Racconto premiato di Gino Zanette

Con questo racconto è risultato 3 ° classificato – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Città di Melegnano 2009


Questa la motivazione della Giuria: «Terzo classificato: “Immerso in una atmosfera satura di un simpatico ma ristretto provincialismo, un paesino attende con ansia orgogliosa e comicamente messianica il passaggio in treno di Benito Mussolini. C’è in questo racconto una descrizione di massa, voci che si rincorrono, atmosfere sociali che ritraggono con arguzia e vastità d’intenti i vari personaggi del popolo, che sperano in una gioia particolare, in una gloria mai avuta, in un avvenimento che strappi dalla noia quotidiana la banalità delle esistenze. E sono tutti personaggi assai realistici, ritratti nelle loro debolezze, nelle loro idiosincrasie, nelle loro piccole grandi ambizioni che saranno deluse da un treno che non solo non si ferma, ma da un duce che nemmeno si accorge dei festosi preparativi per il suo passaggio. Parabola ironica ma piena di vigore di un paese che fascista smise di essere d’improvviso. Affabulazione incalzante e avvincente. Si ride e ci si rattrista. Ma la verità appare splendente». Alessandra Crabbia.


«Il passaggio del Duce»

Il paese era in fermento ormai da alcuni mesi anche se la notizia non era ancora ufficiale. Ma si sa che, in casi come questi, una mezza confidenza sussurrata riservatamente al migliore degli amici, con la promessa di non rivelarla ad alcuno, trova sempre un pertugio per propagarsi rapidamente. Era così accaduto che, negli ultimi giorni, essa avesse preso, senza motivo apparente, contorni sempre più delineati e precisi. Tanto che il parroco stesso, sempre attento a non perdere occasione per essere sulla cresta dell’onda, aveva sentito la necessità di scrollare, con modi piuttosto bruschi, l’abituale ritrosia della sua fedele perpetua. «Senti, Melia» le aveva detto quel mattino, mentre lei lo aiutava ad infilarsi prima il camice e poi la pianeta «Com’è che io rischio d’essere spesso l’ultimo a sapere certe cose?» Aveva lasciato la frase a mezz’aria, così, per non far trapelare troppo la sua curiosità. La donna, che aveva fatto della sua vita un atto di donazione a quest’uomo esuberante e possessivo, godeva ogni qualvolta gli poteva essere utile con il racconto dei segreti e delle frivolezze del paese. Ma, in quell’occasione, fedele a una promessa, finse d’esserne sorpresa e subito non rispose, continuando ad armeggiare alle sue spalle con lacci e stringhe.
«Hai sentito la domanda o sei sorda!?» l’apostrofò nuovamente, voltandosi verso di lei, deciso, il prete.
«Non so a cosa vi riferite, reverendo», rispose lei rispettosa, stringendo più forte che poté l’ultimo laccio.
«Già! Sono così tante le novità in questo paese?» mormorò il parroco, con un accento d’ironia che non sfuggì alla donna. «Non tenermi sulla corda, che fra poco ho la messa», le intimò e fece due passi verso la campanella, a cui s’apprestava a dare il consueto strappo per avvisare i fedeli.
«Credetemi, reverendo, io proprio non so… Si tratta forse della seconda scappatella dell’Agnese?» azzardò Melia, celiando, nel tentativo di prendere tempo. Intanto ci avrebbe pensato su se conveniva dire o non dire ciò che lui si attendeva. O se, invece, per la prima volta, negare proprio di saperlo.
Ma non fece in tempo a completare il suo pensiero che sentì la campanella e Don Lino che, uscendo verso l’altare, a bassa voce le diceva, fra il minaccioso e il divertito: «Ci sentiamo a fine messa, briccona». E non mancò di affibbiarle il solito pizzicotto sul di dietro. Un’abitudine che la infastidiva non poco, anche se era propensa a considerarla un gesto innocente, pur conoscendo le dicerie – malevoli, pensava lei – che in paese circolavano fin da quando il sacerdote aveva i suoi bei capelli neri.
