Con questo racconto si è classificato al secondo posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa
Ceruleo
La cosa più incredibile di una affermazione errata è che in certi
casi può essere ritenuta incontrovertibile, quasi un dogma rovesciato, visto al contrario e spesso, da lì ad essere creduta come vera, il passo è breve… molto breve, a volte più della gamba che lo compie. «La peggior forma di cultura – diceva spesso un mio collega – è quella che promuove l’ignoranza a suprema virtù». Persone ignoranti, ma culturalmente legittimate ad esserlo – e per questo inconsapevoli della profonda incoerenza della cosa – si aggirano per il mondo. Queste sono i nemici più pericolosi per la specie umana, intellettivamente parlando: più pericolosi dei romanzi rosa scritti in serie, dei rotocalchi scandalistici e delle trasmissioni televisive della mezzanotte, perché tutte queste cose parlano solo a chi le vuole sentire. Gli uomini invece non si possono controllare, o almeno non più di tanto: le loro parole sono semi di potenziale apatia intellettiva, che si instillano inconsapevolmente in chiunque ascolti qualcosa provenire da loro. Sono come dei caloriferi. Entri in una stanza riscaldata, mentre fuori è freddo; sulle prime stai bene, ti senti a tuo agio. Dopo un po’, scopri che sei sudato, perché la temperatura della stanza è troppo alta, ma non l’hai potuto capire subito perché sulle prime stavi bene. Con loro è la stessa cosa: spargono più male in giro di quanto loro stessi se ne rendano conto. Sono portatori inconsapevoli di errore, e il loro contagio è sempre indolore, e privo di effetti collaterali iniziali. I disturbi successivi, poi, se si manifestano in ambienti controllati da loro, vengono considerati del tutto normali e passano sotto silenzio. Di più, a volte vengono incoraggiati. Nell’anima razionale delle rare persone il cui scrupolo è più forte di ogni altra cosa, rimarrà sempre il dubbio: ma io ero così anche prima? Un dubbio a cui una risposta sensata sarà molto difficile da trovare.
Il signor Kroceski era uno di queste persone, io ne ero certo. Kroceski è il mio collega, lavora come me negli uffici della Manchino & C. e un giorno l’ho visto lasciare il suo cubicolo e affacciarsi al mio, con gli occhi che gli brillavano e lo sguardo suadente. Vederlo con lo sguardo suadente mi fece spavento. Sul serio, mi ricordò subito il pagliaccio del circo che mi terrorizzava da piccolo, con quel sorriso a trentadue denti che mi ghiacciava il sangue nelle vene. La subitanea paura mi fece scattare e la sedia girevole girò troppo, riportandomi con le spalle verso di lui. Mi risistemai, fissandolo negli occhi. Lui era lì immobile e sorrideva… aspettava che gli dedicassi tutta la mia attenzione prima di parlare, come se temesse che qualcosa del suo discorso andasse perso. Quando vide che i miei occhi lo avevano agganciato, non proferì parola, ma con un gesto mellifluo estrasse da dietro la giacca un libro, e me lo porse. –Sai, penso che tu debba leggerlo.
Diedi un’occhiata al titolo, terribile. Era un testo che nell’ambiente di quelli come Kroceski girava molto e con un gran successo. Fu quel suo gesto a farmi capire una volta per tutte che anche lui era uno di loro, i seminatori di ignoranza. Chissà se Dante, vivendo nell’età moderna, avrebbe previsto un cerchio dell’inferno anche per loro. Sfruttando il contrappasso, avrebbero potuto essere condannati a ripetere tra di loro sempre la stessa parola, loro che in vita avevano parlato troppo e a sproposito, magari rampognati dal pennino degli antichi poeti classici, che ad una minima interruzione nel loro mantra li avrebbero costretti a continuare la cantilena.
