Per una vita

di

Francesca Strufaldi


Francesca Strufaldi - Per una vita
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 470 - Euro 17,80
ISBN 978-88-6587-1256

Libro esaurito

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina: «I girasoli» fotografia di Daniele Puca


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2011


Fine dell’anno. Mentre viaggiavamo veloci per le colline toscane, capii che il bilancio del 2008 era assolutamente positivo. Avevo fatto un po’ come la crisi economica di quell’inverno: un periodo nero, ma poi ero ripartita, lenta ripresa. E un po’ come aveva fatto Roosvelt con l’America negli anni Trenta, Antonio aveva fatto con me: mi aveva portata in salvo. Non sapevo con precisione quando mi fossi innamorata di lui, quando avevo perso la testa del tutto per lui, quando avevo realizzato che lui sarebbe potuto essere non solo l’uomo della mia vita, ma anche il padre dei miei figli. Sapevo però che non mi stavo sbagliando, che comunque fossero andate le cose, lui era quella persona che tutti cerchiamo per una vita, e che a volte, non incontriamo mai.


Ringraziamenti

Grazie.
Non cerco mai niente, ma trovo sempre molto. Questo è quello che a me dà la scrittura, ogni volta.
A due anni di distanza dal mio secondo libro, Attimi, mi ritrovo nuovamente a ringraziare i miei genitori, per aver creduto anche stavolta in me e nell’amore che io metto nello scrivere.
In particolare un grazie va a mia mamma, per l’aiuto datomi nella correzione delle bozze.
Ringrazio amiche ed amici che mi sostengono, che credono in me come scrittrice e che so, ancora una volta, mi leggeranno.
Un grazie a Paola, che come per i due libri precedenti, si è occupata della prefazione.
Un grazie al mio amico Daniele, amante della fotografia, che ha realizzato l’immagine di copertina.
Un grazie alla mia amica Alessandra, per aver letto il libro in anteprima e avermi dato un giudizio sincero.
Ho iniziato a scrivere questa storia nell’agosto del 2009, terminandola entro la fine dello stesso anno. L’anno scolastico 2008/ 2009 per me è stato un anno importante, l’anno della maturità, e senza dubbio, se non avessi vissuto le emozioni, le esperienze e le sensazioni che lo caratterizzarono non avrei avuto “le carte” per scrivere Per una vita, testo che colgo l’occasione di dire, non fa riferimento a fatti veramente accaduti o a persone realmente esistite.
Un grazie sincero, di cuore, va dunque alle canzoni ascoltate, ai libri letti, ai posti visitati, alle persone incontrate, ai momenti vissuti, in quell’anno.

Francesca


Prefazione

Maturità 2009: gli studenti stanno affrontando la prima prova scritta di italiano. Tra le tracce spicca come un fulmine a ciel sereno “Innamoramento e amore”. Sei ore per svolgere l’elaborato. Possono essere un’eternità per chi conosce profondamente il significato di quelle parole. E perdersi nei ricordi è un attimo.
Inizia così il lungo flashback della protagonista che ripercorre con la mente gli ultimi mesi della propria vita, la sua storia d’amore, un amore che è l’incontro fra due generazioni, due mondi diversi che si incrociano: Debora, lucchese, studentessa diciannovenne al suo ultimo anno di liceo e Antonio, laureato in filosofia, trentatreenne, divorziato, padre di famiglia che vive a Firenze. Alba e tramonto: con queste immagini i due protagonisti si presentano all’inizio del romanzo, mentre intrecciano un fitto gioco di lettere regalandosi emozioni e tasselli delle loro vite. L’immagine di un sole “leggero, prepotente e dolce” che balena così davanti, all’improvviso e risplende alto nel cielo e l’immagine di un tramonto che “ovunque si dipinge di sfumature che ti entrano dentro”, l’arancione che degrada nel rosso “mentre il blu della notte ti sta già avvolgendo”. Due luci bellissime, intense, ma diverse, inversamente proporzionali nella loro tonalità.
Debora e Antonio. Il caso li fa incontrare ad una conferenza, la consapevolezza di vivere una storia unica e importante li fa andare avanti tra mille difficoltà di cui non sempre i protagonisti si rendono conto: perché c’è l’amore. Ma può bastare, da solo, l’amore, a dare un senso alla vita, a centralizzare tutte le altre esperienze, a diventare l’unica ragione di esistere?
“Quell’uomo mi parlava della sua vita. Una vita in cui voleva farmi entrare. Preparata”. Ma a diciannove anni si è veramente preparati ad affrontare una situazione inusuale, a ricoprire ruoli che ancora non fanno parte di noi, o bisogna prima “capire come funzionano le cose” e farlo a proprie spese? Ed a trentatré anni, con un divorzio alle spalle, una sofferenza d’amore, il fallimento di un percorso, si è davvero maturi per accogliere un’altra persona nella propria vita, per condividere un progetto comune, pur nel rispetto delle reciproche individualità? Oppure si rischia di scivolare nell’amore dell’out out, che ti impone una scelta tra il te o il me, tra il sempre o il mai, tra il tutto o il niente?
A fianco della protagonista la storia di un legame ancora più profondo: quello dell’amicizia con Anna, Rossella e Margherita, con le quali Debora condivide sia le esperienze importanti, quelle che segnano, quelle che cambiano le persone, sia la quotidianità più spicciola, fatta di appuntamenti fissi, di locali consueti, di gesti ripetuti che danno sicurezza. Ma può resistere una grande amicizia a un grande amore? Sono sentimenti complementari o sono in competizione tra di loro?
“Ti stai perdendo. Debora, e nemmeno te ne accorgi. Non è il primo impegno che salti. Hai delle amiche… hai una vita tua”. Una grande amicizia messa a dura prova: come ne usciranno le protagoniste?
Il romanzo è la fotografia di una gioventù diversa dai cliché a cui siamo abituati, sicuramente in crisi, quasi alla deriva, ma sana, che orgogliosamente sta lottando da sola per dare un senso alla propria vita, che vuole riscoprire o rifondare i valori veri da cui ripartire per costruire il proprio futuro. È una gioventù che cerca il cambiamento e lo cerca anche attraverso l’amore. Ma l’importante è “che il cambiamento sia costruttivo”.
Francesca ci racconta questa storia con uno stile più disteso e pacato, le immagini e le riflessioni prendono il posto della sensazione immediata, della parola scarna, della frase breve ed incisiva a cui ci ha abituato nelle precedenti pubblicazioni.
La filosofia e la musica, rilette in modo assolutamente originale, fanno da colonna sonora a tutta la vicenda, la percorrono trasversalmente, si fondono con i pensieri, diventano stralci di esperienza condivisa, riscoprono la loro anima più profonda.
Il lettore non può non riconoscere in questo romanzo un frammento che gli appartiene, perché Francesca è questo che fa: racconta la vita, semplicemente.