Ma intanto era riuscita a prendersi una mezz’ora di tempo, per decidere sul da farsi. La cosa in se non era grave, ma la notizia, quella notizia, lei l’aveva saputa da tempo, e direttamente dalla bocca del segretario del fascio. Che s’era raccomandato di tacerne con tutti, finché non fosse arrivata una certa autorizzazione a renderla pubblica. E quell’uomo, che lei conosceva da bambina, non era certo il tipo da perdonarle una leggerezza del genere.
Si buttò lo scialle nero sulle spalle, si legò il fazzoletto nero sotto il collo e, chiusa a chiave la sacrestia, si avviò di corsa verso la casa del signor Maurizio. Le strade, a quell’ora del mattino, erano quasi deserte. Incrociò il carretto del raccoglitore del latte, poi passò vicino al forno che esalava un intenso profumo di pane fresco. Infine, trafelata, giunse alla casa del segretario. C’era il batacchio, alla porta della villa, ma preferì bussare, per non disturbare troppo.
Dopo un po’, dal balcone del primo piano, appena socchiuso, udì la voce in falsetto del segretario:
«Dio mio, Melia, ché fai a quest’ora? Non sarà morto don Lino, per caso?»
«Per carità, signor Maurizio, non è morto nessuno, ma ho bisogno di parlarvi e ho poco tempo. È lui che mi manda». lo supplicò la donna.
«Scendo subito» le rispose l’uomo. Lei lo sentì parlottare e poi, il cigolio dei passi sulle scale di legno. Quando aperse la porta, la guardò con l’aria incuriosita, di sotto agli occhialini che, con due dita, sollevava sulla fronte e la invitò a entrare.
«No, non entro, grazie. Mi bastano due minuti. Si tratta di quella cosa che…» esitò, prima di pronunciarla e si guardò attorno, temendo quasi d’essere ascoltata.
«Sì, dimmi pure» la sollecitò lui, temendo il peggio. «Quale cosa?»
«Non vi ricordate, ciò che m’avete confidato, a proposito del passaggio…» non osava nemmeno finire la frase, ma lui la interruppe. «Il passaggio del Duce?… È di questo che intendi parlare?» profferì lui, emanando un sospiro di sollievo. Chissà cosa aveva pensato.
«Proprio di quello. Sapete… Don Lino mi manda perché vuol sapere…» accennò lei, con un certo imbarazzo.
«Benedetta donna!» esclamò il signor Maurizio, con un tono di rimprovero nella voce.
«Ed è per questa sciocchezza che mi sei venuta a svegliare alle sei di mattina?» proseguì.
La Melia piegò la testa da un lato e, mortificata, rispose: «Voi mi avevate raccomandato di tacere e io… Voi lo sapete che, quando prometto, specialmente a voi… Quindi, posso raccontarlo a Don Lino?» concluse.
«Certo che puoi. Certo». E un lampo di soddisfazione gli brillava negli occhi. «Ora finalmente lo puoi dire. Ora tutti lo possono, anzi, lo devono sapere. Vai. E dì a don Lino che ho bisogno di vederlo subito, perché non c’è tempo da perdere. Dobbiamo organizzare in fretta la festa, una manifestazione di quelle che il paese ricorderà per anni. E lui, in questo, è un vero artista. Vai!»
Con l’animo sollevato, Melia ripercorse quasi volando il tragitto di ritorno, non senza fermarsi a prendere il pane fresco con l’uvetta, di cui don Lino era goloso.
In ché consisteva questa notizia del passaggio del Duce? Da qualche mese Mussolini, di ritorno da Monaco di Baviera, dov’era stato siglato un importante trattato, aveva promesso ai suoi di recarsi a Trieste. Era determinante, per lui, e per quello che il trattato nascondeva, spiegarne il contenuto e godersi e sfruttare la momentanea popolarità che l’avvenimento di Monaco gli aveva procurato.
Così pensò di trasformare quel viaggio in treno anche in occasioni di incontro con i suoi fedelissimi e con la gente. Programmò, quindi, di fermarsi velocemente in alcune delle più importanti stazioni che si trovavano sul percorso, dove sarebbe sceso, avrebbe stretto un po di mani, baciato alcuni bambini e donne per poi subito ripartire. La notizia curiosa, però, era quella che, fra le stazioni delle città principali del Veneto, era stata inserita Pianzano, un piccolo paese di nemmeno mille anime. Il motivo – ma questo Melia non lo sapeva – stava in una frase, dipinta a caratteri cubitali sulla casa del fascio ben visibile dalla stazione del paese che diceva: “Duce, Pianzano fascista ti saluta. 965 abitanti, 960 iscritti.”
Tanto curiosa e incredibile, che era diventata famosa in tutto il Veneto, al punto che ogni controllore di treno, quando, alla fermata della stazione, scendeva e gridava con voce stentorea: «Pianzano! Stazione di Pianzano»’ s’affrettava poi ad aggiungere: «965 abitanti, 960 iscritti» (Restava sempre un mistero, il silenzio sui cinque mancanti.)
Ebbene fu proprio per questo che il Duce volle (o meglio, qualcuno per lui) dare un premio a questa percentuale plebiscitaria di fedeli alla causa fascista. (Si sarebbe visto, di lì a qualche anno, quanto quella percentuale fosse fasulla.)
Ecco quindi che, rientrata alla sacrestia trovò don Lino che già si stava svestendo dei paramenti sacri. Lo informò e, subito, da quel grande organizzatore che era, il prete prese un foglio e buttò giù alcune idee che fin dai primi sentori della notizia, aveva immaginato di proporre.
«Tu vai ad avvertire tutti i responsabili delle associazioni, le confraternite, le suore dell’asilo, gli scout, la banda… Mi raccomando, la banda. E i campanari, che siano i migliori, perché voglio sentire un triduo, come per le festività religiose più importanti… Hai capito? Ché fai là impalata?» La aggredì, sventolandole sotto il naso il foglietto con i suoi scarabocchi. «Muoviti! Io ho altro cui pensare. Adesso devo uscire. Devo parlare col segretario… E poi… Oh, Signore Iddio, dimenticavo il cappello… Dov’è il mio cappello d’ordinanza e la tonaca?«
«Sarà nell’armadio della vostra camera» rispose Melia, frastornata da quel diluvio di parole. «Sono secoli che non li usate e saranno tarmati».
«Secoli… Secoli… Adesso che mi servono, non ci sono tarme che tengano». Borbottò. In un salto salì le scale e ridiscese con gli indumenti sotto braccio e uscì lasciandosi dietro una ventata di naftalina.
E mentre la Melia, inforcata la bicicletta, si avviava a fare il giro del paese per eseguire gli ordini, Don Lino con passo veloce, si avviò verso la casa del segretario del fascio. Di passaggio si fermò di fronte alla casa di Marianna, la merciaia, che, a quell’ora, non aveva ancora aperto bottega.
«Ché fate, don Lino? L’andate a trovare anche di buon mattino?» gli gridò con aria canzonatoria Toni Dal Pos, il meccanico che già stava arrabattandosi intorno a un motore nella sua officina.
«Faccio gli affari miei, come dovresti fare tu!» gli rispose stizzito il prete.
«Oh, io sono troppo vecchio per certi affari. Voi mi capite…» replicò subito Toni, che non si lasciava certo intimidire.
In altra occasione Don Lino non gliela avrebbe fatta passare così e l’avrebbe affrontato a muso duro, ma quel giorno aveva ben altro per la testa. Si accostò all’uscio, sotto quell’insegna mezza sbrindellata con la scritta ‘scampoli’ e bussò. Rispose dapprima l’abbaiare del cane sul retro; poi Marianna, che dal balcone appena accostato, aveva intravisto il prete, con la sua voce forte e allegra, gli rispose: «Vengo. Vengo subito, don Lino. Un momento, che sono mezza svestita!.
«È mezza svestita, poverina… E che vuol dire? Eh, don Lino? Meglio così, no?» gli fece Toni, che, dall’altra parte della strada aveva ascoltato tutto.
«Vuol dire che è quasi pronta. Ah!Ah!Ah!»
«Sei uno stronzo!» urlò Marianna al vecchio meccanico, mentre socchiudeva la porta a don Lino. «Un vecchio, stupido stronzo!» poi, aggiunse: «Scusate, don Lino, ma quando ci vuole ci vuole».
«Lascia stare. Lo sai che è una mala lingua. Piuttosto, guarda qui» e le mostrò cappello e tonaca. «Ho bisogno che mi sistemi due cosette», le disse il prete, per nulla intimorito dalle sghignazzate del meccanico che, evidentemente, era soddisfatto delle sue punzecchiature.
