Il pendolo

di

Franco Viganò


Franco Viganò - Il pendolo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 308 - Euro 15,50
ISBN 978-88-6037-9177

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In copertina: «Beautiful yacht in San Francisco bay, the city on horizon» © Konstantin Sutyagin – Fotolia.com rielaborazione di Monica Fumagalli
Nel retro di copertina fotografia di Franco Viganò


Nella mente di tutti gli uomini
risiedono le speranze, i desideri e i sogni.
Nel cuore di ognuno di loro
arde la fucina che può realizzarli.
Chi dimentica questo fuoco,
soffoca il calore sotto la cenere.
Colui che invece soffia sulla brace,
ed accende le faville, riempie l’aria di sé.

Franco Viganò


Tutto questo è solo lo scorrere silenzioso del racconto che si snoda tra le anse irregolari della vita, come un fiume nascosto che a volte emerge all’improvviso e ci trascina via con sé.
Alcuni hanno intuito tra le nebbie la punta pallida di un iceberg, altri hanno osservato con curioso stupore onde anomale sopra un mare piatto, per altri ancora è stata sufficiente qualche increspatura sullo specchio dell’acqua per valutare insignificante ogni fenomeno inspiegabile e distante. Solo pochi sono riusciti a vedere la forza e la violenza che scaturisce dagli abissi più profondi e inespugnabili, ma solo chi ha vissuto dall’interno l’impeto travolgente del maremoto può comprendere fino in fondo la forza, e al tempo stesso la grande fragilità che dimora in ognuno di noi. Noi tutti, indistintamente, siamo degli iceberg che navigano nel mare della vita, a volte la parte più profonda di noi, quella sommersa, anziché galleggiare ci trascina sul fondo degli abissi. È buio, fa freddo, ma soprattutto laggiù si è soli.
Il protagonista, Marco, torna dal confine dell’Europa orientale nel periodo della guerra fredda, e porta con sé i ricordi più brutti e le paure più terrificanti, facendole diventare il simbolo di tutte le sue angosce. Alek Dvorai, divenuto funzionario del kgb, diventa il suo spettro quotidiano, e quando nel capitolo del “match race”, ultimo atto di una caccia spietata, Marco cede al suo inseguitore, conosce il freddo della morte e la paura del nulla. L’epilogo è drammatico, e ne scaturisce un messaggio chiaro: guardando più vicino e scrutando dentro se stessi, è possibile trovare quello che lontano e con grande rischio si è cercato invano.