Prof. Paola Panelli


Per una vita


A te, se mai lo leggerai.


Amore e innamoramento

Era stato un sogno o era la realtà che aveva superato il sogno? Non potevo fare a meno di chiedermelo. Anche lì. Anche durante quel momento. Lo so, lo so. Avrei dovuto fare tutt’altra cosa. Ma come potevo, come? Anche quella mattina ogni cosa mi parlava di lui, del nostro passato insieme. E mi sembrava quasi una barzelletta trovarmi lì a pensare a lui. Meno male che di tempo ce n’era. Sei ore.
Mi sono sempre chiesta perché danno così tanto tempo per fare il tema alla maturità. Insomma, in tre ore lo scrivi un tema. Anche tre e mezzo. E poi? Un’ora e lo copi. Tanto più di cinque colonne, ad esempio per il saggio, non le puoi scrivere. E secondo me, anche nelle altre tipologie è meglio non superarle: i professori, sono convinta, dopo un po’ si stufano di leggere. Comunque, anche quella mattina, fine giugno – me la ricordo bene – mi ritrovai a pensare a lui, a noi, alla nostra storia… a come era andata.
Ma non era una mia scelta.
Quella mattina mi ero alzata puntualissima. Quasi incredula. Poche ore, pochi giorni, e il ciclo della scuola superiore sarebbe finito. In realtà quando era suonata l’ultima campanella, dieci giorni prima, non l’avevo realizzata tanto questa cosa. C’era sempre la cena di classe tutti insieme, le tre prove scritte. Insomma, non mi vedevo ancora come un singolo in mezzo a trenta persone. Per ora, facevo ancora parte di un gruppo. Un gruppo che negli ultimi cinque anni era cambiato, ma si era anche unito tantissimo. Eravamo tante persone, diverse, con interessi opposti; avevamo dovuto placare conflitti, risolvere divergenze, ma alla fine, eravamo una grande famiglia. E temevo che dopo quell’esame, non lo saremmo più stati. E me ne resi conto solo quella mattina, prima di fare la doccia. Fredda, come sempre.
Erano le sette e mezza quando mi trovai con Anna al bar. Dopo quattordici anni sempre la stessa migliore amica. Lei. Anna. Anna dai capelli biondi, riccioli, e morbidi. Anna alta un metro e sessanta. Anna che sembrava presa da un libro delle fiabe. Una colazione leggera, sorrisi. Le ultime ansie, paranoie. Chiedere gli ultimi consigli l’una all’altra riguardo il tema, riguardo il saggio, riguardo l’articolo, e poi via. Verso scuola. Verso quella che era stata la nostra seconda casa negli ultimi cinque anni. In macchina non ascoltavamo musica. Niente radio, niente cd usuali. Quella mattina volevo proteggermi. Volevo proteggermi da me stessa, dai ricordi, dal passato. Da tutto. Avevo paura che il pensiero sbagliato mi avrebbe strappato la concentrazione. Non avevo tutti i torti, ma in quel momento non lo sapevo. Era solo precauzione.
Una volta entrate nel cortile della scuola avevamo trovato gli altri. Più tutte le altre classi. C’era tantissima tensione. Ma non si può descrivere. È una sensazione che va provata.
Alle otto e un quarto fecero entrare la mia classe nell’istituto. Mi sedetti in ultima fila – rigorosamente accanto ad Anna – e nel giro di mezz’ora la presidente aveva aperto la busta coi titoli. Quel momento è fantastico. Mille paranoie i giorni prima per immaginarsi che titoli sarebbero usciti, e poi in una manciata di secondi ecco che sai tutte le tracce. E non hai nemmeno avuto il tempo di focalizzarle bene. Eravamo in palestra, e come tutti sanno, in ambienti del genere la voce rimbomba. La prima traccia dunque, non l’ho nemmeno sentita. Ma la seconda fu come un fulmine a cielo sereno: “amore e innamoramento”. A me la venivano a proporre? A me? A me, dopo quei mesi in cui ero vissuta di solo amore. A me, che in quei mesi avevo rischiato il tutto e per tutto per amore. Lo riconosco. Un amore impossibile. Ma senza dubbio, ne era valsa la pena.
Mentre mi stavo già perdendo in questi pensieri, la commissione stava facendo la fotocopia di ogni traccia per ogni alunno. Verso le nove avevo davanti a me i documenti su cui basarmi: Dante, Alberoni, Leopardi… ero praticamente pronta per iniziare a scrivere quando…
Quando dovetti fermarmi. Inutile. Il pensiero di lui era troppo forte. Quello della maturità era nulla in confronto. Quindici punti in confronto a cosa? A quella che era stata la mia vita per mesi. Lui. Ed io. Noi. I nostri occhi, i nostri sguardi complici. E ogni testo che avevo davanti sembrava parlare di noi. Ogni cosa mi ricordava noi. Potevo non pensarlo? No. Tanto avevo sei ore e il tempo c’era.
Fu questione di posare la penna, di non dare troppo nell’occhio, e lasciarmi trasportare dai meravigliosi ricordi che affollavano il mio cuore, la mia mente, la mia anima. Innamoramento e amore. Il mio tema. L’ultimo periodo della mia vita. E in un attimo, mi ci ritrovai dentro.


