Con questo racconto è risultata 6^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010
Questa la motivazione della Giuria: Il racconto di Giulia Paoletti riesce ad umanizzare l’amorevole istinto animale che lega due “cuccioloni” Bovari del Bernese. Con le sue commoventi parole, alimenta l’essenza del significato estremo della loro unione che neanche la morte può scalfire. Simbolico esempio dell‘”amore più vero” che molti esseri umani, sovente, dimenticano.
Massimo Barile
«L’amore più vero»
E così pensai che senza di lui non avevo più senso.
In un attimo, in quel sordo rumore, la mia vita andò in frantumi.
In un primo momento non mi resi conto di quanto fosse successo, continuai a camminare per un po’. Sentii di essere sola, tornai indietro per cercarlo, non riuscii a scorgerlo subito.
Dopo poco mi accorsi che lui era lì. Lo fissavo negli occhi, li aveva socchiusi e sofferenti. Era inerme, su quel ciottolato gelido.
Realizzai che l’accaduto era più tragico di quanto pensassi, a dire il vero non l’avevo neanche messo in conto tutto ciò.
Era bello come sempre, la sua espressione dolce si spegneva lentamente. Mi chinai sopra di lui e gli diedi un bacio, era ancora calda la sua guancia. Lo toccai strusciando il mio naso contro la sua fronte, era immobile.
Gli chiusi gli occhi con una carezza. “Amore mio…” dissi, o forse lo pensai soltanto.
Non avevo forza di emettere alcun suono, neanche di piangere. Mi sentii inanimata anch’io, come quei sassi sui quali giaceva.
Volevo strapparmi l’anima, la mente, il dolore.
Stupidamente non pensai che io ero già volata via, qualche attimo prima, con la mia vita.
Decisi di piegarmi di fronte a quel destino crudele, forse di oppormi.
Che cosa avrei fatto io senza di lui? La mia guida, il mio supporto, il mio amore…
La mia mente sfogliò una serie di pagine fitte di pensieri. Scoprii che di quelle pagine ora mancava un pezzo, che erano incomplete, non riuscivo a leggerne la metà perfetta.
Un libro a metà è inutile, non sai come va a finire o come comincia.
E’ meglio gettarlo via un libro incompleto.
Quel libro era la mia vita in quel momento.
Tutto era cominciato circa un anno e mezzo prima. Ci eravamo conosciuti per sbaglio in un afoso pomeriggio di Agosto.
Era una di quelle giornate talmente calde che i bordi delle cose sembrano sfocati, come se tutto evaporasse. Mi ero allontanata per cercare un po’ di refrigerio, volevo fare una passeggiata all’ombra di qualche albero.
Camminavo tranquillamente quando ad un tratto udii un rumore. Continuai senza farci caso. Quel giardino era pieno di animali di ogni genere, pensai che potesse essere un passero o semplicemente una lucertola che sfrecciava dietro di me.
Mi fermai un attimo e sentii distintamente dei passi poco distanti da me. Qualcuno mi stava guardando.
Mi voltai con discrezione e scorsi una figura che mi osservava attentamente. Si avvicinò senza proferire parola, mi squadrò dall’alto in basso. Non riuscii a reggere lo sguardo di quegli occhi verdi dall’espressione intensa e matura. Fu un attimo, mi sembrava di conoscerlo da sempre quel viso. Aveva le labbra perfette, un portamento altero, il corpo possente. Io restavo lì senza saper bene che fare, gli accennavo sorrisi timidi e cercavo una posizione che non desse nell’occhio.
Sentii per la prima volta il suono della sua voce e il calore del suo alito indirizzato verso di me. “Piacere…” il tono era caldo e sicuro. Fu la prima volta che i nostri sguardi si incontrarono. I nostri occhi, fin da subito, furono reciprocamente attratti come due calamite dai poli opposti.
Proseguì e mi disse: “Io sono Marco…la osservavo, sa?! Così indifesa ed elegante..”.
Sono sicura che in quel momento arrossii ma ebbi la prontezza di rivolgermi a lui con sguardo ammaliante per dirgli: “Con piacere, io sono Cleo…”.
