Con questo racconto è risultata 10^ classificata – Sezione narrativa alla VI Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010
Il venditore di giocattoli
Si chiamava Januzzo; era alto, smilzo, di colorito bruno olivastro, i capelli neri, ricciuti e sempre arruffati; i sopraccigli folti e ben disegnati facevano da cornice a due occhi nerissimi, a volte tristi.
Gli abiti sgualciti e inadatti alla sua corporatura lo facevano assomigliare ad uno spaventapasseri.
Aveva mani grandi, nodose, possenti, in netto contrasto a quella sua aria stanca con cui ogni giorno trascinava una bancarella piena di modestissimi giocattoli che a noi, bambini di quegli anni, apparivano bellissimi e ci facevano sospirare…
Egli era lì tutti i giorni, in quell’ampio spiazzo sassoso e polveroso, dove finivano le case di via Eumelo.
Questo slargo, delineava la fine della estrema periferia della borgata Santa Lucia e dava inizio ad una boscaglia di rovi e arbusti da cui si riusciva ad intravedere un veloce torrente che più lontano scendendo a valle raggiungeva l’Anapo, il fiume dalle sponde ricche di canneti e papiri.
Quel luogo era molto frequentato dai ragazzi dei rioni vicini e dalle loro mamme che venivano nello spiazzo del “fiume” per godere di un po’ di frescura e sorvegliare i giochi dei bambini.
Luisa, una giovane donna di origine ebraica, ogni giorno accompagnava Tinuccia, Lidia ed Olga, le sue bambine, che, come sempre, guardavano rapite la grande giostra che stazionava quasi al margine del boschetto.
Le piccole seguivano con il continuo ruotare della testolina il veloce percorso dei seggiolini che volteggiavano, e dai loro visi, dal loro modo di socchiudere gli occhi, come per ripararli dalla velocità del vento, dalle loro boccucce schiuse in un sorriso di beatitudine, sembravano realmente che godessero della ebbrezza dei giri sulla giostra.
Luisa guardava pensosa, le figliolette che affascinate dalla musica del luna park, pareva non udissero il richiamo della madre quando le sollecitava a tornare a casa.
Il volto della giovane donna appariva ogni giorno più preoccupato; la mestizia che trapelava dai suoi occhi non lasciava dubbi, qualcosa di grave doveva affliggere il suo cuore di donna sola.
Luisa viveva in una grande casa di sua proprietà.
Era la casa più bella di tutto il rione, “u palazzeddu”, la chiamavano gli abitanti di via Eumelo.
L’aveva costruita il marito, un piccolo imprenditore edile che quasi subito dopo averla terminata, venne richiamato in guerra: erano gli anni quaranta.
Januzzo osservava indifferente la moltitudine di persone passare dinanzi la sua bancarella, ma ogni tanto si alzava dal suo banchetto e con voce lenta, cadenzata, come di persona stanca e annoiata, faceva echeggiare il suo richiamo «Mimì, Cocò, Fifì, na lira u pezzo» e mostrava i suoi pupazzi di legno vestiti di tela bianca da cui uscivano a mo’ di braccia, due stecche anch’esse ricoperte di tela, alle cui estremità erano attaccati due dischetti di latta che, percuotendosi a vicenda, simulavano il rumore delle battute di mani.
Ecco allora affollarsi innanzi alla bancarella i bambini più grandi che erano riusciti ad avere dalle loro mamme i soldi per comprare i pupazzi e felici correvano agitandoli.
Quando la folla dei ragazzini si era allontanata, Januzzo ripeteva il suo richiamo, questa volta la sua voce era squillante, forte invitante, «Vinite picciridde, vinite a virire Trisina, pupidda e mezza lira».
Alzando le braccia mostrava le sue pupattole di pezza di grossolana fattura, con i faccioni di gesso bianco e le guance e le labbra colorate di un rosso vermiglio.
Alcune avevano per capelli, delle treccine di stoppa rossicce, altre dei cernecchi arruffati e pesti di pessima lana caprina, di un colore indefinito tra il violaceo e il nero sbiadito.
Un giorno Luisa volle accontentare le sue piccole e si avvicinò alla bancarella per comprare le pupattole.
Il giovane venditore guardò interessato la donna e le sue bambine e diede loro tre bamboline scelte tra le più ben fatte.
Lidia, la più bella delle sorelline, mostrò subito avversione per quella bambola dalle treccine color di carota che Januzzo le porgeva con molto garbo e un debole sorriso tra le labbra.