L’incontro


La conferenza

Era iniziato tutto una mattina di settembre, a scuola. La mia professoressa di storia e filosofia aveva proposto di partecipare ad una conferenza a Firenze su argomenti quali l’importanza della storia nella civiltà di oggi, della filosofia, e il ruolo da essi coperto. La mia professoressa sapeva bene quanto questi argomenti non solo mi piacessero, ma proprio quanto mi attirassero: una vera e propria calamita, come ogni cosa che piace. Anna non aveva molta voglia di partecipare, mi guardò coi suoi occhioni ed io capii che dovevo andare sola. Che non si sarebbe alzata avanti giorno per sentire parlare un qualche filosofo. Comprensibile.
La conferenza era il venti settembre, alle nove. Quella mattina fu un vero dramma alzarsi. La sveglia suonava forte nella stanza, ma io ero andata a letto troppo, troppo tardi per poter rispondere in mondo scattante al suo richiamo. Mi alzai con calma, con fatica direi. Un po’ come succede a tutti. Mi diressi verso il bagno, mentre i miei genitori ancora dormivano. Doccia fredda. Vestiti. Sulla sedia fortunatamente erano deposte le scelte della sera prima: una camicetta bianca con la manica a tre quarti, gonna di jeans larga, lunga fino quasi al ginocchio, e degli stivali. Il giusto compromesso tra eleganza e gioventù. Un filo di trucco ed ero pronta.
Uscendo di casa dimenticai il blocco degli appunti. Sapevo che però avrei ricordato tutto. Anna me lo dice sempre: sono peggio di un elefante. Ho una memoria eccezionale; forse devo tutto alla maestra delle elementari che ci faceva imparare ogni cosa a memoria. Non so… Arrivai alla stazione giusto in tempo. La mia professoressa era già lì che mi aspettava con due compagni della mia classe. Il viaggio in treno fu particolare. Come ogni viaggio in treno. Credo che non ci sia persona che non possa affermare di “essersi perso nei suoi pensieri” durante un viaggio in treno.
È come una forza che cattura. Te ne stai lì seduto quando un particolare del paesaggio che sta passando, o un accessorio indossato da un passeggero, ovvero la canzone che qualcuno sta ascoltando inavvertitamente arriva a te, ti porta a pensare. Pensare, ricordare, immaginare. E allora è un vortice. Il vortice dei se, dei ma, dei però, dei chissà. Rimorsi, rimpianti. Piccoli sorrisi, lacrime che si trattengono. Pensare, e pensieri. Come le onde del mare. Si infrangono, e poi ripartono. I pensieri. Non li ferma nessuno. Arrivammo alla stazione di Santa Maria Novella che saranno state le otto. Un’ora per fare colazione, per arrivare al palazzo dove sarebbe stato tenuto il congresso.
Mentre mangiavo il mio solito cornetto accompagnato dal cappuccino mi guardai intorno. Donne sulla quarantina che facevano colazione vestite di tutto punto, un uomo con due bambini, un’anziana signora che leggeva il giornale. Tante piccole realtà tutte insieme, nell’arco di dieci metri quadrati. Mi è sempre piaciuto fantasticare sulle persone che mi circondano, sulle loro realtà. Non so perché, ma è sempre stato così. Immaginare che l’anziana signora stesse aspettando il suo compagno, o cercasse sul giornale notizie dei figli in carriera. Immaginare che quell’uomo avesse perso la moglie, che l’avesse tradita, che semplicemente fosse lo zio di quei due bambini. E allora pensieri. Viaggiare con la fantasia.
Una volta finita colazione ci dirigemmo al Palazzo dove sarebbe stato tenuto il congresso; ci chiesero un documento, che sarebbe stato fotocopiato in seguito, e ci fecero lasciare gli oggetti pericolosi. Le penne però no. Eppure una penna può essere molto pericolosa. In tutti i sensi. Se la lanci e prendi negli occhi qualcuno, se prendi appunti e fai una brutta recensione di qualcuno. Dopo un lungo corridoio entrammo in una sala immensa. Bellissima. Sembrava di essere al senato, stesso rosso. Solo una stanza un po’ più piccola e meno politici presenti. Alla nostra scuola era riservata la seconda fila centrale: perfetta. Gli oratori erano cinque. Non sapevo precisamente di cosa avrebbero parlato ma ero curiosa, affascinata. La filosofia è sempre stata la mia materia. Meno quella di Anna. Mi dispiaceva che non ci fosse. Insieme avremmo potuto parlare e sparlare, avremmo potuto ridere, scherzare. Mi ritrovavo invece con persone con cui avevo condiviso troppo poco negli ultimi quattro anni. Be’, quella conferenza poteva essere un modo per iniziare diversamente l’ultimo anno. Provai a entrare nella conversazione dei due alla mia destra: stavano parlando di chimica. Lasciai stare. La professoressa aveva trovato un’amica, una collega, e di voltarmi per parlare non avevo voglia. Così iniziai a leggere i nomi degli oratori.
