8-12 Ottododici di Germano Tengattini


Germano Tengattini
8-12 Ottododici
pp. 276
ISBN 978-886155-038-4
Girardi Editore



Pistolotto

Opposti estremi.
Due facce della stessa medaglia.
Opposti estremi di una civiltà sopra le righe.
La nostra cultura. Quale civiltà!
Il lusso più sfrenato e la miseria più nera.
Una città, un paese, una nazione, miserie tutte uguali.
L’involucro, il contenitore del nostro tempo.
Città moderne e cosmopolite.
Afa, polvere, traffico, inquinamento e dietro l’angolo la tranquillità vellutata di certi salotti buoni.
Individui dall’adolescenza vorace, che tutto masticano e digeriscono con estrema semplicità.
Milionari che ridono e si danno del tu, che godono e sanno godere senza ritegno.
Prati rasati e morbidi.
Club esclusivi, dove è impossibile varcare la cortina d’ordine e pace, inaccessibili come castelli
medioevali.
Erbacce lungo un canale male odorante costeggiano ed attraversano la vita di milioni d’individui,
entrando prepotentemente nelle loro vite, nel loro destino, fra il purgatorio e l’inferno.
Palazzi di specchi, che riflettono catapecchie di nuovi immigrati.
Umani, che vivono in edifìci anonimi e fatiscenti dov‘è pericoloso persine varcarne l’ingresso.
Suite, attici, lofts nei quartieri alla moda, tra gli studi d’artisti famosi.
Bambini mezzi nudi, panni stesi, biciclette sgangherate.
La nostra cultura. Quale civiltà!
Dove le distanze sono talmente vicine da essere desolatamente enormi.
Dove i benestanti ed i clandestini nella attesa d’essere rimpatriati, riempiono le sale degli aeroporti.
Dove chi può definirsi ricco è ricco veramente.
Dove l’opulenza è vera abbondanza, sfarzosa e sontuosa, il resto miseria.
Dove una notte, in una suite di un grande albergo alla moda, una semplice notte, costa quanto lo
stipendio mensile d’operaio, di un impiegato, di un’insegnante. Un’umana notte, lunga quanto
quella di un bambino che muore di fame, di un malato afflitto da un male per nulla complicato,
colpevole di sopravvivere in paese dimenticato, sfruttato ed oppresso.
Miseria e nobiltà.


Prologo

Alice, alla luce del mondo o meglio per quella parte, che convenzionalmente è definita il “mondo commerciale”, era l’emblema del marketing. Il desiderio “imposto” ad ogni donna, l’esempio da imitare, da desiderare, da replicare. Modello creato dalla società moderna, dal consumismo, dalla globalizzazione.
Successo, carriera, carte di credito: libertà.
In quel periodo Alice splendeva, come Las Vegas durante una qualsiasi notte, una delle tante, tutte uguali, luccicanti e sfavillanti. Notti esageratamente uniformi per essere vere, autentiche.
Un sociale ben costruito e realizzato senza lesinare, con fatica e dedizione. Come una coscienziosa formichina e un intraprendente castoro, aveva edificato una fortezza, il suo castello. Mura alte e merlate pronte a difenderla da corpi estranei ed inadeguati.
Pietre dure o semplici carte da gioco, solo il tempo l’avrebbe inesorabilmente dimostrato.
Durante questo tempo, Alice viveva.
Circondata e sorretta dalle invalicabili mura del marketing, coltivava amicizie importanti e
necessario per apparire, per compiacere la voglia di protagonismo. Dimenticando: che dopo il
giorno si ripresenta puntualmente la notte e le stelle nel ciclo brillano immobili e solitarie da secoli, da milioni di anni; l’alleata alba, senza indugio, sarebbe sorta diradando le tenebre e penetrando fra lustrini e trucchi d’avanspettacolo, diffondendo una luce vigorosa, forte e veritiera; i potenti raggi del sole, inclementi e leali, avrebbero sconfitto l’incertezza, ristabilendo la normalità, rivelando il bene ed il male, il giusto e l’iniquo.

