I fichidindia della luna

di

Filippo Inferrera


Filippo Inferrera - I fichidindia della luna
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 70 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-4561

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In copertina: “Salina mare” © Daban – Fotolia.com


Pubblicazione realizzata con il contributo de “Il Club degli autori” in seguito al conseguimento del 1° posto nel concorso letterario Città di Melegnano 2012


Prefazione

La visione lirica di Filippo Inferrera è espressione fedele della poetica d’anima pervasa d’intense emozioni che si alimentano, costantemente e profondamente, al giacimento memoriale del poeta, attingendo ad un linguaggio preciso ed attento per forma e stile.
Nella silloge «I fichidindia della luna», nonostante la velata malinconia, si avverte l’effervescenza lirica d’un uomo che è “innamorato / di ogni brandello di vita” ed attinge alla fitta trama dei ricordi con parole d’amore, rimanendo sempre fedele a se stesso.
Nel caleidoscopio della vita, tra “dissepolte certezze” ed illusioni, l’anima si apre ed irradia il desiderio di raccontare attraverso la memoria, che segue, appunto, un “tracciato d’anima”, sempre passato al vaglio critico del presente vivere: il canto lirico si fa nutrimentum spiritus con costante disseminazione di percezioni, immagini e segni, che appartengono al vissuto del poeta, come se volesse rigenerarsi seguendo il “tempo in divenire”.
Ecco allora che la memoria si fa “grido”, che “srotola la matassa dell’anima”, s’incunea nel labirinto dei segnali della vita, tra le sofferenze e le inquietudini, le ombre del vivere e le rivelazioni, la solitudine e l’apertura alla fede: la sua “voce” è memoria che “implode” nell’Essere.
La sua parola “salda ed onesta” illumina la “vertigine del pensiero”, che vola alto come ad intercettare i “messaggi dell’anima”, salvandoli dalla “rete dell’inquietudine”, quasi a voler penetrare la dimensione superiore dell’invisibile dopo aver superato il dolore e le ferite dell’esistenza, oltrepassato i “sotterranei del silenzio” in caduta libera e le indifferenze nella commedia di questa vita.
Ecco la “traiettoria onesta della parola” di Filippo Inferrera, la sua voce “cresciuta all’ombra dei fichidindia della luna”, capace di scavare le emozioni nell’inesauribile giacimento dei ricordi, di risvegliare sensazioni disperse nelle fenditure dell’esistere e di “ritrovare l’infanzia dentro le voci antiche”.
Lo sguardo lirico di Filippo Inferrera si sofferma sul ventaglio emozionale che si è dispiegato percorrendo il sentiero della vita, diventando abbraccio universale nel corpo e nell’anima, nel lento superamento della linea malinconica dei recuperi memoriali e delle riemergenti ferite che hanno contrassegnato il tracciato dell’esistenza.
La parola di Filippo Inferrera affonda nelle zone più profonde dell’animo e oltrepassa la soglia di una sospensione nel tempo, che offre innumerevoli visioni e preziose riflessioni sull’umano vivere, fino al sigillo che ha il tono di un messaggio archiviato nell’ancestrale gioco cosmico, rendendo palese la finitudine umana: “Avvolgo nella pergamena la mia solitudine, / dal tempo prendo le distanze e seguo la ragione, / finché l’onda della luna verrà a ricoprirmi / di terra e di verdura, dentro matasse di ricordi”.

Massimo Barile


I fichidindia della luna


Accadrà

Le mie parole, a saldo di avvenimenti futuri,
vagavano smagate, senza asprezza, né ironia,
mentre il pensiero indulgeva, privo di ordine,
dentro la sofferenza di un male assoluto.
Non c’è morte che comprenda un riflesso di vita,
non c’è religione senza un credo perfettibile
e d’innocenza si può anche civilmente soccombere.
La memoria è un mare grosso, un grido di nocchiero,
che srotola la matassa dell’anima e ogni filo di luce,
che accudisce il passato con l’ardesia di un bene puro.
La musica, sai, è calore e carne, uno schizzo d’alba,
azzera la solitudine, addolcisce la pena, è donna e grazia.
Aspetto la mia sentenza appallottolato nell’ignoranza,
rinserrato nella mia roccaforte addomestico l’allegria.
Accadrà, quando ci sarà il distacco dalle radici della terra,
quando la vecchia gioventù uscirà dal labirinto dei prodigi,
quando il respiro diventerà eternità e trucco da bambino.
Accadrà presto, tra i fichidindia della luna, e il mare,
e sarà difficile spiegarlo ai vivi che oramai non pregano più.