Tre uomini, due donne. Nomi interessanti. Mi chiedevo cosa ci avrebbero detto, e in che tono. Mi chiedevo come fossero esteticamente. Credo che sia normale chiedersi come sia una persona. A una persona di nome Anna io associo i caratteri della mia Anna. Se penso a una persona con il nome di Flora mi viene in mente mia nonna, coi caratteri tondi e simpatici che la fanno apparire una signora buona e alla mano. Insomma, credo che la prima persona che incontriamo con un nome, e con la quale abbiamo dei rapporti ovviamente, ci influenzi per sempre per quanto riguarda quel nome.
Mentre me ne stavo a pensare queste cose ecco che la conferenza ebbe inizio.
Le luci si abbassano, così da poter alzare una luce più forte sui protagonisti della giornata. In fila, uno ad uno, finalmente di fronte a noi: una signora sui sessant’anni vestita di tutto punto con un completo viola che cerca di attirare l’attenzione di tutti, accompagnato da una collana di perle lunga almeno un metro. Una donna più giovane di almeno dieci anni, in gonna e giacca, verde l’una, bianca l’altra. L’attenzione cade anche su essa per i colori sgargianti e il fermaglio pieno di brillanti che lega i suoi capelli in un piccolo ciuffo. E i tre uomini che le seguono. Il primo con un vestito grigio, sulla settantina. Cammina tranquillo, sorridendo. Probabilmente per lui è normale fare convegni come questi. Il quarto con un paio di occhiali dalla montatura nera, che risalta sulla camicia celeste sorride e lo segue. Avrà sì e no quarant’anni, fa strano vederlo in mezzo agli altri. Ultimo un uomo con un vestito blu, camicia rosa, sui cinquanta. Al suo arrivo, una volta che tutti in fila, ai loro posti, ci hanno sorriso, si siedono.
È la signora con il vestito viola ad iniziare la conferenza. Com’è nato lo studio della storia? Com’è nata la filosofia? Ed ecco che mi ritrovo a sentire la distinzione tra preistoria e storia, come l’una è priva di documenti scritti, come l’altra ne è ricca, già dai tempi dei Sumeri. Ecco che si perde in un attimo nella leggenda di Babilonia, della torre mai portata a termine a causa di una maledizione che fece nascere tutte le lingue del mondo tra gli operai che la stavano costruendo e che quindi non poterono più comunicare tra loro. Passa poi alla Grecia, alle prime interpretazioni riguardo la Terra: che sia fatta solo di un elemento, l’aria, o l’acqua, o il fuoco. Che sia fatta di tutti e quattro, più uno che li racchiude in qualche modo. I primi sofisti, fino ad arrivare a Socrate. Ed ecco che storia e filosofia vanno ad unirsi, intrecciarsi. Ecco che divengono vere discipline. La signora parla con un accento del nord, spiega a tutti noi presenti l’importanza di queste due materie. È il momento poi del signore più anziano, uno storiografo vengo a scoprire, che spiega l’importanza dei documenti scritti, del loro studio, accurato. Dai brani storici, lettere di colonnelli, politici, prigionieri. Fino alle lettere dei filosofi, che fanno comprendere meglio il loro pensiero. A quelle dei critici. Ed è un viaggiare tra queste due discipline continuo, un flusso senza fine. È la volta dell’altra signora, che tiene una breve lezione di storia contemporanea. Per poi seguire il signore con l’abito blu. Breve lezione di filosofia, di come la filosofia è cambiata dopo i “filosofi del sospetto”, dopo Marx, Nietzsche, Freud. Infine la parola passa all’ultimo oratore, il più giovane. È un uomo che davvero non arriva a quarant’anni. Camicia, pantaloni, mocassini. Occhiali neri che risaltano anche i suoi capelli. Ci guarda, sorride.
“Adesso dovrei concludere questa mattinata. Sono già passate due ore, dobbiamo lasciare del tempo per le domande. Sarò breve. Mi chiamo Antonio Corri e sono laureato in filosofia. Non faccio il professore, non faccio nemmeno il filosofo. Lavoro per una grande azienda nel reparto assunzioni. Non voglio però parlarvi del mio lavoro, ma del senso della storia, e in un certo senso anche della filosofia, che vi si intreccia, come avete visto, continuamente. La filosofia che è un po’ la nottola di Minerva. Arriva alla sera, quando la storia ha compiuto il suo percorso, e analizza. Ma non divaghiamo” Si alza in piedi. Gli altri quattro lo osservano allibiti.
“La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dell’antichità diceva Cicerone, ed è proprio così: la storia, che si parli di quella di un singolo uomo, o che si parli di un’intera nazione, è parte integrante e presente della realtà.
Fu Hegel, nell’Ottocento, ad affermare che la realtà non è altro che lo svolgersi di un processo storico di cui la verità ne è il risultato; sebbene come afferma Popper una storia concreta del genere umano non esiste e non può esistere noi senza il nostro passato non saremmo chi siamo.
Non saremmo chi siamo a livello di singoli individui, come protagonisti di emozioni e momenti vissuti nella nostra vita, ma non saremmo chi siamo nemmeno a livello di popolo. Un italiano come può sentirsi tale davvero senza sapere come Garibaldi, Mazzini, Cavour, arrivarono all’Unità? O come potrebbe esprimere la sua opinione riguardo date come il 25 aprile o il 2 giugno senza sapere il significato di “resistenza” o “fascismo”?
