Con l’opera «Anche i maestri mangiano» si è classificata settima nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria:
«La smitizzazione del culto del personaggio, e il trionfo della banalità quotidiana spicciola e fisiologica, dominano questo racconto, che raccoglie la tendenza letteraria americana della New Generation, sempre pronta a smantellare ogni forma di sensazionalismo e idolatria, per condurre il lettore a una divertita e irridente satira sugli aspetti più naturali e biologici, comuni a tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
Attraversando alcuni momenti giornalieri di celebri personaggi, miti universali per il mondo intero, scopriamo in essi e nei loro piccoli gesti ridicoli, le nostre stesse pochezze, volgarità, banalità.
In una carrellata che va dal grande regista del thriller, pauroso e passivo, all’attore fascinoso e ammaliante alle prese con un water, all’attrice eterea e leggendaria costipata, al genio sorpreso a mangiare in spiaggia, l’autore vuole indicarci in modo sornione la via della destrutturazione della leggenda metropolitana, noi tutti destinati a essere sempre e soltanto immersi nel comune destino umano.
E ciò è rassicurante, perché dovremmo sempre aspirare all’accettazione di noi stessi e dei nostri limiti.
Scritto con umorismo nero, è un racconto originale e felice, nella sua schietta e sicura crudezza d’immagini».
Alessandra Crabbia
Anche i maestri mangiano
1.
«Fate uscire la femminuccia».
Alfred tremava. Un brivido che passava da gelido a caldo, come le vampate di una donna in menopausa, lo scuoteva. Solo che Alfred non era una donna in menopausa. Era un bambino. E aveva paura.
«Non riusciamo a trovarlo…».
«Non mi interessa, dovete trovarlo, prenderlo e portarmelo qui». Pausa di qualche secondo. Si guardò attorno, tronfio. «Froci». Sorrisetto maligno.
Nonostante la paura che percorreva i suoi nervi come tante autostrade del terrore, Alfred provò pena per il suo aguzzino: un bambino di un anno più grande di lui, che si sentiva grande solo perché aveva pronunciato una parolaccia davanti a tutti i suoi piccoli tirapiedi. Non l’avrebbe mai ripetuta davanti a un adulto. Men che meno a sua madre, ci avrebbe scommesso. E allora chi era la vera femminuccia? Alfred che stava nascosto in quel cubicolo o lui, che si sentiva figo solo per aver detto “froci” a voce alta?
«Brutti froci…».
Ovviamente Alfred.
Che poi, come ci si era cacciato in quel pasticcio? C’entrava qualcosa quello stupido del suo compagno di banco – neanche si ricordava il suo nome – quello nuovo, arrivato da poco. Neanche due giorni nella nuova scuola e si era già messo nei guai con i teppistelli di turno. E si era tirato dietro lui, soprattutto.
«Dov’è quella signorinella…? Signorineeeeeellaaaaaa? Dove seeeeeei? Dove cazzo seiii?».
Alfred avrebbe voluto ridergli in faccia per il suo patetico tentativo di fare il duro in quel modo ridicolo. D’altronde a undici anni non si è uomini maturi. Sciocchezze come queste sono perfettamente nella norma.
Alfred non era dello stesso parere, però.
«Daaaaaai su, signorinella, vieni fuoooooriiii», lo canzonava.
Alfred sapeva cosa lo aspettava.
«Signorineeeeeellaaaaaa?».
Non sapeva per quanto avrebbe resistito chiuso la dentro, nel buio dello sgabuzzino. Cominciava a fare un caldo asfissiante. Oltre al fatto che aveva un terrore folle del buio.
«Signorineeeeeellaaaaaaa… signorinella del caaaaaaaazzooooooo?!».
Come se l’era goduta quell’ultima parolaccia. L’aveva presa e stirata per bene dalla ‘c’ fino in fondo alla ‘o’, come aveva visto fare a sua madre mille volte con la pasta della crostata. Una bella crostata di bestemmie che quell’imbecille, la fuori, non faceva altro che tirare a destra e a manca, nel tentativo di colpire qualcuno.
Alfred sarebbe anche uscito, ormai, ma sapeva cosa l’aspettava fuori. E aveva paura.