«Ci sarebbero da cucire, sia sul cappello che sulle maniche della tonaca, i gradi… Non so come dirti. I gradi di tenente…Sai, ero tenente medico, ai tempi…» Le chiese don Lino.
«Va bene. Date qua». Rispose Marianna, rivoltando sotto sopra i due indumenti. «E dove sono, i gradi?»
«È proprio per questo che sono qui. Non li trovo più. E quindi dovresti trovare tu, non so… delle fettucce dorate, qualcosa che gli somigli…» la implorò quasi il sacerdote e, sottovoce, aggiunse. «Sai, è arrivato il fatidico giorno… Il passaggio del Duce è fra due giorni. Capisci? Due giorni. E devo essere in uniforme d’ordinanza. Ora ti lascio. Mi raccomando, fai tu. Sono nelle tue mani. Come sempre…» le prese le mani, se le portò alle labbra e, arrossendo, uscì di corsa, lasciando la donna con la bocca spalancata per la sorpresa. E non solo per quella.
Fu, presto, dal segretario del fascio e, prima di entrare, si strofinò un bel po le mani sulla tonaca, quasi per togliersi quel velo di intimità profumata che la donna gli pareva avesse lasciato.
I due uomini, pur diversi, erano fatti per comprendersi in fretta. Abili organizzatori, esaminarono le idee che Don Lino aveva abbozzato sul suo foglietto; il signor Maurizio ne aggiunse delle altre e, alla fine, stilarono il programma di lavoro dei due giorni che mancavano al passaggio del Duce. Compilarono la lista dei nomi con i rispettivi incarichi e si lasciarono con la certezza che ognuno avrebbe eseguito alla lettera le mansioni affidate.
E così fu. In quei due giorni tutto il paese fu avvolto da un’attività frenetica, quasi che l’occhio magnetico del Duce, dal finestrino del treno, potesse in pochi secondi, scrutare ogni angolo, persona o cosa: perciò strade, piazze, case, alberi, giardini, tutto era stato ripulito, migliorato, abbellito. La stazione ferroviaria, sopratutto, le due banchine, le insegne, i binari stessi, subirono una trasformazione radicale e, per certi aspetti, fittizia: molte famiglie portarono piante in vaso, per decorare gli angoli più spogli, chi aggiunse nuove panchine, o ridipinse quelle esistenti; fu estirpata l’erba cresciuta fra le rotaie e ai cigli delle banchine. Alberi provvisori furono impiantati a fianco dei pochi esistenti e, in mezzo ad essi, trovò il modo di far bella mostra di se anche una piccola fontana. L’acqua sarebbe stata fatta fluire, con una pompa manuale, nascosta da un folto lauro, giusto il momento del passaggio del Duce.
Nello stesso tempo veniva messo a punto anche l’afflusso e la disposizione delle persone che avrebbero dovuto presenziare alla manifestazione. Ogni gruppo curava la propria divisa, che doveva essere pulita, stirata, brillante. Ove non ci fosse una divisa specifica, se ne inventava una. Si discuteva, animosamente talvolta, per contendersi la posizione migliore, quella che, naturalmente, avrebbe garantito un approccio più diretto col Duce. Naturalmente un posto di riguardo spettava a tutte le scolaresche con i loro insegnanti. E, fra tutti, c’era chi imparava una canzone, chi una poesia, chi addestrava per le formalità dei saluti. E davanti, in prima fila, con le autorità, la piccola banda locale, rinforzata da molte unità dei paesi vicini. Insomma niente veniva lasciato al caso. Poteva mancare la nobiltà? No. Così si riuscì a schierare anche la famiglia Lucheschi, con carrozza e due pariglie di superbi cavalli bianchi. In testa, a sprizzare gentilezza, il Conte Edoardo, nella sua smagliante uniforme di capitano dell’aviazione.

In questo clima di euforia collettiva, arrivò il fatidico giorno. Il segretario del fascio, Maurizio Fardin, come prima autorità, la sera prima ricevette telegraficamente l’attesa conferma dell’ora precisa del passaggio. Cosicché per il treno delle dieci – quella era l’orario comunicatogli del transito del treno Trieste/Venezia per Pianzano – tutto il paese, o almeno, quello che ci stava, era assiepato in ogni angolo della stazione, lungo i binari, alle finestre e sui terrazzi delle case vicine. Ognuno con bandierine tricolori, distintivi su giacche e camice, gagliardetti con le insegne del fascio e fazzoletti colorati.