Con questo non voglio dire che una persona debba legarsi alla storia, al suo passato, inscindibilmente, ma che per arrivare alla pienezza di sé, debba conoscerla.
Come affermò Nietzche, la storia va criticata quando dà le spalle al presente per guardare il passato; diviene invece positiva quando critica il passato e vive nel presente.
Basti pensare un attimo a Marx: la sua critica alla Borghesia, lo studio del plus-valore, la necessità di una rivoluzione: furono tutti i risultati dello studio dell’economia che aveva preceduto quella che egli si trovò a vivere.
Nel nostro piccolo, noi come persone, siamo risultato di esperienze che, direttamente o indirettamente, nel bene o nel male, hanno toccato la nostra esistenza.
Si pensi a quando si sceglie la destinazione per una vacanza: si ascoltano le recensioni di persone che hanno già scelto quella meta. O quando qualcuno ci chiede di uscire, accettiamo se questa persona, quando l’abbiamo conosciuta e vi abbiamo trascorso del tempo, ci ha fatto sentire bene.
A volte non ce ne accorgiamo, ma la storia fa parte di noi, di chi siamo.
A livello più ampio, e non mi sto a soffermare perché ci sono libri e insegnanti apposta, se siamo ciò che siamo, a livello politico, geografico, religioso, tutto ciò va ricercato nella storia.
Cantava De Gregori Attenzione, nessuno si senta escluso! non c’è infatti qualcuno che può pensare di vivere in questo mondo, senza la consapevolezza di cosa abbiamo alle spalle. Lo si può credere: ma non è così! Vivere senza conoscere il passato sarebbe come voler correre senza aver prima imparato a camminare.
A volte è difficile, quasi impossibile, trovare un senso alla storia, al passato. Come dice Colombo, le storie vissute hanno una logica ferrea per i loro protagonisti, che tuttavia può sfuggire agli estranei… e così ci sono momenti in cui dobbiamo solo prendere i fatti per ciò che sono e renderli un punto di partenza.
Come avrebbe detto Bacone a suo tempo, non dobbiamo comportarci da formiche, ma da api: la storia a volte è così, come dice Popper benché non abbia un senso, noi possiamo darglielo.
Ma alla fine, dobbiamo veramente chiederci che senso abbia la storia?
Sarebbe un po’ come chiederci che senso abbiamo noi, poiché come cantava De Gregori: la storia siamo noi, siamo noi quest’onde del mare, questo rumore che rompe il silenzio.”
Si ferma e sorride. Siamo tutti in silenzio. Quasi commossi. Lui ci guarda negli occhi. Non capta i miei che lo guardano affascinati. La mia professoressa di storia ovviamente inizia ad applaudire. Tutta la folla le va dietro. Io per prima. Applaudiamo. La signora col vestito viola riprende parola mentre il signor Corri si siede.
“Bene, Antonio come sempre lascia il pubblico senza parole: poche le sue, ma buone. Adesso, se a qualcuno di noi volete fare delle domande, anche riguardo i testi che abbiamo pubblicato, saremo lieti di rispondere.”
D’accordo. Domande. Domande? No, non ne ho. Non me le sono preparate e sinceramente non ho letto alcun testo. Di nessuno dei cinque. Una ragazza due file dietro di me, alza la mano.
“Scusi, lei della storiografia”. L’uomo la guarda un po’ male, si chiede probabilmente chi è quella ragazzina per parlargli così.
“Come mai a scuola storia si fa sui libri di scuola e non sui documenti?” L’uomo la guarda, sorride.
“Senza dubbio fare storia utilizzando la storiografia sarebbe un modo più che completo per arrivare a conoscere ogni angolo degli eventi passati, ogni sotterfugio. La realtà è che però non è così semplice. La storiografia non è costante e comunque ogni brano va legato logicamente a un altro. I professori sono più che in grado di farlo, ma poi, i ragazzi, riescono a prendere appunti costantemente e in modo così corretto da non usare più un libro di testo?” La ragazza lo guarda, annuisce. Io osservo Corri. Non riesco a non guardarlo. Mi ha colpita troppo. Basta, devo farmi venire in mente una domanda. E rapidamente. Un ragazzo abbastanza distante da me, alza la mano.
“Chi ci dice che non ci siano dei documenti scritti risalenti alla preistoria ma poi corrosi col tempo?” la signora col vestito viola sorride.
“Nessuno. Ma non ne è mai stato trovato uno. Anche ci fossero stati, non ne abbiamo le prove. E non ne avremo mai. A questo punto, la linea più netta, tra preistoria e storia, è quella della scrittura. Le prime forme di scrittura, le fonti dirette, danno il via alla storia. Quelli indiretti a un altro tipo di storia, che si chiama scienze della Terra e non ci interessa.” Sintetica, arrogante, ma competente. Ecco il mio momento. Alzo la mano, la signora dalla giacca bianca mi sorride. Ma la mia domanda non sarà per lei.
“Signor Corri, lei dice le storie vissute hanno una logica ferrea per i loro protagonisti, che tuttavia può sfuggire agli estranei. Vale sempre?”
Sorride. Malizioso. O sembra a me?