Tutto sommato forse sì, era una femminuccia.
La porta si spalancò all’improvviso, quasi mandandolo gambe all’aria nonostante i due metri di quello stanzino.
«Eccoti qui, signorinella del cazzo!!».
Si ricordò delle minacce di sua madre, Alfred, quando lo avvertiva di non farle perdere la pazienza: «Adesso ti faccio passare un brutto quarto d’ora!». Ecco, era proprio quello che stava per capitargli. Stava per passare un brutto quarto d’ora.
Stava per essere legato,
imbavagliato
e costretto…
ad ascoltare storielle dell’orrore.
Non sapeva ancora Alfred, in quell’afoso pomeriggio d’agosto, che qualche decina d’anni dopo avrebbe dato vita a “Psycho”, uno dei capolavori del cinema thriller/horror.
Tuttavia, gli rimase per sempre nel cuore la sgradevole paura dell’adrenalina di quello sgabuzzino buio e di quelle parolacce stirate come una sfoglia di pasta frolla.
I bambini sono le creature più crudeli della terra.
2.
Una ruga le scavava la fronte, come uno strano punto esclamativo in piena faccia. Il respiro cominciava a farsi irregolare, aveva il fiato corto.
Cominciava ad avere lo stesso colore del tacchino che aveva mangiato per il giorno del Ringraziamento. Una sfumatura di rosso intenso che sarebbe presto diventata di un delizioso color pulce.
«Delizioso!».
Who knows how long I’ve loved you
You know I love you still
Da dove saltava fuori ora quella canzone?
Cercò di concentrarsi. Ancora di più.
Le pareva che fosse qualche canzone di uno di quei gruppi nuovi… come si chiamavano? Ah, ma certo!, i Beatles! E probabilmente era I will… magnifica canzone… peccato che il momento non fosse proprio adatto… se la sarebbe immaginata come colonna sonora di qualche tête-à-tête romantico con suo marito… non lì.
Era quasi peggio che partorire. Almeno in sala parto sapeva che si sarebbe dovuta aspettare un bambino, alla fine. Un premio con i controfiocchi. Un frutto delizioso che si sarebbe portata dietro per tutta la vita.
Sorrise.
E invece ora? Era seduta là sopra da svariate mezz’ore – ormai contava il passare del tempo in mezz’ore – e ancora non aveva concluso niente. E alla fine di tutto quel teatrino e di quegli sforzi non si sarebbe nemmeno portata dietro un bel niente. Anzi, non vedeva l’ora di disfarsene! Il problema era proprio che, con tutti gli sforzi possibili, non riusciva a togliersi di mezzo quel peso che si portava dentro.
Le venne da piangere.
Will I wait a lonely lifetime
If you want me to, I will.
Piuttosto sarebbe ricorsa a un clistere.
Love you forever and forever.
Le venne da piangere più forte. Era disperata, non sapeva più che fare.
Love you with all my heart.
Ormai era assodato: la canzone proveniva dall’interno della sua pancia. In direzione del basso ventre, con più precisione.
Aveva come la sensazione che tanti ometti di una sgradevole sfumatura marrone ballassero la polka nel suo ventre e la prendessero anche in giro.
Love you whenever we’re together.
Perché non volevano uscire e lasciarla in pace? Era seduta lì sopra da ore, in fondo. Ormai aveva il segno di quella maledetta tavoletta del water appiccicato addosso, ne era certa.
Love you when we’re apart.
Alla fine, con un piccolo rumore secco ma lievemente disgustoso, quel peso che aveva dentro uscì. E la lasciò finalmente in pace.
Audrey era una donna nuova.
Mentre tirava lo scarico, Audrey pensò con sollievo che per lo meno quel momento non era stato invaso dai giornalisti e dai fotografi. Pensandoci, era uno dei pochi momenti tutti per lei. Sorrise al pensiero che, comunque, nessun fotografo o cronista d’assalto avrebbe mai creduto che la stessa creatura leggiadra di Vacanze romane o la donna sofisticata di Colazione da Tiffany espletasse come tutti le sue normali funzioni biologiche.