Il pendolo


Prefazione

24 luglio 1965 – 25 settembre 2007

Molti testi e documenti storici, asseriscono che Galileo Galilei intraprese lo studio del moto del pendolo nel 1581, si dice infatti che mentre si trovava nella cattedrale di Pisa durante la messa domenicale, l’allora diciassettenne giovane scienziato osservasse annoiato una lampada appesa al soffitto che colpita dalle correnti d’aria oscillava sopra la sua testa. La geniale intuizione andò ben oltre alla banale osservazione di un movimento oscillatorio regolato e governato da leggi fisiche, ma invase con la sua conoscenza uno spazio astratto e infinito nel quale trovano origine tutte le cose.
Nella storia del mondo, e naturalmente anche nella storia contemporanea di tutti noi, avvengono e si sviluppano delle situazioni che molto spesso sfuggono al nostro controllo nell’immediatezza, questo accade perché la frenesia e il coinvolgimento è tale da impedirci di sostare per un attimo sull’accaduto. In dettaglio poi sfuggono anche al loro reale contenuto e alla loro materialità, se – quando raramente ci capita – cerchiamo di riconsiderarle ed analizzarle a fondo in un secondo momento. Il tempo purtroppo o per fortuna non aspetta nessuno, e se consideriamo l’insieme di tanti momenti in cui ci siamo distratti o non avevamo il tempo di “vedere” ciò che i nostri occhi guardavano, ci rendiamo conto che tutta la vita diventa una rincorsa, e tutte le cose – belle o brutte – che ci scorrono davanti, diventano un lungo, noioso e triste elenco d’occasioni mancate. Fosse solo un elenco di momenti soffiati via dal tempo sarebbe il minore dei mali, la cosa che trasforma la distrazione in vera tragedia, è convincersi ed acquisire consapevolezza che quel tempo perso, è stato gettato via volutamente ed intenzionalmente dalla crudele mano di un destino avverso.
Esistono intere biblioteche colme di testi che si occupano di questo argomento, libri che affrontano i temi riguardanti la natura dell’uomo, il suo passaggio in questo mondo con l’infinita quantità di intenzioni e segni concreti che durante il suo transito lascia, e poi il mistero della sua fine, del luogo dove ognuno andrà, o dove immagina di potere o dovere andare. Una cosa è certa, esiste un istante in cui dal nulla un battito inizia a segnare la sua frequenza, e un altro identico istante in cui questa frequenza cessa definitivamente, nel mezzo ci sono un numero infinito di oscillazioni che chiamiamo “vita”. Noi siamo presenze forti all’interno di queste oscillazioni, non possiamo permetterci di perdere una sola di esse, e non possiamo essere assenti quando le oscillazioni più intense o più deboli mutano il senso delle cose. Il moto del pendolo imprime il suo movimento con inesorabile costanza, e definisce un tempo in cui lo spazio non ha limiti, si dilata a dismisura consentendo la costruzione volontaria di azioni e la trasformazione di esse in sensazioni ed emozioni. Noi siamo parte di questo moto, ne definiamo l’origine e ne determiniamo la frequenza, ogni volta che pensiamo, ogni volta che diamo forme e contenuti ad un’azione, definiamo ed alimentiamo nel movimento del pendolo un frammento di tempo in maniera unica, indelebile ed universale. Senza rendercene conto rappresentiamo una tessera fondamentale per l’intero mosaico che in ogni istante si realizza, e la nostra presenza, non casuale, determina una dimensione a nostra somiglianza e a noi riconducibile senza possibilità di errore.
Spesso, ma direi piuttosto “sempre”, le occasioni che abbiamo per dare un’immagine di noi e lasciare l’impronta del nostro passaggio sulla realtà, sono strettamente legate al modo e all’atteggiamento che proponiamo nel momento in cui ci occupiamo delle cose e ne determiniamo l’esistenza. La predisposizione, l’attenzione, lo spirito e l’umore che mettiamo in esse ne determina la qualità. L’umore è quella visione del nostro animo che frequentemente portiamo sulle spalle come un peso troppo grande, l’esistenza che trasciniamo con fatica e sofferenza verso sera non è lo specchio di quello che nella realtà accade, non è la conseguenza dei fatti che ogni giorno riempiono la vita di tutti noi, scanditi “forse” da un destino, ma è il riflesso di come noi vediamo tutte queste cose.
Un grande filosofo ha anticipato di secoli i nostri tempi immaginando il danno enorme che l’atteggiamento sbagliato può produrre se il filtro attraverso il quale concediamo alle cose del mondo di arrivare a noi risulta intasato da false concezioni e deboli convinzioni; una falsa partenza o una considerazione errata su ciò che la vita ci potrà offrire in ogni suo istante, può stravolgere e condizionare un’intera esistenza. Il 2009 è stato dichiarato anno internazionale dell’astronomia, ma a prescindere dalla specificità della definizione, è indubbio che la “rivoluzione scientifica e tecnologica”, ma ancora di più la “rivoluzione globale” che sempre più freneticamente interessa tutti i popoli e arriva fin sulla porta di casa nostra in ogni istante, non è un fenomeno casuale, non è stabilito e determinato da un “destino che fa quello che vuole”. Oggi più che mai la conoscenza e la coscienza dell’uomo trovano un senso e uno stimolo nell’affermare e continuare quello che più di 400 anni fa Galileo iniziò, il processo che consente all’uomo di appropriarsi del proprio tempo è ancora in atto e mai come ora diventa “necessario”. Ogni idea, intuizione e decisione è frutto del suo tempo, al centro di questo tempo non può che esserci l’uomo in tutte le sue manifestazioni. In genere si tende ad affermare che il destino governa ogni avvenimento, ogni situazione che quotidianamente si verifica, e spesso si pensa che conduca per mano l’uomo nel difficile compito di fare delle scelte, più frequentemente si utilizza questo espediente – di servirsi del destino come alibi perfetto per ogni questione – per giustificare o dimostrare che solo credendo nelle fatalità, e concedendoci completamente al fato, possiamo considerarci immuni ed immortali. L’uomo fatalista vive il suo tempo semplicemente come fotocopia di un originale conservato in un archivio segreto che forse un giorno ci sarà dato di consultare… povero Galileo, povero uomo di scienza, ha sprecato inutilmente la sua più geniale intuizione sacrificandola in nome di un basso e poco significante progetto.
Tutti quanti conoscono l’applicazione più semplice ed appariscente del principio dell’isocronismo del pendolo: l’orologio; anche il protagonista di questo racconto si è confuso cercando disperatamente di ingabbiare il tempo in una cassa d’orologio, senza curarsi di vivere ogni momento e di considerare il tempo come un immenso spazio vuoto bisognoso di essere riempito. L’uomo moderno, pretende di modificare all’interno di questo enorme spazio che ogni giorno gli viene concesso, l’elemento fondamentale che caratterizza il tempo, ossia il ritmo, un susseguirsi ciclico e perpetuo di situazioni che sono la vita. E così facendo si accontenta di accogliere come oro colato ciò che il destino gli propone, compiacendosi quando nei suoi confronti è stato benevolo, e maledicendo il firmamento quando invece la concessione è più avara, nulla di più falso e nulla di più sbagliato!
Torniamo per un istante nella cattedrale di Pisa ed osserviamo assieme a Galileo la lampada che sopra la nostra testa oscilla “paurosamente”, – oggi diremmo certamente così, visto che purtroppo viviamo il tempo contemporaneo come una sopravvivenza quotidiana – probabilmente vedremmo il riflesso della luce muoversi avanti e indietro sulle pareti, sicuramente l’attenzione cadrebbe sulle persone che sono in quel momento sotto alla lampada, e così facendo, una dopo l’altra abbiamo già perso e fatto scappare una quantità considerevole di oscillazioni, un pezzo dello spazio che era nostro è andato perduto irreparabilmente. Colpa del destino o colpa nostra che ci siamo distratti!… Come mai Galileo non si è distratto ed ha osservato un fenomeno che era da sempre sotto gli occhi di tutti, certamente il genio sregolato che ha messo lo scienziato Pisano su un piedistallo, non può e non deve essere sminuito, ma tutti i giorni, in ogni istante e per ogni situazione, perfino nelle particelle elementari che costituiscono la materia, il tempo si manifesta ritmicamente in tutta la sua essenza.
L’uomo deve impadronirsi del suo tempo, senza sperare o disperare per un destino che come un coniglio bianco esce per magia dal cilindro e stupisce. Galileo è stato anzitutto un uomo di scienza, geniale ricercatore ed astronomo, eccellente letterato, certamente il pioniere di quella che oggi definiamo comunicazione e divulgazione dell’informazione; un precursore in tema di analisi e strategia d’azione, abile ed ironico interlocutore ha interpretato ed affrontato la vita come lei avrebbe voluto, ma soprattutto è stato un uomo che ha vissuto il suo tempo senza subirlo. Ecco perchè non si è distratto, lui, ha messo l’uomo prima di ogni cosa, in tutta la sua pienezza: razionale ed emotiva. Anche nel suo stato iniziale puro ed incontaminato, l’uomo ha dato prova di ascoltare se stesso con grande attenzione, probabilmente senza rendersene conto, ma sicuramente esercitando sulle sue azioni l’influsso della parte attiva e creativa presente in sé.
La vettura ancora lontana, ma non troppo lontana, che si dirige a gran velocità verso la piazza principale percorrendo in salita il lungo viale alberato, non arriverà all’ultima quercia prima che quel ragazzino ancora fermo ed indeciso sul da farsi, inizi la sua corsa per superare il marciapiede alto che delimita il selciato dei giardini pubblici! Così come la medesima auto, non riuscirà a completare tutta la svolta verso sinistra, una volta raggiunta la quercia del quesito precedente, senza che il solito ragazzino lanciato di corsa nella sua sfida personale, non abbia superato in sicurezza il segnale stradale che indica a tutte le vetture di arrestarsi prima della linea bianca!
Cosa succede in queste scene di ordinario traffico cittadino? Cosa succede ad un’auto e ad un giovane qualsiasi, assolutamente estranei l’uno all’altra, per sfidarsi in questo duello fantastico? Quasi dieci volte su dieci il ragazzino vince la sua sfida, e questo perché nel ragionamento elementare ma al tempo stesso essenziale nella sua semplicità, la decisione di costruire tutto lo scenario, e di partecipare alla competizione, scaturisce dalla convinzione di riuscire ad ottenere il massimo risultato a prescindere dal destino che potrebbe frapporsi tra il selciato e il cartello di stop. L’azione ruota inconsciamente attorno alla formulazione concreta che valuta a priori la distanza, o meglio la difficoltà tra l’obiettivo finale e le capacità personali di sostenere questo confronto, il ragazzino sa che tutto ciò è commisurato alle sue possibilità perché lui è l’origine di tali condizioni; è però un equilibrio precario e calcolato affinché il dubbio possa rappresentare un’incognita tanto grande quanto è grande la certezza di riuscire. Più semplicemente e in maniera assoluta, l’uomo deve scoprire e quindi conoscere i suoi limiti per poter programmare le azioni che realizzeranno il suo futuro, nel proporre queste intenzioni deve però spostare fino al limite estremo la sua conoscenza e poter quindi alimentare il dubbio; quest’ultimo come aspetto incognito del suo spazio-tempo, che non è, e non deve essere funzione del destino – immaginato come condizione astratta ma condizionante a cui ci si rivolge quando non si ha una risposta – ma solamente dimostrazione che l’uomo è padrone del suo tempo senza diventare responsabile dello spazio universale.