«Conosci questo libro?» Kroceski mi riportò alla realtà. I miei vagheggiamenti su base letteraria a volte mi salvano dalle situazioni spiacevoli. Quella volta non potevo uscirne, se non debellando il mio importuno e inquietante visitatore.
«Ne ho sentito parlare, sì».
«E?».
«Non saprei proprio cosa poterti dire, a riguardo».
«Potresti dire che proverai a leggerlo. Vedrai che potrai apprezzarlo, come ho fatto io, e come abbiamo fatto tutti qui in ufficio. Manchi solo tu» fece l’occhietto, e lo lasciò sulla mia scrivania. Uscì. Io, Marc Mallet, ero accerchiato da quelli come lui. Il libro era lì, a pochi centimetri da me con la copertina color grigio perla che riluceva per il riflesso delle dozzinali lampade al neon che illuminavano l’ufficio. L’avevo avuto altre volte a portata di mano, ma mi ero sempre rifiutato di aprirlo… temevo di cominciare a leggerlo e di non rendermi conto del contagio. E magari alla fine l’avrei consigliato anch’io a qualcun altro, proseguendo la catena e mietendo altre vittime.
In un impulso furente, spazzai via il libro dal pianale con il braccio, facendolo cadere in terra. Così facendo, però, il libro si aprì. Mi sporsi per guardarlo e vidi due pagine totalmente bianche che si aprivano davanti a me. Il libro era quasi al suo centro e non conteneva nulla. Lo sollevai e provai a sfogliarlo, avanti e indietro: niente, solo altre pagine candide e non toccate dall’inchiostro. Un libro vuoto, era questo quello che consigliavano quelle persone?
Suonò la campana, che indicava la fine dell’orario di lavoro. Il sollievo per la giornata appena finita prese il sopravvento per un attimo sulla questione del libro che, tuttavia, non mi appariva per niente risolta, anzi; era molto strana. Quel mistero sarebbe potuto venire risolto facilmente, interpellando uno dei miei colleghi, magari Kroceski stesso. Tuttavia, piuttosto che rivolgermi a loro, mi sarei menomato ad una mano. No, l’unica cosa da fare era tenere il libro, e aspettare che si facessero avanti loro, che si esponessero cercando di nuovo il contatto verbale con me. Da questo avrei capito qualcosa in più, ne ero certo e sarei andato a fondo della questione. Riposi le mie carte nella valigetta, compreso il libro e lasciai prima il cubicolo, poi l’edifico della Manchino.
Nessuno fece caso alla mia sortita, anche se come sempre accadeva ero il primo ad abbandonare la sede… gli altri amavano intrattenersi lì a parlare di futilità varie, continuando a portare avanti il loro operato di disseminatori di ignoranza, ovviamente. Se il capitano era sempre l’ultimo ad abbandonare la nave… in questo caso, io mi accontentavo del ruolo di mozzo. La mia mancanza di vena associativa, poi, facilitava il tutto.
Erano quelli, persone come Kroceski, gli impiegati della Manchino.
La grande Manchino, che produce modernità ed innovazioni per il nostro Domani. Che guarda al futuro con ottimismo e spirito imprenditoriale d’avanguardia, frutto di un predominio tecnologico d’eccezione. La vita che scorreva tutti i giorni nell’ufficio della compagnia, invece, era questo il suo presente. Il Domani di cui si stavano gettando le basi sarebbe risultato molto più carico di limiti e incomprensioni di quanto i vertici prospettavano, perché l’erba cattiva, lì alla Manchino, proliferava sotto stretto controllo degli esperti botanici che avrebbero dovuto, loro per primi, provvedere ad estirparla. Un grosso parassita se la sarebbe mangiata, pensavo, prima che potesse rendersene conto. Un parassita che si stava già preparando il pranzo.