“Intanto non lo dico io, lo dice Colombo. Io posso solo condividerlo. Ma comunque sì. Credo sia così. In ogni caso. O meglio, mi faccia un esempio se ce l’ha in testa signorina.” Arrossisco.
“Se un uomo tradisce la propria moglie per mesi, trova una giustificazione?” per un attimo si ferma. Mi guarda. Profondo. Silenzio. I suoi colleghi lo osservano.
“La moglie non troverà mai la ragione per quel tradimento al posto del divorzio, ma il marito che l’ha tradita sì. Probabilmente nell’amante trova qualcosa che nella moglie non trova, ma non vale abbastanza per lasciare la moglie. Probabilmente così crede di non ferire la moglie. Cerca la via che a lui sembra più logica, più sensata, anche se a volte questa non lo è. Ti basta come spiegazione?” Lo guardo.
“Poco. Credo che se una cosa ha senso per una persona, dovrebbe averlo per tutte.”
“La rabbia, il rancore, la delusione, l’odio, a volte fanno perdere il senso delle cose.” Sorride. Sorrido anche io. Annuisco. Già un’altra mano dietro di me è alzata.
“Con l’aumentare degli anni, si finirà di studiare la preistoria, o si concentreranno le ore?” La signora con la giacca bianca lo guarda, prende parola.
“Non so, e purtroppo non vivrò così a lungo per dirtelo. Ti posso dire che già ora fare tutto è difficile. Solitamente nelle scuole si corre coi programmi, se si può dire così. Però ogni momento è importante. Credo che nel futuro o verranno sintetizzati i momenti a livello di spiegazione oppure aumenteranno le ore di scuola. Sì, credo che andrà così”. La signora è soddisfatta. La conferenza va avanti, ancora qualche domanda. Poi ecco che la signora col vestito viola la conclude. Tutti si alzano, in cerca di autografi. Io no, mi alzo, scendo le gradinate, mi metto in fila per parlare con Corri. Lui mi vede che mi avvicino, mi guarda, senza espressione, mentre parla con altri.
Arriva il mio turno.
“Ciao” Lui mi guarda, aspetta che anche io lo saluti.
“Debora, piacere” faccio per stringergli la mano. Forse azzardo troppo. I suoi occhi verdi si incrociano ai miei. Stringe forte la mia mano.
“Antonio, ma già lo sai. Avevi qualche riferimento prima?”
“Diciamo che mi sembrava troppo facile come frase, quasi fatta. Per il resto, bel discorso.”
“Grazie. Quanti anni hai?”
“Diciotto.”
“Avrei detto di più, sei sveglia.”
“Lo prendo per un complimento.”
“Fai bene.”
La mia professoressa in lontananza mi guarda: non vuole perdere il treno del ritorno. Gli altri si sono già tutti avviati. Guardo Antonio, sorrido.
“Devo andare. Sono al liceo, non lavoro mica nel reparto assunzioni di una grande azienda io. La mia professoressa mi aspetta, devo prendere il treno.”
“Lucchese?”
“Sì, come hai fatto a indovinare?”
“L’accento. Stammi bene Debora.”
“Ciao Antonio.” E lo guardo per un’ultima volta. Salgo le scale, mi volto all’ultimo scalino. Vorrei che lui mi stesse guardando, ma non è così, sta rispondendo ad altre domande, altre firme, altre ragazze che sono rimaste affascinate come me. All’ingresso la professoressa mi aspetta.
“Sei rimasta a parlare con Corri?”
“Sì.”
“L’ho avuto un anno al liceo. Era una mente davvero brillante. Non si zittiva mai, aveva sempre da dire la sua, ma spesso era come se avesse un’ottica del mondo tutta sua. Totalmente irrazionale. Lui è veramente il super uomo di Nietzsche, il bambino. Ha sempre detto sì a ciò che gli piaceva.” La guardo. L’ho ascoltata, ma sono rimasta colpita dalla prima frase.
“L’ha avuto al liceo?”
“Sì. È di Lucca, poi si è trasferito a Firenze, per lavoro.” Mi fermo un attimo. Lucca. Magari, chissà quante volte, sono passata davanti casa sua, in macchina, o a piedi. Chissà. Una casa dove ora restano dei genitori. E lui prima stava lì. Chissà. Una volta sul treno non posso che fermarmi a ripensare ad Antonio. Trentotto, massimo trentanove anni. E i capelli neri, gli occhi verdi. Tratti spigolosi, un naso piccolo. Come il mio. Orecchie leggermente a sventola, simpatiche. Magro. Camicia celeste, i primi due bottoni slacciati, nessuna cravatta. Pantaloni, cintura. Mocassini marrone chiaro. La sua stretta di mano, il suo sguardo. Le sue parole. Sospiro. Non lo vedrò più. O quando? Non so nemmeno che libri ha scritto. Mi volto verso Luca. Vorrei chiedergli di farmi usare il suo telefono per andare su internet, per cercare quell’uomo. Ce l’avrà un sito, no? Ma non posso. Siamo in treno. Manca poco. Poco e sarò davanti al computer, potrò digitare quel nome e capire chi è. Cosa ha fatto nella sua vita. Cosa fa.
Il treno corre veloce, mi sento un po’ Carducci mentre osservo i paesaggi circostanti, un po’ come lui osservava i cipressi che a Bolgheri alti e schietti vanno da San Guido in duplice filar; io non guardo al passato, io non ho la Tittì a casa che mi attende. Io ora ho un sogno, un’utopia. Un’illusione che mi attende; e con queste parole tra i miei pensieri mi abbandono alla musica del mio iPod che corre veloce.