Quando la ragione annulla il dubbio, allora si smarrisce la via per tornare verso riva, le onde, anche le più piccole increspature diventano muri d’acqua insormontabili. Il protagonista di questo racconto ha cominciato leggendo la sua storia guardando sull’ultima pagina del libro della vita, si è ingannato scoprendo che la fine può diventare la chiave che apre tutte le porte, e a sue spese ha potuto verificare che una soluzione così scontata è solo fine a se stessa, svuota ogni istante del giusto sapore e fa apparire tutte le cose dello stesso colore, ma peggio ancora non risolve il problema e genera un’esistenza triste ed infelice. Le paure sono un umano aspetto della nostra esistenza, la paura ci permette di capire il momento di pericolo e ci invita ad essere vigili ed attenti, le paure sono un’ancora di salvezza quando vengono ascoltate e quando si acquista consapevolezza del problema. Quando invece l’uomo non ascolta se stesso ed è in balia degli eventi, allora le paure diventano un labirinto sempre più tortuoso, la confusione rappresenta l’unico metodo per affrontare le situazioni, e il disordine si accumula nelle azioni, i risultati sono fini a se stessi e quasi sempre rappresentano soluzioni temporanee che non portano da nessuna parte.
Siamo alla fine degli anni ’80, la guerra fredda è tra il mondo occidentale conosciuto, sinonimo di maturazione socio-economica e di sviluppo tecnologico, contrapposto al colosso sovietico, terra di mistero e origine di dubbi ed incertezze, Marco è il protagonista del racconto e l’interprete delle paure e delle debolezze che rispecchiano questo periodo. Comune denominatore è lo stato di tensione, incertezza, timore e paura per il futuro e per le generazioni a venire, forte è il contrasto tra la crescita economica del blocco Occidentale con il dollaro a più di duemila lire e la misera condizione dei soldati dell’est stanziati sul confine orientale, unico specchio visibile di una realtà monumentale ma fragile che da lì a 4-5 anni crollerà sotto il suo stesso peso. Il cappio che si stringe attorno ad un’unica verità è rappresentato dalla similitudine tra quel periodo fragile ed oscuro, il modo di vedere ed affrontare i giorni nostri, e la debolezza delle coscienze che a distanza di 25 anni vede nuovamente il futuro avvolto da un alone di nuova e più impalpabile guerra fredda. Un conflitto interiore che colpisce subdolo e silenzioso, che indebolisce fino a condurre all’apatia e alla totale superficialità coscienze ed identità. Solo al termine del suo viaggio, Marco scopre che non esiste un luogo “brutto” e “cattivo” dove è destinato a vivere, non esiste un metodo passivo a cui attenersi, ma esiste invece la possibilità di aprire la porta e uscire dai confini concedendo al mondo di venirgli incontro con tutte le sue infinite sfumature e tonalità di colori.
Torniamo nuovamente su quella panca profumata d’olio di lino ed incenso, concediamo ai nostri occhi di verificare che la lampada non cada sulla testa di nessuno, o facciamoci trasportare dall’atmosfera costruita dai messaggi di luce disegnati sulle colonne della cattedrale, ma assieme all’amico Galileo ascoltiamo il sibilo che quel lume genera attraversando l’aria e cerchiamo di diventarne parte. Non è necessario costruire castelli o progettare opere immense, è sufficiente mettersi in ascolto e sincronizzarsi sull’isocronismo del pendolo, solamente questo, senza fatica e senza la necessità di anticipare un tempo che inevitabilmente arriverà.
Quando Marco parte per raggiungere il confine con l’est Europeo è una persona già indebolita e frustrata, lo sfasamento tra il ritmo del tempo reale e quello del tempo artificiale, che inizialmente appariva come una crepa insignificante, è divenuto un abisso ed ogni artefatto progettato e realizzato per sopravvivere non è più in grado di colmare questo gap, la fuga in mare per sfuggire alle spie Russe che lo inseguono ormai da tempo, è solo l’ultimo disperato tentativo di rimettere a posto un orologio pesantemente in ritardo. Sono passati quattro secoli, e altri ancora ne passeranno, molte cose sono nate e passate nel corso del tempo, solo l’uomo è rimasto integro.
E poi c’è l’istinto primordiale. L’istinto è quel fruscìo di fondo che qualche volta si sovrappone al rumone principale, spesso è la voce nascosta che distrae i pensieri, in alcuni casi è un richiamo insistente troppo frequentemente non ascoltato, e diventa intuito e lungimiranza se inteso come suggerimento, che comunque mai e in nessun caso ci tradisce se considerato con attenzione e con senso critico. Nella società contemporana esistono dei falsi modelli che la distrazione spesso induce a seguire, dei pre-stampati universali che riducono i problemi risolvendoli con soluzioni multiple e adatte ad ogni evenienza, servirsi di questi strumenti è facile e risolve il disagio di esporsi e mettersi in gioco. Molte persone, forse la maggioranza di loro, si accorgono troppo tardi di aver disobbedito al proprio istinto e di non aver ascoltato quella voce piccola piccola che dall’interno indica la strada, e questo errore viene solitamente commesso perché si preferisce dar seguito al vociare comune, all’abitudine più in uso,… alla moda del momento.
Andare contro corrente è impopolare, pericoloso, compromettente, il rischio è quello di essere derisi ed additati come diversi e la paura più grande è quella di rimanere soli, abbandonati al proprio “destino”! Eccolo di nuovo, il destino che cresce e diventa forte, e quando s’impadronisce dell’uomo lo rende fragile, vulnerabile e pieno di timori. La cerimonia è terminata, Galileo evidentemente se n’è andato da parecchio tempo, sulle panche si sono attardati solo pochi fedeli che guardano ammirati la luce colorata che filtra attraverso le vetrate e si diffonde libera, all’ambone di destra un abate gira frettolosamente le pagine del lezionario alla ricerca della lettura giusta per la funzione successiva. Oggi è stata letta la più importante delle parabole, quella che vede l’uomo al centro dell’universo. Poi anche gli ultimi ritardatari abbandonano il loro posto e si dirigono verso l’uscita, la luce si fa meno intensa, e il silenzio che preannuncia e precede la chisura dei pesanti battenti, diventa l’unico suono percettibile, ora tutto è quiete, tutto è riposo, solo lassù nella navata centrale la lampada continua senza sosta la sua lenta oscillazione.
È un’orgia di gioia, un giubileo dei sensi il risveglio di Marco dal buio del lungo letargo, e abituarsi ad ascoltare, sentire e vedere diventa un gioco e una meraviglia piacevole ed appagante, la parola che ricorre più frequente nei suoi discorsi è: incredibile! La meraviglia che stupisce maggiormente è sorprendersi di ciò che un tempo era ovvio, appassionarsi per cose che non hanno grande importanza, ma che trasmettono sensazioni ed emozioni, ammirare un prato in fiore, allietare il proprio olfatto odorando i profumi più comuni e mai decifrati, ascoltare una melodia facendosi trasportare dalle vibrazioni di quelle note, entrare nelle cose di ogni giorno così come un pennello carico di colore entra nella tela di un dipinto e lascia il suo segno. Accanto a questa parola che riempie la bocca e costringe a credere anche in ciò che non sembra vero, rintocca come il tintinnio di un’antipatica campana il suono fastidioso di altre parole: come ho fatto a non capire! tutto ciò è stato assurdo!, bastava stare più attento!, sono stato uno stupido a non essermi accorto!, eppure era così semplice!
Anche l’oscillazione di una lampada era così semplice da decifrare, eppure solo uno ha osservato con attenzione, solo uno si è sforzato di utilizzare gli strumenti adatti ed è riuscito a vedere dove gli altri si limitano a guardare. “Il pendolo” è una storia vera, purtroppo maledettamente vera, nata dalle fedeli memorie di un ragazzo normale che ha avuto il solo torto di aver male interpretato un messaggio in codice, un’informazione fondamentale che una volta liberata è tornata a lui come un boomerang costringendolo a fuggire da un nemico spietato e mai domo, un nemico che in ogni situazione ha dimostrato di essere presente e in grado di anticipare le sue mosse.
Sono riuscito finalmente ad arrestare la mia corsa, ho visto passare davanti ai miei occhi uomini dai capelli bianchi come cime innevate, ghiacci perenni depositari di storie e vicende lontane, ho visto seni gonfi come infinite dune del deserto, mucchi di sabbia mutevole testimoni di viaggi, migrazioni e sacrifici, ho visto campi coltivati e greggi… brucano ogni zolla d’erba e poi si spostano più in là. Dai primi ho imparato la saggezza di affrontare ogni evento con animo sereno e forza di spirito, il dono della pace e della fede in se stessi e nelle proprie azioni, ho ascoltato i lamenti di un uomo morente e ho incontrato senza timori il mistero che guida ognuno di noi, ho dimenticato persone che, sorridenti, sono tornate da me avvolte in una brezza di primavera. E mi hanno guidato. Su corpo di donna ho attraversato montagne e solcato mari, immensi spazi da colmare solo con i profumi dell’amore, ma ho conosciuto addii e abbandoni, umana sofferenza dell’anima e del corpo. Ho visto enormi fatiche e patimenti nella realizzazione di un sogno, che l’ingiustizia e la crudeltà hanno calpestato e umiliato. Ma ora ho arrestato la mia corsa, come un treno che ancora lontano rallenta e con rumore ritmato intravede il suo binario, e poi rallenta in prossimità dello scambio per poi riprendere velocità, un ritmare sempre lento, più lento fino a terminare in uno stridore di ferri. Mi sono fermato come in un sobbalzo e dopo pochi istanti ho aperto le porte dei miei scomparti, dalla prima classe solo pochi viaggiatori, dalla seconda classe un brulicare di voci, persone, storie ed emozioni, nei loro bagagli altre storie ed altre infinite memorie. Mi sono fermato ed ho visto tutto questo, ho scoperto ad un tratto di non essere un convoglio merci, un carico d’inutili accessori, ho portato fin qui i desideri e le speranze di molti uomini ed ho conservato gelosamente ogni attimo che ognuno di loro ha voluto donarmi.
Solo ora mi accorgo di come sono stato portatore inconsapevole di numerose identità, e di come persone quasi sconosciute abbiano voluto affidarmi i loro desideri, le loro conoscenze, i più profondi e sinceri affetti. Come un treno impazzito ho dimenticato fermate importanti e meno importanti, ognuno nel suo scomparto ha accettato il mio volere e si è fatto trasportare affidandomi tutta la loro fiducia, ho rallentato la mia corsa su binari scivolosi ed ho viaggiato veloce verso orizzonti irraggiungibili, ma ognuno di loro ha seguitato a raccontare, a discutere, ad osservare il paesaggio che veloce, troppo veloce, scorre attraverso il vetro del finestrino: un divisorio invisibile, una vetrina sul tempo che passa e che spetta a noi sfumare con un alito della nostra presenza, solo così potremo sentire il dolore e il sollievo, solo così potremo ricordare ogni goccia di condensa che al principio lenta, scivola poi più pesante e veloce verso sera. Ognuna di quelle gocce è un momento della nostra piena esistenza. Ogni passeggero ha visto con i propri occhi il mio cammino, mi sono lasciato trapassare dal loro sguardo ed ora sono più ricco, ora sono pronto a raccontarvi una storia straordinaria e magica. Un racconto sicuramente coinvolgente ma a tratti distante, ingiusto e confortante al tempo stesso, intricato e semplice nei suoi contorni, un racconto che certamente appartiene a tutti gli uomini e da tutti gli uomini scaturisce.