Dopo mezzora eravamo in quel parco che passeggiavamo interrompendo il silenzio con poche parole. Era così piacevole la sua presenza, mi aveva messo a mio agio, era così sicuro.
La camminata continuò beatamente fin quando un temporale ci colse all’improvviso. Ci salutammo di fretta scambiandoci sorrisi tinti d’intesa nata in un’ora. Io corsi via e mi voltai: lui era ancora lì che mi guardava. Gli feci un cenno con la testa e me ne tornai a casa col cuore in gola.
La nostra frequentazione divenne, col passare dei giorni, sempre più assidua. Entrambi facevamo finta di uscire a fare una passeggiata nel parco quando, in realtà, desideravamo solo incontrarci. Puntualmente Marco era lì, non importa se si stava scaldando al sole o se era zuppo di pioggia: lui, in ogni caso, aspettava me.
Passavamo ore ed ore insieme: parlavamo di ogni cosa, correvamo, ci dissetavamo insieme alla fontana, mangiavamo la merenda che uno dei due aveva portato per l’altro, incontravamo persone e animali…ma nessuno turbava il nostro mondo.
Erano così dolci quei pomeriggi.
La sera arrivava troppo in fretta per allontanarci e condurci alle nostre case. Ogni volta avvertivamo quel dispiacere di andar via che si colmava solo quando, il giorno seguente, eravamo di nuovo ognuno in presenza dell’altra.
Il sentimento crebbe con l’avanzare delle stagioni e, anche se il tempo andava incontro all’autunno triste e morente, noi, comunque, stavamo rinascendo l’uno nell’altra.
Eravamo davanti alla fontana, un giorno, per dissetarci, quando all’improvviso sentii la sua testa poggiata contro la mia spalla. Mi bloccai incerta sul da farsi. Poi non ci pensai due volte e mi voltai verso di lui per guardarlo. Gli occhi erano sereni e sognanti, io gli sorrisi. Mi annusò la pelle e fece un verso tenero con la voce.
In quel momento la realtà divenne sospesa in un cielo infinito, sembrò di spiccare il volo vorticosamente o di cadere in picchiata nell’acqua fresca. Un turbinio di emozioni e sentimenti, una scintilla che scatenò un fuoco.
Ci baciammo. Ci baciammo lì, per la prima volta, davanti a quella fontana generosa che ci dissetava ogni giorno, nelle orecchie lo scroscio discreto dell’acqua, nel cuore il mio amore per lui.
Un giorno arrivò improvviso il bisogno di concretizzare quel rapporto cresciuto al di fuori del tempo e dello spazio. Un pomeriggio, in un minuto probabilmente, decidemmo di andare a vivere insieme. La nostra intesa mentale era a dir poco perfetta, oltre ogni limite. Ci capivamo con un solo sguardo, era come se lui pensasse a qualcosa ed io, un secondo dopo, ero lì che lo guardavo e avevo subito capito cosa intendesse fare.
Decidemmo di passare la vita insieme, inconsapevoli di ciò che ci sarebbe accaduto.
Volevamo condividere ogni cosa, diventare un solo essere, passare le giornate sognando nel nostro mondo parallelo costruito con cura e spontaneità.
Lui era la mia luce, ciò che aveva dato senso alla mia esistenza ed io ero più che mai convinta che, senza di lui, sarebbe diventato inutile vivere, che sarei stata cieca di fronte alle bellezze della vita, che non avrei più sentito suoni.
Eravamo certi che niente e nessuno ci avrebbe separati, che noi eravamo noi, oltre il tutto.
La nostra casa non era certo modesta. Ne scegliemmo una non tanto per la sua grandezza o sontuosità, quanto per il suo giardino. Forse fu lei, la casa, a scegliere noi. Era accogliente, spaziosa al punto giusto, confortevole…ma soprattutto era la nostra.
Marco era adatto in ogni luogo dell’abitazione, gli calzava a pennello gironzolare per quella campagna, muoversi in quegli ambienti. Era nostra, tutta nostra, lo sentivo.
Ho sempre pensato che nelle storie d’amore c’è un picco, una vetta, una meta che, inconsapevolmente, si raggiunge insieme e nella quale ci si sente sazi di tutto. Un limite oltrepassato che fa tremare la vita intera, un asintoto bramato e raggiunto, un paradiso conquistato.
