando il poeta aveva vent’anni, ci troviamo di fronte ad un poeta che ha pensato e mirato solo ai risultati indispensabili eliminando un vasto repertorio di esperimenti. La resa dei conti veniva fatta “in privato”, tra meditazioni e letture, senza macinare a vuoto, senza solfeggiare troppo, seguendo il precetto del far poesia in economia: «...La poesia non può macinare a vuoto… Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo, non deve perdere quelle qualità di timbro che dopo non ritroverebbe più. Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisse una situazione psicologica determinata, una occasione».
«...Non nego che un poeta possa o debba esercitarsi nel suo mestiere, in quanto tale. Ma i migliori esercizi sono quelli interni, fatti di meditazioni e di letture d’ogni genere. Non occorre che il poeta passi il tempo a leggere versi altrui, ma neppure si concepirebbe una sua ignoranza di quanto s‘è fatto dal punto di vista tecnico, nell’arte sua. Il linguaggio d’un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto».
«Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale… che conti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile» così Montale nell’Intervista immaginaria del 1946.

***

La fuga non è mai sotto forma di evasione o di sogno, in realtà è un misurarsi continuo con la storia, una intenzione di rifiutarla in nome di un ideale morale assoluto.
La partecipazione morale, il mondo sentimentale e il vigore stilistico sono tutt’uno nella personalità umana e poetica di Montale. La severa coerenza dell’uomo con il poeta, la fedeltà a se stesso in quanto partecipe attivo seppur riservato della società, l’impegno al massimo della lucidità poetica e al massimo della responsabilità morale sono il segno costante della sua personalità fin dalle prime esperienze letterarie. Il senso tragico della realtà che permea la sua intera opera è sia in una direzione storica che in una percezione del mistero esistenziale.
Il fascismo, la guerra, il dominio della tecnologia, la massificazione non sono altro che l’incarnazione del dramma del singolo: la storia e l’esistenza sono la condizione dell’uomo colta nel momento del suo immediato vivere la realtà e poi nel superamento, grazie alla mediazione dell’illuminazione poetica, nella stoica pacificazione, che non è abbandono ma “virile assunzione di un fato che non può tingersi di colori provvidenziali”.
È una concezione della poesia in quanto «abolizione del dualismo fra l’Io e il mondo» come scrive Assunto ed è enunciata dal poeta fin dai versi posti in limine agli Ossi di seppia «Un rovello è di qua dell’erto muro…/Cerca una maglia rotta nella rete/che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!». La poesia apre il varco che ci porta dall’effimero della cronaca quotidiana alle regioni trascendentali, fonda il reale mediante la parola che diventa creatrice e rivelatrice in assoluto di ciò che è al di là dell’immediata esperienza.
Questa sperimentazione del senso drammatico dell’esistenza con quello della storia fa sì che tutta la vita e l’opera di Montale sono sotto il segno di un austero pessimismo seppur non è quello dell’uomo disperato ma «la saggezza pervenuta all’ultima coscienza che nulla può giustificare una prospettiva positiva per l’uomo, sempre atteso dal dolore della storia e dal nulla dell’essere, ma che si accompagna alla convinzione irremovibile della impre-scindibilità del suo adoperarsi per essere migliore».
Ma il segno negativo si rovescia in un significato positivo che fa dell’impegno morale in sé il fine della stessa azione morale e dell’intera vita dell’uomo: l’essenza del suo insegnamento è questo invito ad una sorvegliata riflessione sulle scelte che dobbiamo operare e, come non conosce l’esaltazione per i brevi successi, così ignora il pianto per le immancabili sconfitte e delusioni. Il punto fondamentale è conservare il lucido giudizio da affiancare ad una prudentia senza dimenticare l’indignazione per chi abusa dell’uomo. Le stesse parole di Montale rendono nel miglior modo possibile la qualità del suo costante impegno: produrre «una poesia in cui vita intellettuale e vita morale coincidono indissolubilmente».

Gli anni passati nello stesso caffè delle Giubbe Rosse che era stato il ritrovo delle avanguardie fiorentine di Lacerba e della Voce fu per lui “stare nel posto di tutti ma comportarsi diversamente”: al bando le provocazioni e le esaltazioni ma piuttosto uno sguardo attento, a braccetto con la proverbiale prudenza e quell’innato senso della discrezione, e la famosa “sapienza del calcolo”. Questo atteggiamento fu sì una lezione per molti che vennero dopo di lui, un valido aiuto per molte scelte letterarie, e le sue raccomandazioni che sollecitavano l’esame sostanziale delle cose e non davano peso al gratuito o all’apparenza solo per seguire la moda del momento: tutto quello che Montale non ha dichiarato o ha preferito tacere è stato poi intellettualmente valorizzato con una presenza continua, con gli acuti suggerimenti e i numerosi moniti.
Montale sovente reputava più utile “stare a vedere”, magari raccomandare sottovoce, mostrare una leggera insofferenza, dire una sola parola a volte era più importante che dilungarsi in una lunga prosa piena di scintillii.
Un atto di coraggio intellettuale, la lettura più semplice e anche più significativa, una riflessione profonda sulla natura e sulle trasformazioni della poesia, sulla sua capacità di rinnovarsi e poi spingersi fino a toccare i nervi scoperti di una cultura che a fatica accettava la lezione montaliana. Non prometteva di più di quel che avrebbe potuto dare: non c’erano rimedi assoluti ma solo la cura quotidiana, la poesia come mezzo di conoscenza più che di rappresentazione.

Massimo Barile



Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it