Il ringraziamento è doveroso nei confronti del dottor Santilli che con pazienza e grande capacità ha ascoltato le confuse e sofferte argomentazioni di Marco, va considerato come eccellente maestro liutaio che dal legno grezzo ha saputo ricavare uno strumento dalla voce limpida e cristallina. Anche se in alcuni casi interrotta dal pianto e dalla commozione, è stato abile interprete e pronto traduttore di un messaggio che non sempre chiaro e trasparente ha inondato senza misura il suo studio. Va riconosciuta la sua fedeltà e attenzione alle continue ritrattazioni e frequenti modifiche del racconto, senza confondersi ha mantenuto solido e fluido il filo del discorso ed è stato ingegnoso fautore di un mosaico faticosamente riassemblato tessera dopo tessera. Tessitore attento di una trama sottile e spesso piena di nodi ed intrecci, ha diligentemente rispettato i tempi e le condizioni che Marco ha impresso alla faticosa e in taluni casi difficile ricerca, mai invadente e in qualche frangente volutamente distratto non ha mancato di esternare il suo disappunto e rimprovero severo ed accusatorio.
Il sentito ed amorevole ringraziamento va ad Aurora, compagna coraggiosa ed amica sincera non si è arresa di fronte al terribile messaggio di Marco che poneva la parola fine sulla sua esistenza, offendendola e relegandola alla condizione di semplice spettatrice di un fatto tragico. Sempre presente nei momenti di difficoltà e pronta a subire le conseguenze di qualsiasi situazione, ha accettato con dignità e grande rispetto il continuo attacco rivolto al suo compagno senza mai rimproverare la sua estraneità, per altro legittima, a fatti in molti casi a lei sconosciuti. Eventi e situazioni che facevano parte di un altro passato sono diventati suoi problemi, e così semplicemente li ha affrontati a testa alta e senza timore. L’ultimo ringraziamento è rivolto a Marco perché nel buio e nella disperazione si è fidato dell’unica verità possibile: l’uomo è nato per stare bene ed essere felice, non potrebbe essere altrimenti, nella classifica dei valori niente può e deve venire prima dell’uomo.