La richiesta d’amicizia

Erano le cinque quando tra un contrattempo, un saluto, una fermata e altro arrivai a casa.
Posai la borsa, salutai solo mia madre, dato che mio padre come sempre non c’era, e andai nella mia camera. Entrare in quella stanza era tornare veramente alla base. Nel mio nido, come avrebbe detto Pascoli. Mi sedetti sul grande puff per un attimo, mi voltai verso la porta del balcone, e mi diressi al computer. Un clic ed eccolo in via di accensione. Nel mentre mi toglievo gli abiti di tutto il giorno per indossare la solita tuta con cui stavo in sempre in casa. La musica del computer che si è acceso, il programma di base che si avvia. Io che mi avvicino, accendo lo stereo.
Alla radio stanno trasmettendo Iris, di Biagio Antonacci. Iris tra le tue poesie ho trovato qualcosa che parla di noi; a me in realtà, in quel momento, sarebbe bastato trovare qualcosa, tra i siti internet, che parlasse di lui. Internet che si avvia, connessione effettuata. Motore di ricerca. Ed eccolo. Lo spazio bianco sui cui inserire il nome.
Antonio C… Mentre scrivevo mi chiedevo che stavo facendo. Cosa potevo ricavarne da tutto questo? Che stavo facendo? Avevo incontrato un uomo che faceva bene il suo lavoro, nulla di più.
Ed ora eccomi, a digitare il suo nome. Alla ricerca di qualcosa che non sapevo nemmeno io. Antonio Corri. Invio. Il computer che carica lento ed ecco. Una paginata intera.
Antonio Corri, e la ditta per cui lavora, scrivere a lui per essere assunti, inviare a lui i curriculum.
Antonio Corri, La filosofia ora, il suo primo libro, di cinque anni fa. La filosofia che si intreccia alla storia. Perché? di due anni fa.
Antonio Corri, sul social network. Lo stesso dove sono iscritta io.
Antonio Corri, l’università di Bologna, intervento.
Antonio Corri, l’e-mail.
Antonio Corri, biografia. Eccola. Clicco, non clicco? Sono quei bivi della vita in cui non puoi sbagliare. Clicco.
“Antonio Corri nasce a Lucca, il 7 marzo 1975. A quattro anni inizia a suonare il pianoforte, passione che non abbandonerà mai col tempo, ma che dovrà lasciare spazio ad altre due grandi passioni che Antonio incontra da ragazzo: la filosofia e la pallavolo. Dopo essere uscito coi minimi voti dal liceo scientifico, e coi massimi dall’università di Pisa si trasferisce a Milano per lavoro, dove incontra una donna con cui avrà due figli, ma che non è destinata ad essere la donna della sua vita. Attualmente vive e lavora a Firenze ed è l’autore di due testi, La filosofia ora e La filosofia che si intreccia alla storia. Perché?.” Una breve biografia, scritta da chi poi?
Allora… tre passioni: pallavolo, pianoforte, filosofia. Bene, almeno una in comune l’abbiamo. Poi, 1975. Ha trentatré anni. E due figli, più un divorzio alle spalle. Con una persona “che non è destinata ad essere la donna della sua vita”. Cosa vuol dire? Ora che ci penso potrebbe voler dire che è morta. Oddio. Un vedovo con due figli. Figli, già. Maschi? Femmine? Uno e uno? E i suoi libri? Dove si possono trovare?
Mille domande, mille domande che in quel momento non potevano fare a meno di avvolgermi, di stringermi come un forte abbraccio.
