“Hoc erat in Votis”
Scelta di Poesie Gay
Dal Volume
Poesie per un “diverso“
INCOMPIUTA
(Elegia)
È passato l’inverno e primavera
mi riconduce il canto degli uccelli,
il primo verde stento, i primi fiori
candidi e rosa. Primavera un tempo
(ragazzo) m’era fonte al suo apparire
di gioia, il sole pallido e l’odore
di primule e vïole giù dai boschi.
Fiorivano i mughetti e le giunchiglie
le vigne in cima ai colli. Alto saliva
dalle corti semideserte e gialle,
tremulo come il polline dell’aria,
l’eco dei galli vittoriosi al vento.
Odio la primavera e il suo corteo
d’immagini fiorite, la merenda
sui prati, in alto, il giorno di pasquetta.
Tempi d’un tempo. C’è un trapasso adesso
brusco dal clima rigido d’inverno
(inverni senza neve, o quasi, un velo
di bianco che si diluisce in pioggia)
a quello dell’estate (pochi giorni
di caldo a luglio-agosto (una fiammata).
Odio la primavera ho detto. Noi
ci siamo conosciuti ch’era estate,
ci siamo detti addio che l’estate
rigogliosa, opulenta, già cedeva,
già il torpore d’autunno era nell’aria.
Oh! i pomeriggi all’ombra delle Musa
presso le Hawaii, trascorsi meditando
su le panchine a vividi colori,
nella calura del meriggio estivo,
o stesi presso gli alberi frondosi
sopra la coltre soffice del prato,
prostrati e mente e fisico del coma
(giungevano gli schiocchi secchi, a tratti,
dal gioco delle boccie, là, sul fondo);
poi sul tramonto (scende la calura)
le discussioni (l’arte decadente,
Jean Moréas e l’“école romane”, d’Annunzio,
l’ultima narrativa, “Il Gattopardo”,
la musica di Schönberg, Webern, Berg).
Tu ti sedevi al tavolo vicino
per seguirne il discorso, colla guancia
sulle braccia conserte o accoccolato
sulla ghiaia del viale, un po’ in disparte
(il tuo timore quasi fanciullesco
di farti innanzi e fare gruppo). E noi
ti chiamammo e venisti e ti sedesti
preso da quel pontificare nostro:
quei discorsi fra noi, i personaggi
di Pasolini, la bellezza torva
dei ragazzi di vita, le avventure
folli delle ruggenti “notti brave”.
Ricordo la panchina allo scoperto
dipinta in verde e infissa al suolo, presso
la pompa, al sole caldo, e lì ti apristi,
lì spiccasti le prime tue parole
(monosillabi appena), ma dicesti,
meglio lasciasti intendere, allungato
il braccio sulla ruvida spalliera,
impercettibilmente la vergogna
tua di fanciullo timido e infelice.
Poi lasciati cadere il braccio in terra
gingillando la ghiaia, come vinto,
tirasti contro il tuo maglione bianco
un ginocchio, i “blue-jeans”, rosso nel volto.
Non ritornammo più su quel discorso.
Ma il luogo nostro resta la panchina
in legno verde e infissa al suolo anch’essa,
preso il gioco deserto delle boccie
all’ombra fitta degli ippocastani,
che ci ha visti sostare spesso, ha visto
nascere l’amicizia, l’amicizia,
tramutarsi in affetto, testimone
muta di sensi casti e imperituri,
di sensi che giammai tramonteranno.
Discendeva la sera lentamente,
s’accendevano luci alle finestre;
Tu fumavi; seguivo le spirali
del fumo srotolarsi verso l’alto
(s’annullavano al buio) ed era notte.
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Maggio 1969
Elegia n. 13 “L’incontro”
Sia benedetto il giorno, il mese e l’anno
che t’ho incontrato. M’apparisti a un tratto
(la selva di quei tuoi capelli gialli)
nel cortile assolato, ritto presso
l’alto muro di cinta, chino il volto,
gli occhi sbarrati e inerti, fissi al suolo.
Vi sono dei momenti che mi pare
d’averli già vissuti un’altra volta
(questo è il destino forse degli umani
di ricordare ciò che non è stato);
ma non fu quello di cotali istanti.
Fu quello, anzi, per me un momento tutto
nuovo, l’incontro di due vite spente.
Adesso che, smagrito in corpo, il ventre,
fattosi cavo al palmo della mano,
si profila nettissimo allo specchio,
duttile contro il torso mio d’efebo,
adesso che di giorno in giorno il volto,
pallido, smunto, languido, affilato,
sciolti i capelli sulle spalle e lunghi,
pare quasi tornare a nuova vita,
adesso in te ti riconosco, Amore!
Quando ti vidi per la prima volta
era il meriggio primo (s’era usciti
dal refettorio, in libertà, all’aperto).
Un infermiere s’affacciò alla porta,
ti bisbigliò qualcosa (“Su…(Puntini),
in parlatorio, andiamo!”). Lo seguisti
docile (fermo ti guidava il braccio
lungo il tragitto breve), scomparisti
tra l’uscio verde e il buio delle scale.
Era un sabato, il giorno (seppi poi)
che tuo padre, in attesa, spazientiva.
Tu gli fossi condotto, arcigno il volto.
Ecco, pensai d’acchito, uno che parte
Credevo non ti avrei mai più rivisto.
Ma ti rividi. Fu il mattino dopo
che, alzando gli occhi dal messale (s’era
raccolti in gruppo nel soggiorno, tutto
parato a festa per l’uffizio), a un tratto
mi volsi e sussultai. Stavi sul fondo
ritto nel vano d’una delle grandi
finestre, lungo il viale dei navigli,
bianco il maglione d’angora, spiegato
l’ampio risvolto dei “blue-jeans”, sul volto
teso sino allo spasimo, dipinta
la folle ebbrezza del tuo riso folle.
Pensai solo una cosa: “E’ lui, rimane!”.
Il mio sguardo furtivo come un lampo,
s’incontrò col tuo sguardo. Fu un istante.
Ti ritrovai quel giorno e i giorni appresso
nel cortile, in disparte sempre, e l’occhio
pungente, acuto, fermo, indagatore,
fatto vieppiù di giorno in giorno audace,
perseguiva il tuo sguardo e lo frugava.
Cercasti di evitarmi di sfuggire
la morsa atroce (t’era intralcio forse
l’incalzare ossessivo, la presenza
stessa di me); caparbio, non ti diedi
tregua finché capitolasti, vinto.
Un giorno, presso la finestra aperta
delle cucine (s’attendeva l’ora
della merenda, intesi ognuno al pasto),
quel mio costante rigirarti attorno,
quel non levarti gli occhi mai di dosso,
agì come una molla: “Ecco, mi dissi,
ho valicato il segno: adesso scatta!”
Ma non scattasti; non scattasti solo
liberasti un sospiro più profondo,
poi chinasti la fronte. E fu l’intesa.
Ho sprecato la gioventù pazzesca-
mente inseguendo il sogno e la chimera.
Non sapevo che il sogno e la chimera
(Mogli, rammento, Mogli e il suo fantasma)
li avrei trovati tutti e due inverati
fra le mura di “Villa… (Tre puntini)”.
Rivedo il giorno che lasciai la Villa
rivedo il giorno che tornai per farti
visita (impresa non narrata ancora).
Era trascorsa forse una ventina
di giorni da che fui dimesso, quando
giunsi inatteso in Villa. Un mazzo enorme
di gladioli bianchi per la Suora
(“Oh!, i fiori bianchi… i fiori per l’altare…
la nostra Capellina… il refettorio…”
(nel refettorio un Sacro Cuore orrendo)
mi dischiuse ogni porta. Si permise
ch’io scendessi in giardino, ch’io sostassi
(deroga mai concessa) fra i malati.
Di lontano ti vidi, vidi al sole
splendere gialli i tuoi capelli d’oro.
Stavi seduto in fondo presso gli alti
ippocastani, all’ombra della Musa,
sul libro aperto che reggevi in grembo
(Tolstòi, se ben ricordo, o Dostojevskij…
Dostojevskij, “I fratelli Karamàzoff”).
Alzasti il capo alla mia volta. Avevi
i bei capelli un po’ cresciuti, incolti,
lunghi sul collo, non più rosso il volto,
non più scontato (a giorni alterni l’urto
di shock massicci) quel tuo riso folle.
Mi porgesti la mano (m’era giunto
nel frattempo, di mezzo, fausto auspicio,
un tuo breve messaggio). Ci sedemmo,
ci spostammo più in là, ci risedemmo,
discorremmo fra noi, soli in disparte.
Mi trattenni mezz’ora forse e certo
fu la mezz’ora più serena e dolce
ch’abbia trascorso mai con te. Ricordo
cenni sommessi, languide parole,
dolci promesse, dei sospiri a tratti,
l’occhio non più smarrito, penetrante,
acuto e vivo, limpida la voce,
fatta sicura o quasi. Il sole caldo
dell’estate morente carezzava
le foglie secche degli ippocastani,
sfiorava a tratti le tue belle chiome
nell’aria immota del meriggio primo.
Ma la sorpresa più gradita forse,
quasi un bagliore nel tuo cielo fisso,
fu il sorriso smagliante che m’accolse
(che traboccò) per investirmi tosto.
Dei momenti trascorsi (l’ore, i giorni)
con te, laggiù, sulla panchina, resta
questo “il ricordo”, l’unico ricordo
che non m’attrista e in parte mi consola.
E pensare che adesso sei caduto
che il tuo corpo d’avorio in preda ai vermi,
disfatto ormai, sotterra si consuma
(il pegno certo, la mercede, l’arra,
che la morte m’ha imposto e il tuo destino).
Ho scontato col pianto e col lamento
(l’ultimo incontro) la dolcezza e il lampo
d’un sorriso che ancora m’appartiene.
No, non cancellerò dalla mia mente
l’eco di quell’istante d’abbandono.
Finché vivrò, finché un barlume fioco
mi sosterrà, m’irraggerà lo sguardo,
esso vivrà con me, per me soltanto,
dolce e soave nella mia memoria.
Con lui negli occhi, colla sua presenza
(gradita offerta all’avido Caronte),
limpido raggio ed incorrotta fama,
cocente strazio e intemerato ardire,
rigido, freddo, immobile, supino,
bianco, beato, scenderò sotterra.
Novembre 1973
Dal volume Poesie giovanili
Sera
(terza redazione)
S’è
l’eco del giorno infranta
nei perduti
orizzonti di fuoco
Di fuggenti palpiti
alate
nostalgie
ritornano
(È l’ombra della sera nel cielo
ineguale
si tingono le vette di luce cinerea
oltre i rami dubbiosi
che tremano al vento)
Impallidiscono
gli animi
in un fremito
d’amore
I vetri
anch’essi tremano
…Sono
in cielo spuntate le stelle
ad una ad una
timidamente
nel chiarore ultimo che si spegne
tremula ognuna del pianto
della mia
giovinezza perduta