Esiste un grande eppur quotidiano mistero
tutti gli uomini ne partecipano
ma pochissimi si fermano a rifletterci.
Quasi tutti si limitano a prenderlo come
viene e non se ne meravigliano affatto.
Questo mistero è il tempo.
Esistono calendari e orologi per misurarlo,
misure di ben poco significato,
perché tutti sappiamo che talvolta
un’unica ora ci può sembrare un’eternità,
e un’altra invece passa in un attimo…
dipende da quel che viviamo in quest’ora.
Perché il tempo è vita.
E la vita dimora nel cuore.

Michael Ende, “Momo” (opera da cui è stato realizzato un lungometraggio recente e sono state pubblicate nuove edizioni da Longanesi)


Capitolo 1

RITORNO

Ore 20:37, è un giovedì d’inverno, sembra un giorno come altri, ma per Marco sarà difficile dimenticare. Quella sera alla stazione di Trieste, al binario 8 la banchina sembra un rione di mercato, fiera di paese dove voci comuni e dialetti si mischiano e mille nomi si sentono nell’aria. Il clima è freddo, un freddo secco e penetrante abituale per questi luoghi, i suoni, i rumori attraversano lo spazio in maniera cristallina seguiti solo dal vapore acqueo che esce dalle bocche e dalle narici, è ancora inverno, ma negli occhi di Marco si vede una luce, un desiderio, un sentimento che apre le porte e i cuori alla primavera, nei gesti delle sue mani impegnate a raccontare avvampa incontenibile il calore dell’estate.
E l’estate è presto arrivata anche nel cortile di via dei Dragoni, minuscola viuzza incastrata tra le case del centro storico, dove anche l’afa stenta ad arrivare, i primi mesi dell’anno sono passati rapidi, divorati dai mille racconti di quei tre lunghi anni trascorsi lontano da casa. Papà Francesco e mamma Elisa hanno gli occhi pieni di lacrime nell’ascoltare i racconti e le vicende di una città così lontana, – la città dei suoi racconti è Mosca – ed ora così concreta e appena fuori dell’uscio di casa. Dalla valigia di Marco sono usciti in questi pochi mesi, libri, fotografie, oggetti e ricordi che due poveri genitori ormai anziani non avrebbero mai immaginato potessero un giorno arrivare sul tavolo di casa loro, e grande è il contrasto che appare tra i palazzi intrappolati da insipide cornici, e il mobilio della sala bella ormai vecchio di un secolo. Papà Francesco era ormai vicino agli ottanta anni, una vita di sacrifici e lavoro messa al sicuro, trascorsa a riparare orologi di ogni tipo, da polso, da muro, a cucù, oppure da taschino, sempre intento con anima e corpo a cercare di carpire quell’arcano mistero che governa il tempo. Da lì ad un anno un male incurabile se lo sarebbe portato via, e solo nel momento di abbandonare questa vita, si era reso conto dell’importanza di quei ticchettii, si era sforzato, si era ingegnato per perfezionare ed imbrigliare quel tempo che ora lo aveva ingannato. Aveva speso un’intera vita, attento e puntiglioso, sempre presente ai suoi impegni, sempre a viso alto nelle disgrazie e con gli occhi bassi nelle gioie, ma tra un pendolo capriccioso ed uno scappamento, il tempo gli era sfuggito. Era stato un uomo dalle tante risorse, idee innovative e azioni rivoluzionarie per quei tempi, ora i suoi attrezzi, le sue lenti riflettevano e deformavano a dismisura le memorie di una persona giusta ed onesta, che in questa casa lasciava un grande senso di rispetto. L’unico rimpianto che Marco portava con sé era di non avergli mai detto quanto gli voleva veramente bene, e ogni anno alla fine di gennaio le viti da potare gli lasciavano un gran senso di vuoto. Un vuoto che neppure la madre Elisa era riuscita a colmare, eppure, se pur vicina ad essere anziana, aveva saputo riscoprire una tenacia e un temperamento che scaturivano in un’inesauribile pazienza, un condensato di calma e pacata delicatezza che permeavano ogni angolo della casa. Aveva imparato bene a leggere tra gli spigoli della vita, era riuscita a trascorrere venti anni della sua vita in mezzo ai telai ad annodare fili sottilissimi, ed aveva imparato bene che ogni nodo fatto male o con eccessiva fretta, andava inevitabilmente ad incastrarsi, per poi rompersi, nei numerosi pettini del tempo che scorre.
Quella mattina di luglio, Marco era rimasto al lungo nel letto umido di sudore, e non capiva come le cose fossero arrivate e passate così rapidamente, sapeva solamente che doveva continuare ad essere se stesso. Aveva perso un pezzo del suo essere, ma ancora non si rendeva conto di quanto l’assenza di suo padre avrebbe lasciato un segno indelebile. Si trovava ogni giorno sempre più solo, ma ogni giorno di più costruiva nella sua testa un futuro tanto difficile quanto coinvolgente, avrebbe realizzato a modo suo tutto quello che suo padre aveva solo iniziato, e lui l’avrebbe seguito e aiutato in ogni momento. La luce del sole, filtrata da milioni di particelle di polvere, filtrata dalle tende, si allungava sulle ante dell’armadio e indicava che era ormai quasi ora di pranzo. Marco osservava quei raggi che col passare dei minuti cercavano di arrivare ovunque e di illuminare sempre più spazio sulla parete, gli ricordavano le onde sulla battigia che ad ogni rincorsa cercano di risalire una quantità sempre maggiore di spiaggia, per poi ritornare a mischiarsi nuovamente con l’immensità del mare. Molte altre mattine sarebbe rimasto a letto ad osservare quei lampi di luce, ed ogni volta quelle lance di sole e polvere erano magicamente diverse, ma ugualmente rischiaravano gli armadi, il letto, le pareti, finché un giorno una coltre di nubi nere e pesanti impediva al sole di risplendere i suoi raggi su ogni cosa, di riscaldare ogni persiana, ogni battente ancora chiuso, come succede ad un amico da tempo lontano, che bussa con tutto il suo calore alla porta.
Quella mattina Marco si era svegliato qualche attimo prima, come volesse anticipare quei raggi di calore e non farsi sorprendere da un evento già accaduto, ma era rimasto deluso, la luce e il calore non erano lì accanto a lui, e la camera era buia, fredda di sudore, e sola con i suoi oggetti: si sforzava ora di ricordare i mobili, gli armadi, i muri, ma non riusciva ad immaginarli e preso da un’ansia non giustificata aveva acceso frettolosamente la lampada sul mobile accanto al letto. Le stesse cose che da anni erano in quel luogo non sembravano più le stesse, una luce diversa le faceva apparire diverse e Marco, solo allora si rendeva conto di quanto si era distratto, aveva lasciato passare un attimo di luce cristallina, di pura trasparenza ed ora si sfregava gli occhi ancora assonnati per cercare con quella luce artificiale le emozioni e i sapori che quei mobili non riuscivano più a dare. Era triste e capiva come ogni attimo nella sua straordinaria pienezza e importanza… passa via. A volte solo quando è un ricordo riusciamo a sentirne l’essenza malinconica, rimane solo la sensazione di averlo vissuto.
Non poteva essere sempre così, voleva imparare a riconoscere quei momenti, ma soprattutto voleva imparare ad esserne parte. Questo era il suo cammino, da quel giorno avrebbe osservato ogni cosa, avrebbe ascoltato ogni segno e avrebbe fiutato anche il più nascosto e subdolo sapore, aveva molti dubbi e paure ma di una cosa era certo, aveva avanti a sé un’infinita quantità di tempo, avrebbe fatto di tutto per non sprecarne neppure un secondo.