Ora lo capivo, il problema era molto più grave di quanto avessi prospettato all’inizio. Per tamponare l’emorragia di ignoranza che stava per scatenarsi e investire l’intera azienda, dovevo agire e fare qualcosa. Se la Manchino fosse caduta, bè… la cosa si sarebbe diffusa rapidamente alle altre compagnie, e poi «Dio non volesse» forse all’intera umanità. Non potevo permetterlo, anche se non capivo per quale motivo sentissi questo sentimento dentro di me. Mi ero sempre considerato un elemento marginale all’interno dell’immenso organico della compagnia, una figura quasi di sfondo, che lavorava silenziosa e faceva, altrettanto silenziosamente, la sua parte per assicurare l’avanzare dell’azienda e di conseguenza un migliore futuro al mondo intero. Mentre camminavo sull’asfalto reso umido da un recente acquazzone, dirigendomi a casa, le moli dei palazzi che costellavano il cammino mi disorientavano, anche se ormai ci ero abituato. Era sempre così strano, non si era mai soli, come se anche da quelle torri inaccessibili ci fossero altri che accompagnassero, anche solo con lo sguardo, la nostra avanzata. Centinaia di persone percorrevano quella strada a piedi, tutti i giorni, ma – mi chiedevo, ogni tanto – anche loro provavano le mie stesse sensazioni? O era il mio essere una figura marginale e di contorno a donarmi questa sensibilità particolare? Avevo riposto il libro sul fondo della valigetta e ci impiegai un po’ a ripescarlo, mentre fendevo la folla verso il quartiere in cui vivevo. Sembrava averla appesantita . Lo toccai per assicurarmi che ci fosse ancora. Era quell’oggetto il problema… se veniva offerto anche alla dirigenza, i seminatori di ignoranza sarebbero riusciti a controllare tutta l’azienda, il loro ego vile e smisurato si sarebbe gonfiato, quasi fino ad esplodere e per la Manchino sarebbe stata la fine. La vera decadenza, era rappresentata da un libro con pagine bianche. L’ironia con cui si poneva al lettore, così sfrontatamente vuoto e privo di qualsiasi contenuto, era metafora stessa degli uomini che lo avevano creato e che lo diffondevano, della mente di quelle persone che sognavano di minare le fondamenta del mondo, partendo da quelle dell’intelletto umano. Era necessario recarsi dai dirigenti e metterli in guardia del pericolo che correvano, che correva tutta la Manchino, e poi chissà… magari i capi ne erano già a conoscenza e si erano già mossi a riguardo. Ma non potevo rischiare. Mai la psichi collettiva aveva corso un tale pericolo.
L’ampia sala in cui sedevano i capi aveva un’enorme vetrata che dava direttamente sul blu del cielo che, fuori, fungeva da sfondo alle vicende della brulicante metropoli. Intorno ad un lungo tavolo di legno scuro, otto persone, visibilmente annoiate e ansiose di risolvere in fretta il colloquio, sedevano su eleganti poltrone. Misi un piede nella sala con decisione, e questo fece alzare i loro occhi più di quanto non facessero normalmente. I dirigenti della Manchino, spiriti-guida del colosso industriale che sfidava il mondo, indirizzandolo a forza verso una modernità da lui stesso forse non voluta, erano disposti ordinatamente lungo il tavolo. Uomini dai volti seri, vagamente assorti nella contemplazione del nulla intorno a loro, confezionati alla perfezione nei completi neri di giacca e pantalone che portavano con discreta, ma evidente, ostentazione. I vestiti nuovi dell’Imperatore. Alfieri di un’innovazione planetaria e di un nuovo, strabiliante futuro finalmente alla portata di tutti; i Messia che avrebbero condotto tutti noi per mano, lungo il cammino del progresso.
«Signori dirigenti, sono venuto a parlarvi di una questione della massima importanza».
Nessuno disse nulla. Continuai.
«La maggioranza dei dipendenti di questa azienda rappresenta un pericolo… diffondono una mentalità di apatia e rovina intellettuale, che rischia di arrivare fino ai vertici ed è per questo che sono qui. Per avvertirvi. La Manchino è in pericolo».