La nostra storia era, invece, perennemente in cima a quella vetta, in un sicuro equilibrio che ci teneva sospesi e innamorati. Credo, però, che ci sia stato un momento di massimo…un momento nel quale, oltre quello, abbiamo pensato insieme, senza dirlo, che niente fosse più possibile.
Tutto accadde una buia sera d’inverno.
Eravamo ancora in giardino a gironzolare, a sentire l’odore dell’aria frizzante che ti punge le guance, a passeggiare tenendoci stretti per scaldarci a vicenda.
Un fulmine in mezzo alla campagna arrivò per sorprenderci ed illuminare tutto in un istante. Il cielo era di un buio fitto, la luna era coperta dalle nubi che volteggiavano con calma, i tuoni si sentivano in lontananza. Nell’aria cominciava a diffondersi un odore di pioggia misto a terra. Il profumo del fango che si forma sul terreno diventava sempre più intenso. A noi piaceva quell’atmosfera, anche se era cupa e paurosa, amavamo stare insieme in ogni situazione e di fronte ad ogni eventualità.
La pioggia arrivò prima del previsto. Erano gocce energiche e grandi, forse era grandine.
Cominciammo a correre sotto la pioggia bagnandoci tutti. Un po’ per sbaglio, un po’ per gioco saltellavamo in quelle pozze createsi repentinamente.
A malincuore lasciavamo quella natura incontaminata, quel paesaggio che ci univa sempre, quegli alberi che erano il nostro rifugio, la nostra casa, i nostri amici. Ci sentivamo parte di quella natura, era l’unica cosa che poteva lontanamente rendere l’idea di quale sentimento ci unisse. Entrambi eravamo attraversati da una metamorfosi naturale: io, lui, noi…la natura.
Capii, proseguendo, che Marco non mi stava conducendo verso casa. Aveva improvvisamente cambiato direzione e mi trascinava insieme a lui.
Dopo una breve corsa ci ritrovammo di fronte ad una piccola costruzione in legno, sembrava una baita. La porta era socchiusa. Marco mi fece cenno di entrare. Era una piccola casetta in legno composta da una sola stanza. All’interno c’era un letto fatto e morbido, una piccola mensola dov’erano poggiati viveri e acqua.
“Dormiamo qui stanotte…” mi propose Marco.
Quel posto era così accogliente e confortevole che non esitai ad annuire col capo.
Passammo la notte in quella piccola costruzione che scricchiolava ad ogni movimento. Fuori la tempesta che agitava il mondo, dentro la serenità che ci colmava gli animi.
Per molto ci accompagnò il rumore dell’acqua che cadeva su quel tetto in legno. Sentivamo il vento soffiare forte, i tuoni che, pian piano, si allontanavano. Il temporale se ne andò lentamente lasciando posto ad una notte più serena dalla luna piena.
In quella piccola dimora il nostro mondo era perfettamente ricostruito, ogni cosa era al suo posto.
Come sempre avevamo la sensazione che niente ci avrebbe separati, che il nostro incastro perfetto dovesse durare all’infinito. Lui che scivolava dentro me ed io dentro di lui.
Ci addormentammo abbracciati, senza sognare: il nostro sogno era già lì.
La vita scorreva dolcemente, era quasi Natale.
Il tempo era relativo per noi. Potevamo decidere di farci una corsa in piena notte, di dormire abbracciati giornate intere, di vegliare anche per due giorni di fila. Stranamente avevamo in testa sempre lo stesso pensiero e la medesima intenzione.
Un bel giorno decidemmo di allontanarci dalla nostra calda dimora per esplorare i dintorni di quella sconfinata campagna. Era freddo, una pungente giornata di Novembre. Il cielo era grigio e minaccioso, avrebbe piovuto di lì a poco.
Cominciammo a passeggiare insieme, come sempre.
Vedemmo cose che mai avevamo scorto fino ad allora.
Distese immense di prati, alberi secolari, incontrammo addirittura un ruscello d’acqua pulita. Amavamo sentirci così piccoli di fronte all’immensità della natura. Guardavamo con stupore e meraviglia tutto ciò che ci circondava, ci stringevamo l’uno nell’altra e provavamo le medesime sensazioni. Ci fermavamo per baciarci e avvertire che tutto intorno a noi stava volteggiando.