La cosa che maggiormente impegnava la sua mente in quei giorni, era l’intenzione e la determinazione di acquistare consapevolezza di sé, si era imposto delle piccole ma rigide regole da osservare, certo nulla d’importante ma certamente avrebbero contribuito ad impostare la sua giornata senza concedersi troppe distrazioni. Si sarebbe alzato sempre abbastanza presto, era impossibile e a suo avviso anche ingiusto stabilire un’ora fissa, sarebbe o gli sarebbe sembrato un vincolo inutile, meglio 10 o 15 minuti prima ma senza imposizioni di orario. Altro appuntamento mattutino da rispettare era una perfetta rasatura del viso, perché questo era uno dei suoi punti deboli, molto spesso una pigrizia esagerata ed ingiustificata lo attanagliava senza scampo quando arrivava il momento di radersi, e ancora maggior delusione e tristezza, appariva quando dopo due giorni la sua barba scura lo faceva sembrare stanco e trasandato anche dopo una doccia ristoratrice.
Ultimo e gratificante momento doveva certamente essere la vestizione: non voleva essere elegante o appariscente, ma semplicemente a posto. Nell’eventualità che la scelta fosse stata per jeans e maglietta, piuttosto che abito spezzato con camicia e cravatta, o semplicemente pantaloni casual con camicia in tinta o fantasia non era molto importante, tre cose non dovevano mancare: capelli curati, possibilmente abbastanza corti e ricoperti di una leggera ma uniforme sfumata di gel, scarpe sempre in ordine e ben pulite, ma soprattutto un sorriso vero. Avere il viso pulito e rilassato tipico della persona che può affrontare tutto quello che succederà con la determinazione e la capacità di chi ha la consapevolezza di riuscire.
Ben presto l’esperienza fatta sul confine gli sarebbe tornata utile, certamente i modi di fare e pensare di una terra come la Brianza sono lontani anni luce dalle abitudini di una città che per forza o per amore ha dovuto imparare a sopravvivere, ma i tre anni trascorsi sul Carso, una terra ai suoi occhi inodore e insapore ma dal carattere davvero forte, poteva essere una lezione straordinaria per chi deve iniziare una vita da zero; e con un po’ d’intraprendenza e qualche conoscenza, verso la fine dell’anno Marco aveva trovato una buona occupazione. Sì perché con tutto l’impegno e le capacità proprie è possibile negli anni e con tanta pazienza arrivare ovunque, con qualche raccomandazione e poche righe di referenza ci si può arrivare molto prima.
È anche vero però, e questo Marco l’aveva capito seppur giovane e senza esperienza, che in una situazione del genere ci si trova in una botte di ferro, poi, però il padrone può cambiare e solitamente il nuovo oste butta le botti vecchie e porta le sue nuove, nelle quali, è certo, potrà maturare un vino migliore, ma soprattutto un vino prodotto da lui. Ecco perché Marco aveva certamente ottenuto un impiego, ma cercando la giusta soluzione nel mezzo: si era naturalmente fatto consigliare bene da suoi conoscenti abbastanza influenti, ma si era fatto avanti da solo; con le giuste informazioni poteva prevedere le risposte e le obiezioni senza sembrare troppo sicuro, e con la sua intraprendenza aveva fatto breccia e trovato un impiego più che dignitoso.
Prima di partire, aveva ottenuto con discreto profitto un diploma di tecnico nell’industria meccanica, ed ora anche se non si muoveva nel suo territorio, si trovava ad affrontare con piacere e coinvolgimento i problemi di gestione in un’azienda tessile nel suo territorio, una ditta dalle radici solide e da antiche tradizioni nel settore; una di quelle aziende cresciute con il paese e con la gente del posto, quasi tutte occupate nei suoi reparti. Certo aveva studiato e imparato altre nozioni, ma l’idea di iniziare una cosa nuova lo eccitava e la sete di sapere lo faceva apparire più maturo di quello che in realtà era, si era presentato così al titolare senza paraventi e senza paure, e il Signor Carati aveva subito capito che pur dimostrando una certa timidezza, il ragazzo possedeva un carattere e una determinazione non comuni.
A Marco sembrava così, in realtà il titolare aveva raccolto con discrezione e sensibilità, le necessarie informazioni dal solito personaggio, personaggio dal quale anche Marco si era recato per chiede aiuto; sono in definitiva quei compromessi raggiunti a fatica dalle parti, ma gestiti e garantiti, ed in parte già risolti, da terzi che hanno il solo compito di non deludere nessuno.
Ogni mattina riceveva dal direttore di produzione – suo diretto responsabile – una serie di mansioni che snocciolate con metodo in ogni reparto, lo accompagnavano fino a sera. Prima la tessitura, con mille incognite su quale fosse la giusta decisione in merito alla ripartizione dei carichi di lavoro sui telai, poi la tintoria, reparto che maggiormente gli piaceva ma che spesso lo occupava oltre misura per errori di tinta o tonalità. Il pomeriggio era dedicato alla programmazione per la preparazione dei subbi, lavoro noioso e senza un’immediata gratificazione, e per finire un giro veloce al ricamo, al taglio e ai magazzini. Il ritorno era meno complicato e indubbiamente più gradevole, per lui era giunto il momento di ritirare tutte le bolle di produzione giornaliera, toccava poi a due ragazze rapide e sempre attente inserirle nei computer, per avere il giorno dopo una situazione affidabile sull’andamento dell’azienda.
Alle 17:30 usciva dalla porta posteriore degli uffici, quella riservata agli impiegati che lavoravano nei reparti, a lui sembrava una cosa normale ma molti dipendenti amministrativi la consideravano una uscita di secondo piano, che identificava un personale meno importante e meno considerato dei colletti bianchi, impiegati modello che sfilavano dall’uscita principale sempre in ordine nei loro abiti da “cerimonia”. Marco non si curava troppo di queste cose, e per il resto della vita le avrebbe ignorate, il suo sguardo e la sua mente andavano oltre, molto oltre, troppo oltre per fermarsi ad osservare quale fosse l’uscita, per lui era importante essere presente e principalmente lasciare un segno del suo passaggio, non era la modalità con cui entrare o uscire dall’azienda che lo facevano andare a lavorare con entusiasmo e determinazione. Ma soprattutto, lo stimolo maggiore che accompagnava ogni istante della sua giornata era la consapevolezza di fare qualsiasi cosa, solo per se stesso, conoscenza, pratica di lavoro, stima dei colleghi, fiducia in se stesso erano la massima gratificazione e il suo primo obiettivo, solo per ultimo – anche in considerazione delle modeste dimensioni – veniva lo stipendio. Un salario decisamente misero, che un bel giorno Marco decide di accantonare per acquistare la sua prima vettura vera; sino dai tempi degli studi, si era procurato, dando fondo a tutti i suoi risparmi, una vecchia utilitaria, ma ora si trattava di un acquisto calcolato e pianificato, frutto di un vero lavoro. Ormai era passato più di un anno, il lavoro era diventato una routine, sapeva già quali sarebbero stati i giorni buoni e quelli più complicati e riusciva quindi a preparasi mentalmente per affrontare meglio i possibili problemi della giornata. Non aveva ancora il potere di decidere o di attuare scelte sull’andamento dei reparti anche se sulla carta già lo faceva, era solo un comunicare delle informazioni al direttore che subito queste, opportunamente aggiornate nella forma ma non nei contenuti, diventavano agli occhi dei titolari una direttiva ufficiale.