Chi era Antonio Corri? Perché lo stavo cercando così? Aveva messo insieme un sacco di belle parole. Nient’altro. Eppure, mentre le aveva dette, io ci avevo visto di più. Troppo di più. In quegli occhi che brillavano, nel modo in cui si era alzato. Io ne volevo di più di quell’uomo, di quel filosofo. Volevo sapere in che modo assumeva la gente, volevo sapere cosa ne pensava di tutto ciò che lo circondava. Ne volevo assolutamente di più.
Dovevo scoprire chi fosse. Volevo andare oltre quella camicia, quei mocassini, quegli occhiali. Prima di tutto dovevo leggere i suoi libri. Poi, dovevo trovare lui. Un clic indietro. Eccolo lì. Antonio Corri. La sua pagina nel social network. Clicco ancora. Aggiungi agli amici la connessione automatica al mio nick mi mette subito di fronte a quella domanda.
Guardo la foto del profilo. Lui con due bambini. Biondo uno, castana l’altra. Tre anni il maschietto, uno massimo la bambina. Lui indossa una polo verde, sorride. La bambina che ha in braccio indossa un vestitino rosa e un cerchietto a pallini dello stesso colore. Il bambino, tenuto per mano dal padre, tiene nell’altra mano un libro. Probabilmente uno dei due del padre. Guardano tutti e tre qualcuno, sulla destra, sorridono, mentre qualcuno scatta la foto. Forse è voluta così. Forse l’ha fatta lei, la donna del suo non-destino. Lo sfondo è scuro, non si capisce dove possano essere.
Aggiungi agli amici quel pulsante vuole che io lo faccia diventare un amico. Vado un attimo sul mio profilo del social network prima di cliccare. Guardo le novità. Poche. Un’altra foto dove Anna mi ha taggata. Un’altra foto in cui noi due siamo insieme. La normalità. La mia condivisione al link meglio aver amato e perso che non amare affatto piace sia ad Anna, sia a Rossella. Rossella, che faccia farebbe se le dicessi cosa sto facendo? Non voglio immaginare. Torno indietro.
Antonio Corri. Guardo un momento la foto. Ma cosa voglio fare? Potrei quasi essere la sorella maggiore di quei due bambini. Eppure non ce la faccio.
Me la ricordo quella sera. Ho dovuto. È stato più forte di me. Potevo spegnere il computer, andarmi a fare la doccia e prepararmi all’aperitivo solito con le solite amiche. Eppure non l’ho fatto. Eppure ho pigiato su quel tasto.
Aggiungi agli amici.
Click.
Allega messaggio. Oddio. Allego? E che gli scrivo? ciao, ti penso da stamani? No, non è il caso. Il cuore batteva. Sono quei momenti in cui in realtà non hai nulla da perdere. Eppure ti sembra di perdere tutto. Ti sembra di essere lì, su un precipizio, e non sai come fare.
Un Sms. La vibrazione del cellulare quasi mi spaventa.
Alle otto alla fontana che poi si fa l’aperitivo. Mi devi raccontare di stamani. Chissà com’era gasata la prof sorrido. La prof? E di me che ti dico? Ti dico che sono impazzita. Ti dico che ci sto impazzendo. Dietro uno che ha due figli. No. Non ci sono più con la testa. Eppure… sono sempre lì. Ma via, basta. Non ho più tredici anni.
«Ciao, sono Debora! Credevi che non mi avresti più vista, e invece! Ho anche scoperto che per un anno hai avuto la mia prof di filosofia! Te la ricordi? Ciao ciao!» invia.
O mi prende per matta, si spaventa e non mi accetta, oppure per una volta ho fatto la cosa giusta.

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine