Opere di

Gualtiero Mario Francesco Schirinzi


LENA – La bella tessitrice

Le due metà, in cui via Etnea taglia piazza Borgo, a Catania, non sono uguali. L’una, che ha come limite la facciata barocca della Chiesa di Sant’Agata al Borgo, è piena di aiuole fiorite, alberi e dominata, al centro, da una fontana monumentale dedicata a Cerere, detta anche “a Tapallira”. L’altra è interamente lastricata, con qualche albero che sbuca misteriosamente da quella superficie di mattoni, per proiettare un po’ d’ombra sui sedili che la circondano, tutti rivolti verso via Etnea. Una villa maestosa apre tre delle sue grandi finestre sulla piazza e, sotto di queste, parecchi anni fa, altre finestre davano luce ad appartamenti situati sotto il livello della strada. In uno di questi abitava un ciabattino, brutto quanto la fame, e la sua gentile signora, brutta anch’essa, a tal punto da non riuscire a distinguere chi fosse il marito e chi la moglie. Un giorno si verificò il lieto evento. I due coniugi ebbero una bambina bellissima, alla quale imposero il nome di Lena. Chiunque l’avesse vista sarebbe rimasto estasiato dalla sua bellezza, dai suoi capelli neri, dagli occhi verdi e dal viso che sembrava fatto di porcellana.
La bambina cresceva proprio bene e il padre, a forza di riparare e risuolare scarpe vecchie, mettere tacchi e lucidare tomaie consunte, riusciva a guadagnare quel tanto necessario per mandare la figlia nel vicino collegio. Fu lì che la bimba scoprì l’arte della tessitura e del ricamo. Divenne talmente brava che le maestre stesse rimanevano meravigliate davanti ai suoi lavori. Le sue mani sembravano sfiorare i tessuti e sotto le agili dita spuntavano delle vere opere d’arte, dai colori raffinati e dai disegni così suggestivi che nessun pittore sarebbe riuscito con la sua arte a eguagliarne la bellezza.
In poco tempo la sua fama si sparse per tutta la città e le signore della “Catania bene” erano disposte a pagare qualsiasi prezzo, pur di avere un suo lavoro, fosse un semplice centrino o una tovaglia o, addirittura, un arazzo.
Per le ricche famiglie catanesi era un punto d’onore disporre di un suo manufatto da poter mostrare con orgoglio ai parenti o amici venuti in visita.
“Guardate quant’è bello.” – faceva la signora ai suoi ospiti mostrando un arazzo – “E’ una delle opere di Lena e non credo che ne esistano, a Catania, altre così belle.”
Pure mia madre, brava anch’essa nel ricamo, che di Lena era diventata amica, soleva dire: “Dalle sue mani esce oro.”
Tutto sembrava andare per il meglio; Lena lavorava tanto, guadagnava abbastanza per sé e per mantenere sia il padre, ormai vecchio e non più in grado di lavorare, che la madre.
La gente non faceva altro che parlare della bravura di Lena, della sua abilità e dei movimenti che riusciva a fare con le sua dita affusolate, simili a ballerine che danzavano sul tessuto.
Cerere, messa al centro della fontana sul suo piedistallo di marmo, ascoltando le chiacchiere della gente seduta all’ombra degli alberi, pensò bene di informare Minerva.
“Senti” – le disse – “a Catania circola voce che a piazza Borgo, proprio vicino dove io ho la fontana, dall’altra parte della strada, abita una ragazza che fa ricami e tesse meglio di te.”
“Non è possibile” – rispose Minerva – “già una orgogliosa fanciulla, Aracne, ha avuto la presunzione di tessere meglio di me e ha fatto una brutta fine. Nessuna Dea, nessuna Ninfa, nessuna mortale può essere così temeraria da sfidarmi in un’arte nella quale non ho rivali.”
“Eppure ho sentito, con le mie orecchie, dire cose strabilianti nei suoi confronti da tutte le donne della città.”
“Bene, le farò una visita.”
Così Minerva prese il necessario e chiese ospitalità a Vulcano, il quale la accolse nei suoi appartamenti dell’Etna.
L’indomani si trasformò in una vecchia rugosa e bussò alla porta di Lena.
“Puoi darmi qualcosa da mangiare?” – le disse.
“Certo, entra pure!” – fece Lena preparandole qualcosa da mettere sotto i denti.
“Che bei ricami! Chi ti ha insegnato?”
“Ho imparato i primi elementi nel collegio vicino casa. Poi mi prese la passione e ho continuato a perfezionarmi da sola.”