Tutto questo non gli dispiaceva, un altro giorno era passato, e anche per questa volta aveva fatto un buon lavoro, come sempre la persona più contenta dell’operato era lui stesso, anche il direttore si era accorto degli ottimi risultati, e siccome era persona abbastanza avanti con gli anni e ormai dirigente d’azienda da molto tempo, considerava la sua scalata giunta al termine, non nutriva gelosie o invidie, era semplicemente contento. Nonostante questa sua soddisfazione, mai aveva apertamente dimostrato o comunicato la sua ammirazione a Marco, si era però adoperato per fargli ottenere una promozione e naturalmente un piccolo aumento; in verità la faccenda non era andata proprio così liscia. Una mattina di metà febbraio, Marco era arrivato in ufficio un po’ prima del solito, ed è questa una delle cose usuali, nel caso sia necessario comunicare o riferire un argomento meritevole di particolari attenzioni al proprio superiore; bene, per farla breve, quella mattina, sulla scrivania del signor Dancelli – dirigente aziendale se non direttore della produzione – salta fuori per voce di Marco che un magazziniere assunto nel suo stesso periodo sembrava avere ricevuto senza apparente motivazione una promozione, certo non era suo affare interloquire o indagare sulle volontà aziendali, ma sul suo contratto iniziale era scritto che alla scadenza del primo anno dall’assunzione era previsto un passaggio di livello, che nonostante l’impegno e soprattutto il buon lavoro da lui svolto, ancora non si era visto. Per il signor Dancelli, a colloquio con i titolari non sarebbe stato difficile capire che il magazziniere in questione, capacissimo e diligente in reparto, era però in grado di svolgere il suo lavoro anche lontano dagli imballi e dalle bolle di accompagnamento, e allo stesso modo non gli sarebbe stato difficile ottenere anche per il suo galoppino un simile trattamento. Ora per Marco c’erano centomila lire di stipendio e un nemico in più su cui contare, la voce era però girata fulminea nei reparti e un alone carico di esperienza e diffidenza, mischiata a stima e rispetto, ombreggiavano sulle sue spalle mentre, attraversando come suo solito i reparti, portava le informazioni necessarie per il benessere della fabbrica.
Con la sua nuova utilitaria sempre parcheggiata nello stesso posto, con una nuova scrivania su cui lavorare, – la scrivania non faceva parte della promozione, più semplicemente gli uffici di produzione si erano trasferiti e i vecchi mobili erano stati sostituiti con i mobili dismessi dagli uffici amministrativi, che naturalmente erano stati acquistati nuovi – con il planing della produzione ora alle sue spalle, e con mille campionature da analizzare e programmare, erano passati quasi due anni. Quella che prima era routine ora stava diventando noia, c’era ancora moltissimo da imparare e da fare, Marco su invito del suo direttore aveva letto libri e fascicoli sulla teoria della programmazione aziendale, poteva anche in assenza del capo, prendere delle decisioni camuffandole da emergenze, ossia avrebbe preso una decisione temporanea, e avvolta in un “per ora facciamo così”, avrebbe agevolato lo svolgimento delle procedure ed imposto ai capi reparto di proseguire con i lavori. Tutto questo nell’attesa del ritorno del direttore che sarebbe avvenuto pochi giorni dopo. La scusa era di non tener ferme macchine e personale, la realtà era ben diversa. In concreto, lui e non solo lui ma anche i responsabili dei reparti, sapevano fin dall’inizio che il lavoro era ben fatto, e non aveva dubbi sul fatto che il signor Dancelli sarebbe tornato avallando il suo comportamento.
Naturalmente non era esente da errori, ne aveva commessi di gravi e di meno gravi ma tutti sicuramente dettati dalla poca esperienza e in ogni caso non dalla superficialità o ancor più dalla negligenza. Alle volte si chiedeva come mai alcuni valori contabili certi e consolidati cadevano in difetto, o viceversa mancanze anche grossolane venivano nel breve volgere di una sera corrette quasi per miracolo, nulla era comunque capitato per caso e spesso gli veniva il dubbio se i suoi errori erano veramente degli errori da lui commessi piuttosto che indotti da qualcuno. Alla fine si era convinto che chiunque avesse interagito su quei dati, non l’avrebbe fatto per creare dei problemi e tantomeno a lui. Finalmente un giorno di fine mese ebbe una risposta chiara e definitiva su questi strani aggiustamenti, per lui fu un giorno importante e non solo perché aveva trovato la risposta, ma perché ogni qualvolta i conti non gli tornavano era attanagliato da un non so che, quasi una colpa accusatoria e irreparabile. La notte era insonne, e il pensiero che il giudizio al quale doveva sottostare l’indomani era spropositato, se paragonato alla sua reale responsabilità, lo faceva stare male. Anche se il suo corpo stava riposando, la mente navigava tra mille tempeste, visitava ogni porto in cui era stato nell’arco dell’intera giornata e valutava ogni scambio di informazioni avvenuto, per trovare il tassello mancante, la mattina stanco e senza una soluzione arrivava in ufficio impotente dinanzi a quei totali ora corretti, ed ora maggiormente sbilanciati. Quel giorno dunque, scopriva in maniera fin troppo ingenua, che fortunatamente erano le persone a governare ogni cosa, più semplicemente, venivano forzate delle procedure per modificare i quantitativi stornando o sommando il fabbisogno giornaliero, in base a come la produzione si era comportata, null’altro che una considerazione responsabile di un qualche capo reparto che aggiustava le cose. Subito alla mente di Marco si affacciarono due messaggi: l’uomo può aggiustare le cose secondo giudizio e buon senso, l’uomo può anche aggiustare le cose per trarne beneficio direttamente o indirettamente danneggiando gli altri, tra questi due dubbi scelse il primo e anche se poi conobbe chi materialmente realizzava queste variazioni, volle continuare a essere fedele alla prima soluzione, e questo per una sua interpretazione logica e trasparente; l’uomo può decidere di se stesso e per le sue azioni in modo arbitrario, non può fare altrettanto con i giudizi che gli altri formulano su di lui, in sostanza ognuno è libero di agire ed è responsabile di ciò che fa, così come gli altri posseggono la facoltà di giudicarlo se pur nel loro pensiero. Avrebbe ancora commesso degli errori, ma ormai li considerava parte del lavoro, con il senno di poi nelle sue lunghe notti, avrebbe certamente dormito di più e viaggiato di meno.
Di questo suo fare e disfare, si erano finalmente accorte anche le due impiegate che dividevano con lui l’ufficio, quelle dei computer e delle bolle di produzione per capirci, e la faccenda non era troppo di loro gradimento, certo si vedevano sopraffatte da un giovincello poco adatto e senza capacità vere, le informazioni e le analisi dei tabulati per Marco iniziarono ad essere sempre più complicate e le necessità contingenti sempre più frequenti. Era ormai tardi, per lui era passato il tempo di accusare i colpi, sapeva nuotare da solo in quella palude fangosa davanti alla quale due anni prima, l’esperto dirigente l’aveva posto, gli aveva pronosticato appigli in un primo momento avari e sfuggenti e poi sempre più presenti e disponibili ad aiutarlo, ora questi pochi riferimenti erano diventati una passerella sulla quale sarebbe passato trionfale non più di dieci giorni dopo, prima per presentare le sue dimissioni ai responsabili della produzione, e poi più tranquillamente per salutare il suo titolare e informarlo che il tempo per lui era terminato, il suo sacco era pieno e una nuova avventura lo aspettava.
Usciva finalmente dalla porta principale, era perfettamente in ordine, anche se il suo non era un abito da cerimonia, da dietro le tende, e dalle finestre degli uffici sguardi furtivi e in alcuni casi soddisfatti, in lontananza, giù nel cortile, i camion aspettavano di essere caricati, tra gli operai impegnati nel lavoro, anche il suo “amico”, dal basso lo guardava fisso e ancora non riusciva a capire perché lui che si era “prodigato” tanto per ottenere una promozione non aveva, e probabilmente non avrebbe mai avuto tutta quell’attenzione che seppur nascosta veniva invece concessa a Marco. Solo pochi capivano veramente cosa stesse succedendo, solo alcuni che oggi non ci sono più. Ormai Marco era già in macchina e il suo ricordo andava solo a loro, a quelle poche persone che lo avevano capito e aiutato veramente, uno di loro si era spento pochi mesi prima, anche lui travolto dal male incurabile, un uomo poco avvezzo alle etichette e sempre con la testa e le mani nel lavoro, conosceva il suo lavoro e conosceva le persone, un sabato mattina era uscito dopo che Marco lo avevo avvertito che erano già le dieci passate, non l’avrebbe più rivisto.
