Estratto dal romanzo “Controcampo” (Albatros, giugno 2013) Arrivo finalmente alle due grandi rocce che avevo individuato nel sopralluogo della settimana scorsa. Si trovano nella parte alta di un grande pianoro erboso che interrompe il fluire del bosco. Le due rocce sono accostate una all’altra, in modo da formare in mezzo una grande fessura. Uno spazio leggermente in discesa, immerso in un cono d’ombra, e di larghezza sufficiente a tenere sotto tiro un ampio arco del bosco più in basso, da dove in genere sbucano i cacciatori. Sono passate da poco le sei e mezza. La giornata è stupenda e l’aria fresca e leggera della montagna entra nei polmoni con un piacevole effetto tonificante. Controllo con il binocolo il bosco sottostante, non c’è nessuno in vista. Distendo la cerata, comincio a sistemare le mie cose e simulo il tiro attraverso il cannocchiale del fucile, tenendomi in appoggio su uno spuntone della roccia alla mia destra. Mi pare ok. Miglioro l’appoggio, mettendo sotto il maglione e il K-way. Ottimo. Poso il fucile a terra, il jammer sullo zaino e mi predispongo all’attesa, controllando il margine del bosco con il binocolo. Se ci fosse stata Camilla, quest’assurda impresa non avrebbe mai visto la luce. Non tanto perché non amasse abbastanza gli animali, che addirittura preferiva alle persone. Non tanto per i cacciatori, che aveva sempre detestato profondamente e della cui sorte non poteva fregargliene di meno. Ma soprattutto perché non avrebbe mai potuto accettare che io corressi un rischio del genere. Non avrebbe mai potuto sopportare di aspettare a casa, senza sapere se sarei tornato o no. O di trasalire ogni volta che avesse sentito suonare il campanello di casa, temendo una visita della polizia. Camilla era dolce, ma amava avere il controllo. E odiava ogni forma di stress. Verso le sette e un quarto, un cacciatore entra nel mio campo visivo. Poi un altro e un altro ancora. Sono tre, distribuiti su un fronte di circa 80/100 metri. Lascio il binocolo, mi alzo e prendo il fucile, lo imbraccio e faccio scorrere il suo cannocchiale da un cacciatore all’altro. In linea d’aria saranno più o meno 250 metri. Era Tarcisio Polidori. E un attimo dopo non era più nessuno. La palla Nosler .308 gli aveva cancellato ogni identità. Contatore visite dal 10-04-2014: 5380. |
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