Quando giunsero a casa, Luisa si accorse del disinteresse di Lidia per la pupattola e allora le chiese il motivo: «È brutta e non mi piace» urlò la bambina con gli occhi pieni di lacrime, «e poi mamma, non vedi che è triste? Forse anche lei è malata come me!».
Dopo queste parole, la bimba corse in camera sua continuando a piangere sul letto.
La madre che aveva taciuto e tenuto per se il terribile sospetto che la figlioletta fosse affetta da qualche malattia, rimase come folgorata da queste parole, che ora le parvero essere quella realtà da lei sempre saputa e temuta.
Nella sua angoscia non si domandò come e perché la piccola avesse intuito ciò che non era stato mai detto e soprattutto, mai provato!
Lidia aveva circa nove anni, il suo visetto di un delicato colore avorio in cui splendevano due grandi occhi di un castano muschiato, era incorniciato da folti capelli biondi sapientemente raccolti in lunghe e morbide trecce.
Il suo esile ed aggraziato corpicino era messo in risalto da un vestitino di raso color indaco, stretto in vita da una fascia che tratteneva l’arricciatura dell’ampia gonna su cui erano situate due balze di merletto rosa tenue.
Anche le due sorelle, Tinuccia di dodici anni e Olga di sette, erano abbigliate con la stessa cura di Lidia, ma purtroppo mancava loro qualcosa che le permettesse di assomigliarle.
Luisa, soggiogata dalla tenera bellezza della piccola Lidia, quando costei dormiva chiamava le due sorelle e diceva loro: «taliatela, taliatela quant’è bedda».
La lunga estate passò in fretta per Luisa, che come avvolta in una spirale di filo spinato, chiusa in una coltre di pensieri soffocanti temeva il sopraggiungere dell’autunno, perché per lei significava lasciare in fretta la città che la aveva ospitata e dove aveva vissuto i primi anni della sua nuova vita.
L’eco dell’imminente applicazione delle leggi razziali aveva raggiunto l’isola, e già dal finire dell’estate molte comunità ebraiche erano fuggite.
Luisa era una bella donna, alta, sottile, con lunghissimi capelli neri. Il suo incarnato pallido, l’ovale perfetto del suo viso, ricordava le statuine cinesi.
Rimasta sola dopo la partenza del marito per il fronte, aveva intorno a se oltre le sue piccole e l’anziana madre, la cognata Gina che abitava una casa adiacente al palazzetto.
Le due donne non furono mai amiche; Luisa era palesemente discriminata da Gina che le rinfacciava continuamente di essere la figlia di una donna dal passato equivoco.
Durante le discussioni che le due donne sostenevano, anche per futili motivi, Gina era pronta ad urlare: « Perché non dici a tutti chi sei? Dillo, fallo sapere a tutte le tue amiche, a quelle persone per bene che hai la sfacciataggine di frequentare, dillo che sei la figlia di donna Peppina la Banchera!».
Luisa, vissuta fino all’età di diciotto anni in un istituto religioso dove venivano accolte le orfanelle, aveva avuto in tutti questi anni pochi contatti con la madre, una donna robusta e ben fatta, dai capelli rossi e ricciuti raccolti sulla nuca. Questa viveva nel capoluogo dell’isola e di tanto in tanto andava a trovare la figlia e le portava dolci e giocattoli che suscitavano i desideri e le invidie delle altre bambine.
Luisa era molto affezionata a donna Peppina e quando lasciò il collegio andò a vivere con lei in un’antica casa situata al centro storico della città.
Durante la ristrutturazione di questa grande casa donna Peppina conobbe Salvatore, giovane e benestante imprenditore edile al quale volle presentare la sua giovanissima figlia.
Fu subito barattato il matrimonio; Salvatore affascinato dalla fresca bellezza della giovanetta, la volle sposare e condurla in un’altra città per toglierla dal quel luogo che risentiva ancora della nomea del suo turpe passato, in cambio non avrebbe tenuto conto delle loro origini ebraiche.
L’autunno in Sicilia, è una stagione ricca di promesse; la gente vive le sue giornate prive ormai della grande calura estiva, ma ancora avvolte in un benefico tepore, con un rinnovato benessere assaporando le delizie che verranno.
Ma non per Luisa che aveva l’animo e la mente devastati da due pensieri dominanti: la salute sempre più cagionevole della figlia e la paura che qualcuno potesse denunziare le loro identità.
Giunse il mese di ottobre. Il grande spiazzo oramai è quasi deserto, il Luna Park ha tolto le tende, si è trasferito al centro della borgata, nella piazzetta ove sorge la chiesa di Santa Lucia, e vi rimarrà fino alla prossima estate.
