Racconto premiato di Gino Zanette

Con questo racconto è risultato 8° classificato – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Il Club dei Poeti 2010


Questa la motivazione della Giuria: «Il racconto riporta alla luce la figura di Adorino, il “cugino stravagante”. Eppure il povero cugino portava con sé una storia di sofferenza e un tragico evento dal quale era nato proprio il suo strano nome. La scrittura è precisa e intensa». Massimo Barile


«Un cugino stravagante»

Era un pomeriggio grigio di fine ottobre, dopo settimane di sole che avevano fatto credere che stesse ritornando l’estate. Si avvicinava la ricorrenza dei Morti e Michele non era ancora andato, come soleva ogni anno, a pulire la tomba di suo padre. Rito obbligatorio, perché ne andava del prestigio della famiglia e perché, per lui, aveva anche un suo significato scaramantico.
Non immaginando come l’avrebbe trovata, si disse che era meglio andare prima a darvi un’occhiatina. Inforcò la vecchia bici della moglie, sempre con le gomme semisgonfie, e si diresse di malavoglia alla volta del cimitero. Era da poco passata l’una e la temperatura mite metteva un certo brio alla sua pedalata. Ci arrivò in pochi minuti ed era contento di non aver incontrato nessuno lungo la strada. Provava sempre un certo disagio nel farsi notare che andava in quel luogo. Per fortuna anche il cimitero, a quell’ora, era deserto.
S’incamminò per il vialetto laterale che fiancheggiava il muro. L’eco dei suoi passi scricchiolanti sul ghiaino, gli procurava ogni volta un leggero brivido, quasi che presenze invisibili lo sfiorassero. Si girò più volte verso l’ingresso, temendo d’essersi sbagliato e che qualcuno lo stesse seguendo. Ma non vide nessuno, se non, sullo sfondo, le due malinconiche file di cipressi ammaccati e giù, più lontano, le macerie della vecchia chiesa.
Quasi non s’accorse di essere giunto proprio davanti alla tomba, quando, da oltre il muro che separava la parte vecchia da quella nuova del cimitero, gli parve di udire un leggero colpo di tosse. Credette di sbagliarsi, ma, subito dopo, a mezza voce, udì alcune parole. Dunque non era solo. Ciò lo infastidiva non poco.
Provò a sollevarsi sulle punte dei piedi, tentando di guardare oltre il muro senza essere visto, ma l’altezza era tale che dovette aiutarsi con le mani. Gli riuscì di alzarsi quel tanto che bastò per scorgerlo: lui era là, solo, seduto sopra una tomba, con lo sguardo fisso verso la lapide di marmo grigio che si ergeva di fronte.
La sua attenzione sembrava attratta unicamente da una piccola foto d’uno dei medaglioni ovali che luccicavano al sole. Michele, temendo d’essere notato, subito si abbassò, ma, incuriosito, strisciò poi lungo il muro e, si avvicinò quel tanto che era necessario per ascoltare meglio.
Non s’era sbagliato: era proprio lui, là, che parlava – un borbottio confuso – da solo, con un tono di rabbia repressa, come se inveisse in particolare contro una foto che, ogni tanto, accarezzava con la mano.
Michele lo riconobbe, nonostante da molti anni si fosse allontanato da casa. Era suo cugino Evodoro, che appariva invecchiato e si era lasciato crescere i capelli che ora gli scendevano disordinatamente sulle spalle. La barba lunga, apparentemente incolta, con qualche striatura di grigio. Si diceva che fosse andato dapprima in Francia, a Parigi, per seguire le mode d’un certo Buffet, un famoso pittore d’avanguardia, di cui si credeva un seguace. Poi giunse qualche cartolina da una cittadina dei Pirenei. Pamplona, forse. Anni dopo, infatti, si seppe che s’era ferito partecipando alla corsa dei tori. Quindi dalla Spagna, qualche biglietto, di tanto in tanto, di poche parole, con cui chiedeva soldi alla madre. Poi, per molti anni, più nulla. Aveva litigato con i suoi, specialmente con il padre che non sopportava le sue stravaganze. Ma nemmeno alla morte della madre, avvenuta qualche anno dopo, ritornò.
Michele sapeva che in paese ridevano di lui, fin da quando era ragazzo. No l’ha tute le so légne al cuèrt (Non ha tutta la legna al coperto), dicevano. E anche lui e i suoi compagni, si divertivano a deriderlo per le sue frequenti stramberie. Capivano, però, che il comportamento spesso bizzarro di questo ragazzo aveva qualcosa di insolitamente inspiegabile e che, quindi, c’erano tutte le ragioni per dire, come tutti, che forse era proprio pazzo.
Michele ricordava quante volte sua madre gli avesse raccomandato: «Meglio tu gli stia lontano». «Trovati altri compagni, più a posto, per giocare insieme». «Meglio non dire a nessuno che siamo parenti». (In realtà Michele era solo cugino di sua madre).
Poi, inspiegabilmente, lei lo giustificava, anche, dicendo: «Mah! Poveretto, non è nemmeno colpa sua se è nato così!».