Don Lino, impettito nella sua tenuta d’ordinanza, su cui Marianna aveva fatto miracoli, precedeva nella sua imponenza anche il segretario del fascio e il podestà. Quest’ultimo era un omuncolo che s’era adattato a fatica al suo ruolo di semplice comparsa e, perciò, sgomitava per farsi notare almeno in quel frangente.
La gente cominciò ad affluire molto presto, per accaparrarsi le posizioni migliori. E l’attesa cresceva di minuto in minuto con gli occhi che scrutavano la linea ferroviaria in direzione Udine da dove il convoglio sarebbe arrivato.
Il segnale, che doveva precedere il momento esatto del passaggio, lo avrebbe dato via telefono il capostazione di Orsago, una stazioncina a pochi chilometri. In quel preciso istante, la banda avrebbe iniziato a suonare ”Faccetta nera” e, dal campanile, sarebbe partito il saluto festoso delle campane. L’avviso ai campanari l’avrebbe dato don Lino, sparando un colpo con la sua pistola d’ordinanza. Poi, quando il treno si sarebbe fermato e il Duce sceso dal treno, la banda avrebbe dovuto attaccare la Marcia Reale (a questo proposito c’era stata discordanza fra podestà e segretario e, come al solito, decise quest’ultimo, e si continuò con ”Faccetta nera”); quindi il saluto del segretario, le strette di mano, le canzoncine dei bambini, i baci del Duce a donne e fanciulli, e poi, e poi…
Ad un tratto, dalla porta della stazione, Venier il capostazione, uscì trafelato gridando: «È qua, è qua. È passato da Orsago in questo momento. Due minuti ed è qua». E mentre così gridava, assestandosi berretto e paletta, lucidata a specchio, attraversò i binari, andandosi a schierare a fianco di Don Lino.
Come trascinate da una ondata impetuosa di vento, tutte le teste si voltarono verso Orsago, a inquadrare quella specie di tunnel fumoso da cui sarebbe sbucato di lì a poco il treno del Duce. S’udì subito il colpo di pistola e, la banda che, nel trambusto, sbagliò dapprima l’attacco, ma subito si riprese.
Toni, il meccanico, che la sapeva lunga, fu l’unico a non girarsi, ma chinatosi sulla rotaia più vicina, vi passò sopra la sua mano callosa. Furono brevi istanti: ne sentì la vibrazione e, rialzatosi, urlò: «Eccolo!», protendendo il suo braccio verso il fondo del tunnel su cui era comparsa la sagoma scura e sbuffante della locomotiva.
Da quel momento fu come se un’ipnosi collettiva si fosse abbattuta sulla marea colorata che affollava la stazione. Si ricordò solo lo sbuffare acre di carbone della locomotiva e la frustata della sfrenata corsa dei vagoni con i finestrini, tutti con le tendine rigorosamente abbassate. E la miriade di teste che, meccanicamente, come sbattute da una folata contraria di vento, s’erano voltate verso Conegliano, in un nuovo tunnel ove il treno stava già scomparendo.
Ci fu qualcuno che si azzardò ad affermare di aver visto la mano possente del Duce che salutava, qualcun altro intuì il profilo eroico della sua testa o delle sue spalle possenti. Ma quasi tutti rimasero increduli, smarriti, con gli occhi sulla bandierina rossa sul predellino dell’ultima vettura, che sventolava come per un irriverente saluto. Tardarono molto a riprendersi e ritornare alle loro case.
Del Duce, nessuna traccia. Proprio niente di niente. Anzi, il giorno dopo, Toni il meccanico, uno dei cinque non iscritti, fece sapere, urbi et orbi, che il treno del Duce aveva scelto la linea Portogruaro Motta, per fermarsi a Oderzo, stazione sicuramente più gratificante per l’ambizioso passeggero.
Fu, forse, da allora, da quell’episodio funesto, che Pianzano, quel piccolo paese senza storia che voleva salutare il Duce, cominciò a non essere più fascista.

Gino Zanette


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