Alto vola il pensiero sopra le rondini

Numerosi segnali della mia vita in decomposizione
si fissano dentro notti insonni che mi appartengono,
sfolgorando contorni di saggezza, più intensi
ogniqualvolta le immagini diventano luce e tempo.
Tanti anni triturati nella scorza della ragione,
un passato che ritorna con le sue ombre dall’oscurità,
gemme di complicità in passioni abusate, in dilemmi,
ambiguità, assenze mai rivelate, origine e fine del suono.
E quando mi sembra di avere completato il percorso,
tu mi prendi in sortilegio, granitica nel tuo silenzio,
materna compagna, che mi narcotizzi e dai un significato
ad ogni fatica di linguaggio, ad ogni speranza di vita.
Tra il ciottolato della mia solitudine e l’apertura di fede,
alto vola il pensiero sopra le rondini e intravedo la soglia
di un tempio non più estraneo, non più rancoroso e sordo,
la salvezza che accende lo sguardo e mi riscatta con decoro
da un amicizia in letargo, da un certo credito verso la morte,
che, quando verrà, sarà cibo e profumo per la mia carne.
I miei passi si srotolano verso un destino inconoscibile,
la terra è tuttora brulla ed erbosa, lascia solchi amari,
forse non sono preparato e pesco ancora nel sudore
e l’astuzia, alzando la voce in un saldo fuoco di rivolta.


Caleidoscopio

Chiamami forte all’ombra dei papaveri,
i silenzi slegali tra le foglie che invecchiano,
stasera appartienimi, figlia della poesia.
Ogni voce è memoria che implode nell’anima,
mentre danza in ombre cinesi la tua esistenza
e cangianti colori s’intrecciano al forte scirocco.
Dentro il petto ascolto il frullo della tua voce
e la fierezza sciolgo sopra il giaciglio di polvere,
se gioco le ultime energie dentro il deserto.
Accetta queste dita che indugiano alla carezza
e questo sangue d’amore, che beffeggia la morte,
avvita ogni suono nella tua notte spumeggiante di luce.
Io sono il sapore dell’incenso nel primo chiarore,
io sono lo squillo fazioso dei migliori pensieri,
io sono la slitta, la baita, la neve di ferro, il vino novello
il sapore del niente, il sapore del tutto, il sogno perfetto,
la prima data e l’ultima finale, l’oceano con le sue vele.
Chiamami dove la vita ha semi e frutti, dove brilla Sirio,
come una madre indulgente donami, alfine, un’altra pelle,
e morderò il destino nell’immenso caleidoscopio della vita,
che agita lo scialle pungente della montagna di fuoco,
che come una nuova vita dolcemente mi rigenera e nutre.


Capriccio di memoria

Ombre nere si addensano e si smagliano
tra le crepe delle finestre, sui davanzali,
lasciando consumarsi gli estremi barbagli
di luce in ghirigori di danza e nuvole.
È l’ora del notturno che si smatassa puro,
con garbo, nella sua forma più trasparente,
satura di presenze amiche, di voci dentro.
Cala un silenzio di smeraldo tra le tele
di pittori emergenti, che pendono dai muri
sopra la scrivania di pelle e di sudore,
che mi ha svezzato ancora adolescente.
Ora, è un radioso manto la mia memoria,
benda gli occhi e spalanca tutta l’anima,
è un canto che nasce dal mare e, ovunque,
ha farfalle d’erba, in prestigioso amore.
Un capriccioso nutrimento mi concede
una carezza e un dormiveglia nel caldo
familiare di pane e braciere, di forti sensi.
Siete voi l’unico guizzo vigile di un rinnovato
bene,madre luna, padre fuoco, carità libere di giorni,
a durare nello specchio della mia vecchiaia?
Annegato in dissepolte certezze, risillabo pensieri,
sciolgo tentennamenti che si accalcano tra le carte,
recupero isole e sorrisi, mi approprio del vostro odore,
fiorisco nella mimosa del tempo in divenire.