Come qualunque individuo presente sulla nuda crosta terreste, ha l’esigenza, l’estremo bisogno di fuggire dall’isolamento, mitigare la solitudine, (un virtuosismo che ci consente di superare brillantemente ogni difficoltà, attingendo dal nostro cuore abilità insperate e tecniche sopraffine)
Alice non possedeva il coraggio, la forza necessaria per sfidare il vento della vita. Priva del
necessario temperamento per intraprendere un percorso profondo, interno, si affidava alle amicizie.
Anne, Sendy, Susy, Joia, Titti, Manu, nomi fasulli, moderni, posticci, eccessivamente falsi per essere presi in considerazione.
Amiche.
Complici nello shopping ed alleate nello sforzo fisico in palestra. Dove la capacità d’incastrare perfettamente i corsi di step o di spinning, fra i vari impegni giornalieri, diventa un’attività degna di un equilibrista o forse di un’illusionista. Dove il tempo da dedicare al fitness diventa in ogni caso insostituibile e al grido di battaglia: – i “rotolini” devono essere eliminati – via con le macchine più diaboliche. Basta selezionare sul display l’opzione giusta, inserire peso, età, sesso, monitorare il battito cardiaco e poi via : dimagrire, rassodare, modellare le forme.
Fatica e suda, suda e fatica.
Tutto sotto controllo, programmato, pensato per noi, per il nostro benessere fisico e mentale.
Se esageri!
Niente paura, un “bip” segnala se stai superando la soglia aerobica o se invece i tuoi battiti sono troppo bassi e poi, si riparte.
Fatica e suda, suda e fatica.
Apparire, mostrarsi al passo con la moda, presentarsi al cospetto del divo del momento, colui che prima di aver dimostrato il suo valore, il suo ingegno, la sua personalità, l’anima, l’io più profondo, è stato sbattuto fra le pagine patinate di un momentaneo giornale o fra i monotoni fotogrammi di un realty.
Un mondo, il mondo di Alice, pensato senza lasciare nulla al caso.
Alice una donna alla moda.
Tutto moderno, giusto, maledettamente giusto.

Alice viveva, godendo e gioendo, talvolta amando.

Amiamo per fuggire dal vuoto da cui proveniamo.
L’eremita nascosto nello io più profondo.
Amiamo per non essere inesorabilmente attratti dalla solitudine della mente.
Affetto; Passione; Amore; Adorazione; Idolatria.
Amiamo nel tentativo di ripristinare quella magica condizione d’unione,
l’amore che ci ha creati.
Amiamo per servire il progetto vitale,
attuare la legge della natura, la procreazione, l’esistenza della nostra specie.
Amiamo per fuggire dal vuoto da cui proveniamo.

Alice possedeva nell’apparenza della vita, nella banalità dell’esistenza, una realtà affettiva invidiata, sicura e forte. Appagante nella sua superficialità, ma interiormente insignificante e deludente.
Aspetto profondo, personale, intrinseco.
Atteggiamento che desiderava ardentemente modificare, lo agognava nel profondo del suo cuore, nell’intimità dell’anima. Una vita affettiva, che rincorreva e come un qualunque animale, sia di terra, sia di mare o che volteggi fra nuvole tetre cariche di cattivi presagi, braccava le sue prede.
Inseguendole fra le pianure e le colline del mondo, fra palazzi vertiginosi o misere baracche di
periferia, con l’intento di soddisfare il suo bisogno, la necessità d’ogni essere umano: una sessualità appagante.
Il suo ideale romantico, continuava ad essere frustrato, impedendole il raggiungimento del sogno, ostacolando il desiderio vitale, riportandola immancabilmente allo stadio iniziale, regredendola bruscamente.
Alice, utilizzava il sesso per sfuggire da qualcosa, si serviva del piacere corporale per guarire
dall’ansia e dalla depressione, più che per ottenere un momento di piacere.
Ammalata dal mal d’amore si era trasformata in una schiava dell’amore.
Alla ricerca dell’uomo perfetto, uno stereotipo, un’ideale a cui non rinunciava e con lei le donne del mondo, che nonostante secoli di soprusi, di monotonia, non hanno ancora desistito nella ricerca: dell’uomo, che metteranno al centro dell’universo; dell’uomo, che darà un valore alla loro esistenza; dell’uomo, che le salverà, trascinandole fuori della tempesta, come un faro illumina il marinaio allo sbando e lo conduce in un porto sicuro lontano dalle onde minacciose e dalla furia del vento.
Donne attente, vigili, che il tutto non fuoriesca, non trapeli al mondo, sicure d’agire, rinfrancate dalla loro coscienza materna, guidate dal divino istinto femminile.
Così credono, si auspicano.
Azzannata la preda, placato l’istinto materno, si assopiscono, cavalcando e gioendo.


8-12 OTTODODICI

“Chi smette di sognare,
rinuncia alle gioie della vita.”


Capitolo 1

Un connubio fra pittura e musica.
Un castello di segni, graffiti preistorici e forme astratte ricoprivano le pareti.
Danze lontane, dita sottili e forti pizzicavano le corde tese di una chitarra armoniosa, smaniosa di trasmettere vibrazioni cariche di forza, di sensazioni magnetiche.
Musiche d’altri tempi, ricordi d’orchestre, inondavano le ampie sale del maniero.
Note rinascimentali e come il movimento culturale, il pittore aveva caratterizzato i suoi dipinti attraverso l’uso rinnovato della lingua, della scrittura, dando libero sfogo al rifiorire dell’arte, nello spirito e nelle forme dell’antichità classica.
Segni grafici, quasi geroglifici, riempivano le tele.
Tratti che rimandavano al principio della vita, ad origini lontane, primordiali, incisi dal colore nel colore per generare tessiture misteriose e preziose.

