…fuori, in luoghi a me cari
…fuori, in tempi fluidi e porosi__
Un fuori implica un dentro.
In “Racconti fuori”, il dentro sono i personaggi che, dalle pagine, escono né vincitori né vinti.
Solo un po’ migliori.
Il dentro è il viaggio intimo che, ognuno di noi, può compiere con le storie degli altri, senza per questo uscirne né vincitore né vinto.
Solo un po’ migliore.
“Racconti fuori” punta a far breccia dentro.
Non è detto ci riesca.
FAMMI CAPOLAVORO!
Sua mamma aveva la snervante attitudine ad affannarsi.
Sempre.
Pietro non la sopportava.
Sembrava che l’averlo messo al mondo in quelle condizioni, l’avesse spronata a fronteggiare le giornate con l’energia e la forza che sarebbero mancate a lui.
Ad un figlio così fragile.
Aristocratica d’animo, austera nei tratti somatici, di un’eleganza innata, sembrava uscita da un quadro di Botticelli: senza imperfezioni.
Più lei assomigliava a una creatura eccelsa, più Pietro sentiva il peso della beffa: come aveva potuto, lui, uscire malfatto da quel grembo così degno!
Temeva fosse quello il motivo per cui la madre si muovesse frenetica: per non dar tempo al destino di soffermarsi sul dettaglio quando, invece, sarebbe stato tutto il resto a fare, del figlio, un essere eccezionale.
Anche quella domenica di febbraio era entrata nella vita del ragazzino con la pienezza di un fiume senza argini: per esondare dai calcoli del fato.
Pietro non capì mai se la visita che si apprestavano fare agli amici fosse stata architettata da lei, oppure seguisse un preciso disegno divino oppure, ancora, fosse opera del suo angelo custode annoiato.
Ciò che avrebbe custodito nel cuore, per anni, sarebbe stato frutto di quella giornata: gli sarebbe stato grato per sempre, qualsiasi entità umana o spirituale avesse manovrato i fili trasparenti di quell’imprevedibile salto.
Gli amici di famiglia gravitavano tutti nel campo dell’arte: chi pittore, scultore, chi gallerista, chi critico d’arte o critico e basta, chi amante della materia ma non avvezzo al bello e chi, di bellezza faceva ostentazione, dimenticandosi dell’arte.
Le loro case, come anche quella di Pietro, erano veri mausolei: ovunque posasse lo sguardo quadri, sculture, arazzi, tele immense, busti di energumeni invecchiati e slanciate figure di nudi femminili tappezzavano ogni centimetro quadro li potessero ospitare.
Pietro aveva l’animo curioso di chi cercava di dare un senso ai vuoti che l’arte gli aveva lasciato.
Si ripeteva che tredici anni erano veramente pochi per comprendere un linguaggio così complesso: lui, che doveva già sostenere un’esistenza manchevole di alcuni ingranaggi ad una gamba.
Saliva, claudicante, sulle scale del grande vialone d’ingresso della villa, sorretto dalla forte mano del padre e dall’amore incontenibile della madre.
Ad accoglierlo, sull’uscio di casa più elegante e nobile che avesse mai varcato, c’erano un uomo ed una donna: parevano usciti da un quadro di Modigliani, tanto da sembrargli i colli più lunghi mai visti far da tramite tra testa e busto.
Pietro era talentuoso a riconoscere, nelle fattezze umane, i tratti stilistici degli artisti con cui era entrato in contatto: ancora non lo sospettava, ma il suo senso per l’arte l’avrebbe salvato.
Da sé stesso, prima di tutto.
C’era una bimbetta tra le due figure slanciate: aveva le guance rosse delle ragazzine di Monet e la veste delle ballerine di Degas, tanto da sembragli uscita da fine Ottocento piuttosto che da un gruppetto di coetanee.
Lei lo guardò salire le scale e non poté non notare l’andatura traballante: assunse l’espressione della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer in cui, stupore e innocenza, si erano baciati per la prima volta.
Ne fu folgorato.
Si aspettava il Ritratto di fanciulla di Petrus Christus: solenne e indagatore e, invece, mancavano solo le ali a completare quella visione al limite della sacralità.
Non ci fu tempo per le presentazioni: lei gli prese la mano e, con sorriso leonardesco, ne rapì il cuore.
Il ragazzo si fece condurre tra gli sfarzosi saloni ed i corridoi tappezzati di quadri: le alte pareti salivano al soffitto tessute di tele.
Respirava il filo conduttore di quella narrazione: la bellezza della natura.
Si trovava chiuso tra le mura di una villa ma ne era come proiettato all’esterno: se voltava lo sguardo da un lato era catapultato su monti innevati, se girava gli occhi dall’altro, sarebbe potuto cadere nella spuma oceanica dal sapore provenzale.
Pietro correva.
Dietro quella che sembrava una bimba ma avrebbe potuto essere il suo angelo.
Le tele osservavano.
Finché i sensi furono sommersi dal tepore: quello di un giorno di tardo autunno, all’imbrunire.
Si fermò: l’olfatto gli si fece più acuto.
Tirava l’aria dal naso e cercava di ricomporre quell’indizio tra i ricordi.
Pareva campagna: fieno ed erba, ma continuò a salire d’intensità, sino a stordirlo.
Si fece rigido dinanzi a una tela enorme: forse due metri.
Forse solo un’illusione ottica.
Forse anche il sapore di quella tela a olio di papavero era pura suggestione.
«Ti piace?» disse la piccola «È il Vespero, di Oreste Albertini».
Pietro trovò conferma nella firma amaranto in stampatello, in basso, sulla destra.
Lo colpì un particolare: la ragazza seduta su una carriola, in primo piano.
Uno zoccolo era ben visibile: l’altro si poteva intuire dietro la gamba sovrapposta.
Avrebbe pagato oro per vivere una vita in quella posa: gli era balenata l’idea folle che anche la ragazza, come lui, avesse potuto avere un problema all’arto e che, il nasconderlo sotto l’altro, non fosse solo tocco d’eleganza femminile ma gesto innato a eludere un dramma.
Deglutì: lo sentì anche in gola l’odore del fieno.
Alzò lo sguardo e si allontanò per inquadrare bene la tela: rimase abbagliato.
Il giallo lo colse impreparato.
C’erano colori che riconosceva d’avere dentro e altri che attendevano di essere svelati: il giallo era una di quelle sfumature che, spesso, lo chiamavano.
Ma lui non sapeva cosa rispondergli.
La luce del sole gli sferzava negli occhi: li chiuse un attimo, per riprendersi, sperando che la tela si disinteressasse a lui.
Quando li riaprì, la pittura gli passò attraverso.
Mancò il fiato e non solo per il caldo: percepiva che quella tela lo avesse attirato nel suo ventre, nel giallo più giallo che il sole avesse mai tinto in terra.
Si chiedeva quale artista avesse mai potuto rappresentare un paesaggio con quella attenzione alla luce, al silenzio.
Avrebbe chiesto alla mamma se la sua galleria avesse mai ospitato un quadro dell’Albertini.
Doveva esserne al corrente per forza.
Si voltò per cercare la piccola guida.
Lo fece in tutte le direzioni che il giallo gli permise: ma non ritrovò più il volto.
Dietro lui, solo un rettangolo di compensato e tre magre gambe metalliche: un cavalletto.
Si trattava del retro di un cavalletto da pittore.
Ora, il tepore degli ultimi raggi del sole, gli fece percepire appieno lo sgomento.
Non era più nel corridoio della villa: era lì, proprio lì.
Dentro il quadro.
[continua]