Saliva la rampa dei parcheggi e già si sentiva nuovo, liberato da un lavoro ormai consumato e soprattutto realizzato, era contento e sicuro che ogni sua cosa sarebbe stata contestata, messa in dubbio e corretta, a lui bastava sapere che era ben fatta, quello che gli altri avrebbero fatto non lo riguardava, non era una storia sua, quella che lo riguardava sarebbe ricominciata altrove, in un nuovo capitolo.
Intanto il suo pensiero era rivolto altrove, si sarebbe concesso un aperitivo e un pomeriggio libero, il suo programma per quel giorno era una gita al lago, con lui sarebbe andata Lorena, e così fu.
Si conoscevano da pochissimo tempo, lei era in vacanza, per così dire, con una zia d’origine italiana, in realtà era la nipote di una signora italo-spagnola che faceva la domestica in una villa borghese come su questi colli ce n’é tante, abitata da certi conti fuoriusciti da Milano, a dire il vero eravamo a febbraio e in Brianza non è neppure il periodo delle vacanze, però una bella giornata di sole può far pensare già alla primavera, quel giorno invece era freddo, il cielo tanto coperto che quasi nevicava, l’unica cosa che si poteva fare era rintanarsi in caffetteria per una cioccolata calda. Così fecero e non furono neppure scontenti della soluzione, l’intimità può far tante rivelazioni, e per due giovani così lontani nelle origini ma così vicini nelle intenzioni una giornata interessante e coinvolgente può essere tutto fuorché brutta. Marco stava sicuramente facendo i suoi passi, gli amici lo scherzavano e lo immaginavano timidamente impacciato alle prese con una ragazza, per di più straniera, avevano accolto con una certa sorpresa il fatto che avesse dato le dimissioni e non immaginavano che dopo solo due anni, avesse deciso di abbandonare un posto così ambito e di prestigio, ma lui non si curava dei loro commenti, anche se un po’ gli pesava sentire i loro ragionamenti gratuiti ed inconcludenti.
Alle volte il dubbio s’impadroniva di lui e gli faceva pensare a quello a cui aveva rinunciato, chissà cosa pensava la gente, certo gli amici, anche se in tono scherzoso, dicevano quello che pensavano, ma gli altri quale giudizio avrebbero espresso, e i parenti delle due impiegate, e quelli del magazziniere, certo ridevano di lui e gli auguravano chissà quali sfortune.
Di male in realtà c’era che erano ormai le due di notte, i finestrini tutti appannati, i vestiti sparsi nel buio tra i sedili e chissà dove, era veramente tardi e l’eccitazione aveva fatto perdere loro il senso del tempo, anche se entrambi maggiorenni, avrebbero sentito una bella ramanzina, lui soprattutto a cui tutti si erano raccomandati, a cominciare dalla zia spagnola che si era lasciata convincere e che ora immaginava e preparava una punizione esemplare, da nobiltà d’altri tempi. L’indomani tutti quanti, dal conte in persona non avevano altri che pensieri e sorrisi da elargire immaginando quei giovani tutti indaffarati nelle loro esperienze e nella loro ancor pura e ingenua trasparenza; lei, giovane catalana dopo il lavoro in lavanderia e infiniti tappeti e divani da spolverare, e lui, giovane e rampante impiegatuccio in carriera, avevano serenamente trascorso una serata d’amore, e si erano lasciati cadere nelle dolci e meritate carezze dei sensi senza rubare nulla e senza commettere alcun reato se non quello di voler vivere. Sarebbe capitato diverse altre volte, ma ormai la notizia era diventata vecchia e anche le più insistenti delle megere di paese si erano ormai rassegnate all’idea che ancora una volta il gusto della felicità e della soddisfazione dei sensi le avevano solo sfiorate nella loro cristallina e intoccabile integrità di anima e corpo, sarebbero rimaste ancora e per l’eternità sui loro piedistalli d’oro senza sentire la brezza della giovinezza e il calore forte e rigenerante della passione, non avrebbero neppure detto o sussurrato senza vergogna ma con molto rossore, quei numerosi “ti amo”, “ti voglio bene”, troppo semplici e troppo inutili ma sempre veri.
Sì, sarebbero usciti altre volte e in altri posti, ma era troppo lontana e troppo giovane come storia, sarebbe rimasta una bella avventura e soprattutto un bellissimo ricordo che mai si stingerà nelle memorie di entrambi.
Il giorno seguente per Marco non c’era il lavoro che lo aspettava, piuttosto una serie di visite agli uffici del collocamento per rettificare alcune formalità sui documenti necessari alla sua nuova occupazione, nulla osta e altri permessi che il neo datore di lavoro aveva chiesto. Prima di tornare a casa per il pranzo però era sua intenzione passare per alcuni negozi e poter scegliere diverse cose nuove per il suo guardaroba, un paio di camicie, un maglione blu a quadri, un paio di pantaloni; poteva essere sufficiente per accontentare sua madre che a tutti i costi voleva che si presentasse il primo giorno nei nuovi uffici con degli abiti nuovi, e così aveva fatto. In realtà Marco non era preoccupato per gli abiti, non era per nulla preoccupato, ma voleva in ogni caso essere a posto e dare di sé una immagine soprattutto normale, abiti nuovi il primo giorno di lavoro era una cosa normale, lui non condivideva questo fatto ma le cose dovevano – per ora – andare così.
Questo nuovo posto non l’aveva voluto disperatamente, non ne aveva la necessità, e neppure lo aveva cercato, un suo amico piuttosto, aveva suscitato in lui un particolare interesse per le informazioni che solitamente ci si scambiano tra confidenti, quando si parla del proprio lavoro. Non è un segreto affermare che del proprio lavoro – solo se si è considerati e se si è gratificati in quell’ambiente, altrimenti il proprio posto di lavoro diventa noioso, brutto, inutile ma soprattutto lo possono fare tutti, anche quelli stupidi e insolenti che mi criticano e che non considerano e capiscono il mio valore – si è orgogliosi, che nel proprio ufficio si è i soli in grado di affrontare determinati problemi, e naturalmente si afferma di essere i responsabili di tutto ciò che da quel luogo passa, molto spesso è l’azienda stessa che si adopera per agevolare e sponsorizzare la nostra capacità e il nostro essere necessari se non indispensabili, ancor più frequentemente è stato il titolare, nella sua persona a scoprire e quindi a volere le mie consulenze per non mettere l’intera attività in pericolo. Molte volte Marco aveva sentito questi discorsi, il suo amico magazziniere era in tal senso un grande oratore, e quotidianamente aveva discepoli che lo ascoltavano con attenzione nei luoghi di culto, solitamente negli spogliatoi degli operai, ma maggiormente davanti all’altare… la macchinetta di distribuzione del caffé, ma come abbiamo già detto questa era un’altra messa che ormai è finita. Non sono finiti però gli oratori, e posto che cambi, prete che trovi. Marco non era solo incuriosito da questi strampalati discorsi, sotto sotto c’era in lui la consapevolezza di un percorso ben definito, e la seconda tappa era capire cosa volesse dire fare la qualità in un’azienda, aveva per due anni contribuito al produrre dei beni ma mai si era immaginato come potessero arrivare nei negozi tutti quei prodotti così perfetti, mai un difetto, mai un errore… o quasi.

[continua]

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