Fu per caso che Michele, ormai cresciuto abbastanza per essere messo al corrente ‘delle cose da grandi’, seppe da sua madre una parte del mistero sul nome del cugino. “Evodoro”, infatti, era sempre sembrato anche a lui un nome strano, inusuale. Ma come poteva immaginare che, invece, proprio quel nome fosse la conseguenza d’una vicenda tragica avvenuta nella casa paterna, prima della sua nascita? Curioso però, di completare le scarne notizie fornitegli dalla madre, colse l’occasione e gli si avvicinò. Fu così che seppe.
Era accaduto tutto in una splendida mattina d’agosto, il 22, giorno di Santa Augusta. A pochi kilometri dal paese, sopra un colle, a Vittorio Veneto, c’era un famoso santuario dedicato a questa Santa, che richiamava ogni anno, particolarmente nel giorno a lei dedicato, torme di fedeli da tutta la diocesi e non solo. Si era negli anni trenta, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. La gente era povera, i mezzi di trasporto scarsi: i più utilizzati erano la bicicletta, i carri, trainati da cavalli, asini e perfino da buoi, e molto spesso, le sole gambe.
Quella mattina Anacleto, suo padre, uno dei più valenti maniscalchi della zona, aveva iniziato presto il suo lavoro: le braci ardevano nella forgia e lui, con l’aiuto del fido Bortolin, ne traeva i ferri arroventati che poi, con sincronismo di colpi di martello sull’incudine, adattava su misura dell’unghia dei singoli animali.
In cortile, dalle prime luci dell’alba, un paio di cavalli e di buoi già sostavano per essere ferrati, mentre altri attendevano il loro turno ai bordi della strada. Anacleto era uno spirito bizzarro, e mentre lavorava, si divertiva a tenere tutti di buonumore con le barzellette e le sue battute salaci, nonostante le occhiate dissuasive della moglie .
Fin dalla notte, sulla strada antistante, era iniziato il passaggio dei carri dei pellegrini che provenivano da più lontano per raggiungere il santuario. Erano carri d’ogni tipo, spesso dotati d’un pianale largo e capiente, sul quale intere famiglie, giovani, donne, vecchi e bambini, si accalcavano: chi ai bordi, con i piedi penzoloni, chi all’interno, mescolandosi a sporte di paglia che profumavano di pane fresco, salame, formaggio e, per i contadini più benestanti, di pollo o di tacchino arrosto. Erano ore di rumore festoso: chi pregava, chi cantava, chi, stuzzicato dalla fame, cominciava a metter mano alla colazione.
Molto spesso si trattava di carri da lavoro dei campi, trainati da buoi o addirittura, muli, asini e persino mucche; ma spesso si noleggiavano i carrettieri di professione, i cui carri erano molto più grandi e confortevoli, ed erano trainati da veri cavalli da tiro, forti e robusti, capaci di mantenere un galoppo spedito per tutto il percorso.
Fu uno di questi a causare la tragedia.
Essendo più rapidi, capitava spesso che superassero i carri più lenti, sollevando dalla strada sterrata, con lo scalpitio degli zoccoli, nuvole di polvere che andavano ad avvolgere i pellegrini e a imbiancare le foglie dei grandi ippocastani che fiancheggiavano il viale principale del paese.
Le due figlie più piccole del maniscalco, Eva di sette e Dora di quattro anni, erano scese presto in cortile, richiamate dal frastuono dei carri e dei canti, curiosavano felici, e scambiavano saluti sfiorando le mani protese dei pellegrini.
D’un tratto le due bambine intravidero, fra la polvere che di tanto in tanto si diradava, la loro nonna che stava arrivando al di là della strada e che, accortasi di loro, le salutava con la mano.
Fu Dora, la più piccola, che, felice di incontrare la nonna e ansiosa di abbracciarla, partì di corsa per attraversare la strada chiamando: «Nonna! Nonna!». Eva, che le era accanto, sorpresa, riuscì soltanto a gridare: «Dora!» e, spaventata, si slanciò per trattenerla. Il carrettiere che sopravveniva tirò più forte che poté le briglie per fermare i due possenti cavalli; l’urlo terrorizzato dei pellegrini si unì a quello della madre che, dalla finestra, urlava con voce straziante il nome della figlia.
Ma ormai gli zoccoli erano sopra la piccola e Eva, che era riuscita ad afferrarla, inutilmente, fu trascinata insieme sotto le ruote del pesante carro, schiacciata anche lei.
A distanza di qualche giorno morirono tutte due e la foto che ora Evodoro guardava e con cui, sottovoce, Michele l’aveva udito imprecare poco prima, era quella dei due corpicini composti insieme, nel loro letto, il giorno del funerale. Fin qui il suo racconto.
Il terrore di quell’attimo devastò per sempre sua madre e, forse, come si raccontò poi in paese, si ripercosse anche sul figlio di cui proprio allora ella era incinta e che, di lì a qualche mese, sarebbe nato.
Evodoro, era un nome insolito, perché sua madre aveva voluto ricongiungere in quel nuovo figlio le due vite di Eva e Dora tragicamente spezzate in uno splendido mattino d’agosto.

Gino Zanette


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