Dietro le quinte

Non so nulla di te, del tuo tempo terreno e breve,
che mi tenne legato al tuo ramo in croce, nel ricordo,
che fu il fotogramma del mio percorso più ostile,
tra ossessioni e nottambuli inquietudini.
Scrivo la mia infelicità nel mandorlo dietro le quinte,
come una commedia dal meccanismo insospettabile,
coi suoi profumi di pane caldo e di miseria;
scrivo la mia malinconia sulla chitarra umida di pioggia,
dentro il vecchio divano letto, sognando il sogno.
Tu, nel mio corpo, fiamma accesa, cerchi oltre la morte
il mio gesto impossibile, che recuperi il bimbo delle stelle,
confuso, assediato, poco incline all’inquietudine perenne.
Mi divide da te una galassia di giorni, e una solitudine,
non più originale, ma invadente nel desiderio di possederti,
di giocare la partita più lunga per paura di perderti ancora.
Non so se, complice l’inverno, potrò smerigliare le cicatrici,
ringhiando alle fessure delle tapparelle, oppure ergermi
sullo scoglio dorato e aspettare che il mare restituisca l’onda
in un tenero ribollire di schiuma.


Di un amore

Una sera del mio tempo vorrei riservarmi,
trasformarla in fuoco alto, in radice di pino,
farne corpo e mente, ragione e conoscenza,
affidarla alla storia perché sia il pendaglio
di vita. E fare festa con la memoria nel silenzio,
accendere la pelle di luminosa felicità, e amare.
Di un amore che cerca l’acqua, che beve l’aria,
che sposa i papaveri, che rompe il muro del suono,
che di te apre i sensi, che cova e sfida l’inferno.
Di un amore che si svezza senza paura, che nidifica
sopra la nebbia, negli occhi del tuo sguardo,
in questa vita accovacciata nel calore animale,
nel movimento del sangue, nell’anima dell’universo.
Fino a un altro traguardo, fino al primo rimpianto,
quando i pensieri diventeranno quiete implodente
e saranno la nostra solitudine da condividere insieme,
dentro un mondo divenuto pedante e scurrile.
Questa sera è la piega di un meraviglioso risveglio,
non altro è che la fotografia di un lussurioso gioco,
forse sarà una pagina di storia, fedele nel suo vissuto,
che è la nostra adozione più coraggiosa e gentile,
un laccio possente di una sfida infinita verso l’eterno.


e poi verrà la meraviglia

Mai più saprò lèggere nel fondo
questa idea innocente
finché in me resterà la paura
di una mancata esecuzione;
e tu non sai quale frastuono mi coglie
quando, improvvisa, l’ambiguità si sgrana
e l’intimità dell’inverno batte al casolare,
triste incredulità di un mondo diverso
dove la razza ha peli lunghi
e dita ferrate per sopraffarti.
Il vento sorvola l’acqua, la imperla,
i miei occhi adulti vedono
fin dove non crescono più parabole.
Mai più saprò lèggere
questo lungo tormento in libera caduta,
il germe della guerra con i suoi tumori;
ti canterò la ninna nanna
finché saremo vivi, piccolo re,
finché il tempo stempererà il piombo fuso,
inciso nella carne per troppe solitudini.
Siamo incontaminati respiri d’ombra,
immense, vuote pareti di cristallo,
siamo gocce d’inquietudini, uccelli d’altura;
scrivo la mia stanchezza, sguainata
sulle foglie dei papiri, sui muri delle Chiese,
dove e dovunque possa avere peso e spazio,
tra le dita, sui vetri che si appannano,
sui tralci di diari mai scritti,
e poi verrà la meraviglia, un giorno,
la meraviglia dei mandorli fioriti,
e, ancora, la parola scarnita e desueta,
ma salda e onesta e competente,
che riaccende le cellule e dà vertigine
ad ogni madreperla di pensiero.