Di nuovo, nulla dalle loro espressioni o dalle loro labbra, un sorriso quasi lezioso dipinto sui volti mentre mi osservavano.
«Questo libro gira per tutta l’azienda ormai, una copia è posseduta da tutti i dipendenti! È segno che ormai bisogna intraprendere un cambiamento radicale! Sono ancora così padrone di me stesso da poter dire che non voglio diventare come loro! Io sono diverso… e anche voi lo siete!».
Loro restavano immobili e silenziosi. Non era il silenzio di chi si tratteneva dal parlare, perché preda di un qualche freno… non vi era traccia di esitazione in loro, era semplicemente il tacere di chi non aveva nulla da dire. Confuso da quel silenzio, incalzai.
«Non capite, o sommi dirigenti, che è proprio questo libro, questo oggetto il segnale più preoccupante della decadenza della vostra società, del vostro Impero? Quando il germe comincia ad attecchire, ormai è troppo tardi e porterà i rovina tutti noi! Non dovevamo forse cambiare il mondo, la Manchino stessa per prima e noi con lei?» agitai il libro in aria, e lo sbattei con violenza sul tavolo. Sentì delle lacrime sgorgarmi dagli occhi… ma non capivo perché stessi piangendo. Credevo così tanto in quella mia battaglia, da arrivare disperarmene? L’ostinato muro di silenzio che incontravano le parole, e gli sguardi vuoti dei capi, era quello il motivo. L’indifferenza mi neutralizzava e mi faceva sentire impotente e stupido più di ogni altra possibile sottomissione. Ero sudato. Asciugai le lacrime con il polsino della camicia. Le grandi battaglie dell’uomo, dalle più epiche alle più piccole ed insignificanti, scorrevano tutte in quella stanza, in quel momento. La mia era una battaglia eroica anch’essa? La sfida di Davide contro Golia, l’insulso contro il gigante. Il primo sapeva fin dall’inizio che, novanta probabilità su cento, il gigante lo avrebbe schiacciato, ma ci aveva provato lo stesso e aveva vinto. Il mio Golia, però – pensavo – era parte di me stesso, era la stessa società in cui credevo, per questo non riuscivo a vincerlo.
I dirigenti sorrisero e si adagiarono ancora più comodamente sulle proprie poltrone, reclinando un poco gli schienali. Senza alcun preavviso, aprirono le valigette che avevano posto sul lungo tavolo e quasi all’unisono ne estrassero in contemporanea tante identiche copie del libro che io stesso agitavo in aria. Lo aprirono e, abbandonatisi del tutto al comodo rilassamento della poltrona, gettata verso di me un’ultima occhiata penetrante e irrisoria, oramai non più consci di nient’altro, cominciarono a leggere davanti a me quelle pagine vuote, non sfregiate dal benché minimo segno d’inchiostro. In quel momento non ero più nemmeno un mozzo. La sola cosa che volevo era saltare giù da quella nave.
Non mi resi neanche conto di avere lasciato la stanza e di essere uscito all’aria aperta. Semplicemente, mi ci ritrovai. Volsi il capo a guardare l’imponente sagoma moderna dell’edificio che mi ero lasciato alle spalle… una geometria squadrata, regolare e prevedibile, grigia in un panorama del tutto simile. Sentii il vento scompigliarmi i capelli, mentre mi accorgevo del cielo che si stagliava oltre l’edificio. Era terso, senza alcuna traccia di nuvole, e azzurro – anzi, blu ceruleo, era questo il colore del cielo. Se quel cielo mi infondeva una qualche vena di speranza, sapevo che anche aggrappandomi ad essa tutti i problemi non si sarebbero risolti. Non se ne sarebbe risolto neanche uno. Ma in fondo, il ceruleo del cielo non poteva saperlo.