“Avrai saputo, leggendo qualche libro, che Minerva, la guerriera figlia Giove, ricama e tesse meglio di qualunque altra donna!”
“Io sono brava; Minerva, se vuole, può venire a misurarsi con me. Così vedremo chi è la più brava!”
“Non sfidare gli Dei, potresti pentirtene amaramente.”
“Perché dovrei pentirmene? Quello che faccio non può essere superato nemmeno da una Dea!” – ribatté la fanciulla accarezzando uno dei suoi ricami fatto con sete smaglianti.
“Ah, sì? E allora sia dato inizio alla sfida.” Di colpo la vecchia rugosa si trasformò nella bella e fiera Dea Minerva.
I due vecchi genitori di Lena se ne stavano abbracciati l’una all’altro, in un angolo della casa, terrorizzati da quello che stava succedendo, senza avere la forza né il coraggio di far qualcosa.
“Accetto la sfida!” – disse fieramente la fanciulla.
Lavorarono per giorni a tessere e a ricamare senza mai alzare la testa dal telaio. Fu una gara lunga e difficile. La gente del quartiere che, nel frattempo, aveva saputo della sfida, si era schierata in semicerchio intorno alle due contendenti, come a costituire un coro greco, e declamava:”Oh, saggia Minerva dal casco d’oro, perdona l’arroganza della fanciulla. E’ giovane e inesperta. Non conosce l’ira degli Dei.”
“Perdonare è degli uomini non degli Dei!” – rispose la guerriera figlia di Giove distogliendosi per un attimo dal suo lavoro. Piazza Borgo ormai era stracolma di gente e ogni passaggio da quelle parti era precluso.
La Dea Cerere, situata sul suo piedistallo, mostrava qualche imbarazzo per aver creato tutto quel putiferio, non avendo saputo tenere a freno la lingua.
Dopo giorni e notti, alla fine i lavori furono terminati. Minerva aveva descritto su un arazzo le bellezze dell’Olimpo con i suoi abitanti mentre Lena aveva rappresentato la via Etnea con la piazza Borgo, la Chiesa, la fontana di Cerere e, giocando con maestria coi colori, era riuscita a far balzare le figure in maniera tale da sembrare che uscissero fuori dall’arazzo per confondersi con la realtà.
Di fronte a tanta bellezza Minerva fu presa da un attacco d’ira; distrusse il suo lavoro e dopo aver detto:”La pagherai cara, arrogante fanciulla”, andò a rifugiarsi negli appartamenti di Vulcano. Poco dopo si sentì un rumore infernale; dal cratere dell’Etna uscì prima del fumo, che oscurò la città e, successivamente, un enorme sbuffo di fuoco.
Per fortuna durò poco. L’intervento di Cerere, che si sentiva in colpa per il trambusto che aveva creato col suo pettegolezzo, e poi quello ben più risolutivo di Giove, che ordinava a Minerva di smetterla di creare problemi con gli umani per quattro merletti, posero fine a quello che poteva rivelarsi un disastro per l’intera città.
Lena fu acclamata vincitrice della gara ma, da quel momento, incominciarono i guai. Lentamente e inesorabilmente incominciò a diventare brutta. I capelli divennero di colpo bianchi e radi, una peluria crebbe sulle guance mentre due baffi facevano capolino sulle sue labbra raggrinzite. Due folte sopracciglia finivano di sfigurare quello che era stato uno splendido volto. Le mani si contorsero e le dita non riuscirono più a prendere nemmeno un ago.
Disperata, capì che quella era la vendetta di Minerva e, in un atto di orgoglio estremo, per non darle la soddisfazione di farsi vedere mentre soffriva in quel modo orribile, prese un coltello e se lo conficcò nel cuore. Cadde a terra in un lago di sangue, con i due vecchi genitori che cercavano inutilmente di soccorrerla.
Minerva, tuttavia, volle riconoscere le doti nell’arte del tessere di quella fiera e orgogliosa fanciulla e fece in modo che, miracolosamente, appena esalato l’ultimo respiro, i suoi lineamenti si facessero nuovamente fini, la peluria scomparisse, i capelli ridiventassero neri e la sua pelle tornasse liscia come la porcellana.
Oggi, passando davanti a quella casa, rozzamente murata, nessuno immaginerebbe che quel luogo sia stato, molti anni addietro, teatro di un mitico duello.



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