Erano grandi le mie sere

Portano cavalli l’erba amara
della mia infanzia,
lasciando impronte di sabbia e sale,
lungo vibrazioni di luce.
Nel crepuscolo che incalza,
si allarga e si sgrana,
come in una dinamica di memorie,
l’ora già matura, tracciata sulla carta.
Ovunque, nel nostro piccolo bosco,
c’è un punto cardinale di bianche mani,
un gioco bengiocato, un urlo di fiume,
sul corpo ferito un grumo di polvere
e una storia che si spegne senza giustizia.
Erano grandi le mie sere, e lievi,
baciate dalla luna, lunghe di parole.
Ti ho cercato, ho bussato alla tua porta,
avevo paura del vento e della strada,
padre, scheggia dei miei colori,
furore della mia ingordigia.
A volte, questa casa mi dorme addosso,
mi acceca come un blocco di neve:
il bambino tifava forte per te,
il bambino davanti alla morte non seppe
lèggere le stelle.
Erano grandi e certe le mie sere.
Ora, avvolgo nella pergamena la mia solitudine,
dal tempo prendo le distanze e seguo la ragione,
finché l’onda della luna verrà a ricoprirmi
di terra e di verdura, dentro matasse di ricordi.


Figli della solitudine

È un gioco d’abitudine questo vagabondare
nel mondo senza desideri né identità,
senza preghiere né pentimenti, con le mani
alzate verso il cielo, ma spente e fredde.
Incorporee tessere del tempo, le parole
disegnano inganni lungo strade violate
da generose lucciole della notte,
perdono bellezza nel consumo quotidiano
di sostanze inquinanti, di rumori assordanti.
È in gioco l’equilibrio delle comete,
il colore dei pensieri, il tavolo dei progetti.
È in gioco l’omino della neve, l’anello
del primo amore, l’onore, che nasce da un volo
e finisce in un volo, il pudore, nostra unica ricchezza.
Ora, detestiamo le fatiche del giorno, ora, dissipiamo
impunemente i messaggi che soltanto l’anima sfoggia.
Il giogo dell’abitudine si fa disubbidienza,
dura insofferenza o, più, supponenza, vigliaccheria,
falsità di ragioni, ragioni senza ritorno.
Meschini cerchi di solitudine ci avvitano,
siamo feti senza cordone ombelicale, fronde
senza speranze, prepotenti ribelli che annaspano
nella rete delle irrequietezze. Uccidiamo e neghiamo,
abili maestri denunciamo i soprusi degli altri,
mondi corrotti, privi di dignità, riempiamo
le cronache televisive, occhieggiando,
in predatori di mestieri facili, vantaggi contabili.
E il gioco diventa ossessivo, rischioso, ci soverchia,
brucia le nostre insonnie, ci umilia;
senza forzature s’infiltra nei cunicoli del sangue
e offusca per sempre la memoria in coni d’ombra.
Ciascuno, nella sua parte, depone il sigillo della vita,
drogando l’anima, sino al prossimo scalo senza via d’uscita.


Già un altro sguardo

Già un altro sguardo a questo vento di scirocco,
che rende appena tremula l’aria di settembre,
si appiatta dentro l’erba, abbandonandosi ad essa.
Il confine tra mille pensieri vado ascoltando,
tra mille voglie d’inettitudine di giovani anni,
gioco con le carezze che più non esultano,
depistando paure, altri pensieri insostenibili.
Anche questo è amore di mani ossute senza forma
che impatta con un po’ di vergogna e di viltà,
tanta ruggine d’infanzia si è depositata nel tempo,
quel tempo del benemale di troppe stinte parole.
A questo punto della vita mi difendo con rabbia,
dentro una religione di pietra che non conosce raggiri
e il possesso di un vocabolario antico e saccente.
Sto cedendo all’invisibile rèfolo del corso della vita,
che darà scacco matto quando sarò sul ciglio nudo
di una strada distante dal suo peso corporeo,
quando quest’uomo parlante sarà un fossile o un’idea,
un logoro fuoco di respiri, e tu verrai leggera acqua
per gli ultimi addii sacrificali sopra il mio calore,
scrivendo con la neve una robusta lapide di memorie.


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