Poi ci arrampicammo in cima ad una piccola collina, c’era qualcosa che non riuscivamo a scorgere dal basso. Giunti in alto ammirammo il panorama mozzafiato dell’eden che avevamo appena calpestato.
Poco distante udimmo dei rumori.
Passeggiavamo, a volte insieme, a volte distratti da qualcosa di interessante.
Ci allontanammo per un po’. Il rumore fastidioso udito poco prima era lì sempre presente, forse più forte. Mi accorsi che a terra c’era qualcosa di stonato rispetto a quella vegetazione incontaminata.
Erano delle assi di ferro unite tra loro.
“Marco!” lo chiamai a gran voce. Non so ancora spiegarmi il motivo ma avevo addosso una sensazione di leggera ansia.
Marco mi guardò, aveva sicuramente trovato qualche meraviglia da osservare. Era lì, lontano da me, si ergeva con quella sua figura robusta ed il suo portamento altero. Era bellissimo. Se ne stava in piedi a guardare qualcosa, era sospeso su quella collinetta nel punto in cui un piccolo ponte la univa ad un’altra altura. Era immobile, su quel ponte. Ora mi sembrava che stesse ascoltando qualcosa, fosse attento ad un rumore. Non aveva dato importanza a me che lo avevo chiamato.
Proseguii per il mio cammino.
Ero sola, me ne accorsi poco dopo. Un rumore ferroso mi aveva stordito.
Tornai indietro. Mi saltò in mente l’idea che quelle assi di ferro che non mi ero soffermata molto a guardare fossero i binari di un treno.
Tutto quello che potei scorgere era lui disteso a terra, su quei binari appunto.
Un treno era passato così veloce che, con noncuranza, aveva portato via la mia vita.
Fui invasa da una sensazione terribile, mostruosa, inspiegabile.
Non potevo resistere un secondo di più.
Mi sdraiai accanto a lui, in posizione supina, lo abbracciavo.
Volevo nutrirmi per l’ultima volta sulla terra di quel suo calore contagioso.
Sarebbe stato un attimo.
Poco dopo lo avrei rincontrato, ne ero certa. Eravamo destinati al paradiso noi due, l’avevo saputo fin da subito.
Mi vennero in mente tutti gli attimi passati assieme, mi sembrava di scorrere col dito un album di vecchie fotografie.
Pensai alla nostra casa che ora era lì ferma, sola, immobile. Il silenzio la circondava. Nessun sentimento la riempiva.
Pensai alla forma dei nostri corpi sul letto, all’impronta che avevamo lasciato proprio lì, nel punto in cui dormivamo insieme.
Pensai che c’era ancora del cibo nel piatto che nessuno avrebbe mangiato, che l’acqua scorreva dalla fontana davanti alla quale ci eravamo baciati la prima volta.
Arrivò un rumore alle mie orecchie, lo stesso stridio ferroso che avevo udito poco prima.
“Arrivo amore.” pensai tra me.
Il rumore si faceva sempre più incalzante, penetrava nelle orecchie ed arrivava al cervello con forza crescente.
Vidi da lontano una grande macchina con due fari puntati che si avvicinava.
Strinsi forte Marco, mi aggrappai a lui, come se dovesse aiutarmi a compiere quel passaggio, come per implorarlo di aspettarmi.
Fu un attimo, un tonfo sordo. Il buio. Il niente.
Eravamo volati via, insieme. Avevamo saltato per mano giù in quel burrone che è la vita. Ora eravamo uniti, completi, perfetti.
Eravamo noi, ancora noi, oltre il tutto.
Marco e Cleo erano due Bovari del Bernese, due cuccioloni dagli occhi buoni.
Due esemplari splendidi, dal carattere tenero e docile.
Se ne sono andati così, in una cupa giornata del Novembre 2008.
Sono stati un esempio di amore puro e vero. Erano legati da un sentimento reciproco profondo che stenta a trovarsi fra gli uomini.
Osservarli dava un senso di completezza e un po’ di invidia, invidia per quello che ognuno di noi, preso dalle proprie cose, non è in grado di provare. –
Giulia Paoletti