Anche Januzzo ha spostato la sua bancarella, ma non si è allontanato molto dalla zona di via Eumelo. Il suo lento monotono richiamo echeggia ancora per tutte le vie del rione, i suoi pupazzi, le sue brutte bamboline, traballano lungo il percorso; ogni tanto il venditore di giocattoli volge lo sguardo verso i balconi del “palazzeddu”, forse spera di vedere la piccola Lidia che gli ricorda tanto la sua Jasmine, la bimba che ha lasciato a Lampedusa. Ma i balconi della bella casa di via Eumelo rimarranno chiusi per lungo tempo: Lidia oramai è grave, la sua malattia, la tubercolosi, non le concede altro tempo, lei non potrà più affacciarsi, dal balcone della sua cameretta da quel balcone così ricco di vasi di gerani e profumate fresie; la piccola giace esangue nel suo lettino con accanto la pupattola dalle treccine rosse, che ormai non le da più fastidio…
Luisa affranta dal dolore, sa che non potrà più lasciare la città; l’ ultima nave con il pieno di ebrei partirà tra qualche mese, dalla Marina di Siracusa, alla volta di Malta, e lei e le sue bambine non vi potranno essere, vi sarà solo l’anziana madre che non vuole mancare all’appuntamento con la sua gente, ansiosa di raggiungere la sua terra d’origine.
In un tiepido pomeriggio di fine ottobre, uno come tanti, vissuto tra ansie e speranze, qualcuno suonò al portone del palazzeddu; Luisa pensò fosse la cognata Gina venuta a pettegolare col pretesto di chiedere notizie della piccola Lidia.
Grande fu il suo stupore nel vedere avanti a sé Januzzo con una bellissima bambola dal viso di fine porcellana, elegante nel suo vestitino azzurro, e con i capelli di morbida seta bionda. Il giovane venditore di giocattoli, con gli occhi tristi e con notevole imbarazzo le disse: «Signora, io conosco il suo dolore, so della malattia della piccola Lidia; ho sempre tenuto nel mio cuore il suo ricordo, vorrei poterle donare questa bambola che avevo tenta in serbo per la mia Jasmine, ma ora so che devo far felice una bambina altrettanto bella ma meno fortunata!».
La giovane donna che non si attendeva nulla di tutto ciò disse: «Io non posso accettare un regalo così bello, perché non potrò ricompensarvi, sono una donna sola che vive con tre bambine con il sussidio di guerra; i miei risparmi si sono assottigliati e in più la grave malattia di mia figlia Lidia mi causa continue spese. e sono disperata perché non so fino a quando potrò farcela».
Januzzo, non riusciva a dire una parola; emozionato e tremante lasciò ai piedi della donna la bella bambola e corse via balbettando qualcosa che Luisa non capì.
«Mamma, mamma chi c’è con te con chi parli?» chiese Lidia con flebile voce.
Luisa non rispose, si recò accanto al letto della figlia e le porse sorridendo la bella bambola. Il volto della piccola parve illuminarsi, il debole sorriso che attraversò le sue piccole labbra esangui conferirono una dolcezza angelica a quel tenero viso tanto provato dalla sofferenza; le goccioline di sudore che bagnavano la sua fronte apparivano adesso come fresca rugiada mattutina su un magnifico fiore, non più il malevolo segno di una febbre continua e devastante.
Vide Lidia sollevarsi a fatica, accarezzare la bella bambola, poi con voce sempre più flebile dirle «Mamma, mamma, è tornato il mio papà è lui che mi ha portato questo bel regalo?».
Durante l’aggravarsi della malattia, la piccola sempre più spesso faceva riferimento al ritorno del padre di cui sentiva la mancanza.
Quei pochi minuti di gioia che Luisa scoprì nel volto della piccola, le riempirono l’animo di quella speranza che lei ormai da tempo considerava assurda, la guarigione della bambina da quel terribile male che l’aveva lentamente consunta !
Speranza che sapeva di sogno… ma quanto può durare un sogno? Frazioni di secondi? oppure un tempo senza fine… come un triste incubo da cui non si sa venirne fuori ?
Luisa adesso sembra essere tornata in sé ed invoca una sola grazia, che il destino indifferente alle vicende umane, non lasci affogare il suo dolore, che non disperda le sue preghiere e le sue invocazioni nel vortice di quel lago insidioso e crudele della disperazione, e che al più presto la piccola Lidia possa avere la gioia di rivedere, di riabbracciare il padre tanto invocato.