“E’ un’operazione difficile ed entusiasmante, tradurre le parole in immagini!”
Sentenziò cattedratico e saccente, mentre sistemandosi gli occhiali ricercava la migliore messa a fuoco. Aggiunse.
“L’insieme di queste lettere crea un poema. Rime di un profeta del linguaggio, oscuro e metaforico, un caratteristico alfabeto di segni, un mosaico destinato ai cultori dell’amore.”
Alice annuiva, mentre, la mente attratta dalla virile rappresentazione, sognava mondi antichi e misteriosi. Un percorso intimo, che l’attraversava lasciando polvere di stelle, emozioni primordiali.
Sequestrata, rinchiusa fra le forti pareti dell’arte, ammirava estasiata l’evolversi dell’ispirazione che aveva guidato l’artista.
Un fantasioso direttore d’orchestra aveva realizzato spartiti colorati, forme astratte, in parte
complesse, quasi sottili.
Alice, al centro del salone, roteava a braccia aperte con i palmi delle mani rivolti verso l’alto,
nell’atto di ricevere le vibrazioni provocate dalle tele misteriose. Roteava sempre più velocemente, un vortice imperioso prendeva possesso delle sue emozioni.
“Emozioni tradotte in graffiti. Emozioni tradotte in graffiti. Emozioni tradotte in graffiti.”
Ripeteva meccanicamente.
Investita dai colori del mondo: i blu, i viola, i verdi, i rossi e poi ancora i bianchi e i neri, una
sintassi di segni colorati attraversavano gli occhi stupiti dall’arte.
Paonazzo dalla vergogna, Federico Scola di Torretta discendente da una famiglia nobile romana, l’afferrò per un braccio nel tentativo maldestro di bloccare il leggiadro roteare. Imbarazzato dall’inaspettato atteggiamento, riuscì ad interrompere a fatica il fanciullesco sfogo. Alice abbandonò la sua estasi artistica proprio d’innanzi ad un’enorme tela, dove a lato un manifesto nella sua nuda semplicità, riportava:
Ad ogni nota l’artista ha attribuito un colore, simbolo di uno stato emozionale, di una
progressiva coscienza di sé, che conduce l’uomo da una condizione di nebulosa inquietudine circa il senso del proprio destino ad uno stato di serena saggezza, di luminosa e illuminata consapevolezza.
Blu, metafora della notte, del buio “buono”, coscienzioso e rilassante, percorso naturale che consente di ricaricarci e rivedere il passato con occhi diversi, proiettandoci verso un futuro migliore.
Sole, luna, stagioni diverse, il trascorrere del tempo fa rifiorire l’istintivo dimenticato trasformando il principe azzurro in un rospo. Sconfitte, cadono nella depressione del cuore, fino a, quando la ricerca dell’uomo perfetto, del salvatore, ritorna prepotentemente.
L’ancora di salvezza, l’acqua viva, la miccia che scatena di volta in volta l’inizio virtuoso della vita, risiede nell’anima. Il tesoro contenuto nello scrigno rimane inalterato, l’amore, il desiderio, continua ad esistere nonostante i continui traumi cui è sottoposta.
I sintomi?
II mercato, la sanguisuga, apprezzata e ricercata, impone i suoi sintomi, condizionando le donne a manifestare il loro disagio, la loro sofferenza.
Come l’edera non abbandona la linfa vitale, il mercato onnipresente propina cure miracolose. Terapie indispensabili per passare tra la cruna dell’ago, per ricaricarsi e ripresentarsi come temerarie guerriere. Le indirizza, le consiglia, le spinge a curare ossessivamente il proprio corpo, a vestirsi in modo eccessivamente femminile e provocante, costringendole ad esibirsi, mostrarsi al mondo, agli individui, che addestrati a ricevere, si rallegrano per l’opera compiuta o rabbrividiscono di fronte ad una performance per nulla soddisfacente, non consona al marketing. Un non vissuto, che le conduce lungo le pareti oleose di un imbuto, portandole fuori rotta, in mare aperto, alla deriva, per poi essere nuovamente salvate da un filtro magico, da una cura sicura e divina, che le trasforma, che le rivesta a nuovo. Il tutto condito da uno shopping impulsivo. Spendere, spendere, vestiti, scarpe, borse, cosmetici, pacchetti, pacchi, dove non è il bene acquistato che fa la differenza è l’acquistare che conta, l’illudersi che qualcuno si prende cura di loro. Cercando di dimenticare l’insoddisfazione sessuale, cadono vittime dello stesso mercato che le ha generate.

Una ricetta esterna al loro corpo, alla mente, all’anima.


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