La grande paura della guerra anche se questa non era ancora terminata, cominciava a lasciare gli animi della gente di questa isola così duramente provata dalla distruzione, causata dai bombardamenti, dei crolli rovinosi di case e ville, dalla fame e dai saccheggi: adesso era troppo grande il desiderio di tutti di un ritorno alla normalità anche perché ogni giorno si assisteva al rientro clandestino, di qualche reduce fuggito da un campo di concentramento o giunto via mare con qualche mezzo di fortuna.
Luisa, trepidante, iniziò a sperare che anche suo marito potesse giungere da un momento all’altro, purtroppo ciò non avvenne.
Passò in fretta anche l’autunno; le giornate iniziarono ad essere più fredde. L’inverno era alle porte.
La borgata cominciava lentamente a prepararsi per accogliere la folla di fedeli che sarebbe giunta anche dalla città per festeggiare la Santa Patrona, Santa Lucia.
Nonostante il periodo della guerra avesse intristito e scoraggiato gli animi di tutti, era ugualmente vivo il desiderio di onorare la Santa, per cui nella piazzetta antistante l’antica chiesa iniziarono a posizionarsi le bancarelle piene delle solite modestissime cose che avrebbero allietato la folla.
Luisa sapeva che il desiderio delle sue tre bambine era quello di partecipare alla processione della vigilia, con il vestitino verde ed il cordoncino bianco alla vita, e che lei aveva cominciato a preparare sin dall’inizio dell’autunno.
Era già la vigilia della festa, tutte le fanciulle del rione erano in strada, liete e festose nei loro abitini verdi e tenendo in mano candidi gigli iniziarono ad intonare con voce soave l’inno alla Santa.
L’eco di festa giunse fino alla cameretta dove giaceva la piccola Lidia: «Mamma, mamma» gridò ad un tratto la piccola «anch’io voglio andare alla processione, ti prego aiutami a vestirmi!». Con uno sforzo immane, tentò di scendere dal letto. «Non lo fare! Lidia non lo fare! Fermati!» Urla Luisa disperata. Troppo tardi per quel suggerimento inutile, Lidia cade riversa sul pavimento, gli occhi aperti non sbarrati, sembrano ammirare le candide nuvole che sfilano nel cielo blu, che ha preso il posto del soffitto, un cielo primaverile e non quello di una mattina di dicembre!
Luisa non resse a tanto strazio, iniziò a piangere convulsamente, folle di dolore: spalancò le imposte ormai da tanto tempo chiuse, e con il volto devastato dal pianto si affacciò dal balcone e come una piangente delle tragedie greche iniziò con un urlo ad annunciare a tutti la morte della piccola Lidia con questi disperati accenti: «Occhi ca avite visto chiancere chianciti, se non putite chiancere lacrimati! A figghia mia bedda murju, se ne ju senza virire u patri suu!». L’urlo, amplificato dal dolore di una donna distrutta nell’animo, sovrasta i canti e le preghiere dei fedeli che accompagnano il simulacro di Santa Lucia, la Patrona di Siracusa.
Il silenzio che scende come un manto nero, felpato, è riempito dalla voce di quella madre e si moltiplica trasformandosi in un coro da tragedia.
Gli sguardi della folla si alzano a guardare il balcone. Una donna sostiene sulle braccia il leggero corpicino di una fanciulla… Luisa, affranta, si produce in un dialogo impetuoso con Lucia, sembra offrirla assieme al suo dolore, alla Santa che nei teneri anni della adolescenza. fu privata della vista per difendere la sua purezza, alla Santa la cui statua si fermata sotto il suo balcone.
Januzzo, che non aveva voluto spostare la sua bancarella nella piazza, e si aggirava sempre nei pressi di via Eumelo, udite le urla strazianti di quella povera madre, spalancò il portoncino del palazzeddu e fu subito al cospetto di tanto dolore e riversò su quel corpicino inerte il più bel fascio di candidi gigli che aveva.
Per tutta la notte Luisa, impietrita dal dolore, e il giovane venditore di giocattoli, rimasero a vegliare in quella cameretta odorosa di fresie e gelsomini, dove, in un lettino dalla coltre di raso bianco giaceva come assopita, la dolce fanciulla agghindata con rose bianche e candidi gigli come una sposa bambina!
Non passarono neppure ventiquattro ore dal triste giorno, che, al portone del “palazzeddu”, giunse un reduce fuggitivo, stanco e duramente provato, che non sapeva che il dolore più grande l’avrebbe trovato dopo aver varcato la soglia della sua casa, in seno a quella sua famiglia tanto amata e sospirata in tutti quei lunghissimi anni di guerra e di prigionia!
Francesca Piazza