Strano a dirsi, ma anche le dive cacano.
3.
James si alzò.
Cominciò a radersi. La barba andava proprio curata, pensò mentre si specchiava. Nonostante le profonde ombre scure sotto gli occhi, il suo sguardo riusciva comunque ad ammaliare. Ammiccò allo specchio. Sorrise a se stesso.
Forse ci sarebbe riuscito dopo una sana spazzolata ai denti.
Il rasoio quella mattina gli dava dei problemi. E non era una “pollastra” che poteva convincere a obbedirgli solo con il suo sguardo ribelle. Era sexy. Su questo non c’era dubbio.
Mentre puliva le pareti interne del W.C., lo scopino gli sfuggì. E gli rimase in mano soltanto il manico. La testina pelosa dell’arnese sembrava guardarlo in modo del tutto innocente dal fondo del gabinetto. Cercò allora di recuperarlo.
Con degli spazzolini.
Prese tutti e due gli spazzolini da denti che stavano nel bicchiere vicino al rubinetto e li immerse nella tazza. Cercando di fare presa come si fa per prendere l’insalata da una coppa, riuscì a tirare fuori la testa dello scopino.
Che ricadde con un sordo plof nel gabinetto.
Imprecando, James decise di rinunciare alla sua impresa. Strofinò i manici dei due spazzolini da denti sui pantaloni del pigiama.
E li rimise a posto nel loro bicchiere. Come nuovi.
Li guardò. Non aveva più tanta voglia di lavarsi i denti.
Sorrise di nuovo alla propria immagine, nello specchio.
Forse non aveva affatto bisogno di una spazzolata, dopotutto.
Sbadigliò, mentre tirava su col naso.
Niente fazzoletto a portata di mano.
Al diavolo, pensò.
Infilò un dito nel naso e ne trasse fuori l’ospite indesiderato.
«Ma mica James Dean è così rozzo, scema!», reagì lei davanti alla fin troppo fervida immaginazione della sua amica.
«Scusa, ho solo provato a immaginare cosa possa fare il nostro James quando non è ripreso dalle telecamere. In fondo è un essere umano anche lui…».
«James Dean è semplicemente divino! di-vi-no! Figurati se si mette le mani nel naso o se armeggia con lo scopino la mattina appena sveglio…».
Nello stesso istante, James cercava contemporaneamente di tenere a bada l’intruso che ostruiva una delle sue narici e il maledetto scopino che gli era sfuggito di mano, finendo nel cesso ancora una volta.
4.
Il mare era pigro, quel pomeriggio. Srotolato lungo la linea dell’orizzonte, appariva come una preziosa fascia di velluto blu scuro striato di arancione cupo, più che una lingua d’acqua sconfinata.
Nonostante non fossero di certo a Miami, Max riusciva ad apprezzare lo stesso quel mare. Era con la sua famiglia, reduce da un periodo stressante: il mare della Puglia gli era più che sufficiente.
«Dì un po’, ma non ti sembra che quella ragazza stia passando un po’ troppo spesso qui davanti?».
Alle parole di sua moglie, Max girò la testa.
Effettivamente era la quarta volta che quella ragazzina gli passava davanti… o era la sesta? E aveva anche un’aria abbastanza familiare…
Nonostante i 1800 studenti che erano stati suoi corsisti dall’inizio della sua carriera in quell’Università, lui riusciva a ricordarsi il volto di molti di loro. La maggior parte degli studenti temeva questa sua peculiarità. «È tremendo. All’esame ti spolpa vivo. Se riesci ad arrivarci all’orale». Ma non era vero. Il fatto era che Max amava il suo mestiere. E le cose fatte per bene.
«Effettivamente… Bah…». Si rigirò verso sua figlia e sua moglie, ignorando la ragazza.
Dopo qualche minuto si rigirò verso di lei.
Aveva in mano una macchina fotografica. Puntata nella sua direzione.
Si voltò, seguendo la direzione dell’obiettivo: probabilmente stava mirando a qualcosa che si trovava sulla sua traiettoria, proprio dietro di lui. Qualche nuvola particolare, qualche gabbiano, qualche cretinata del genere, insomma…
Ma la ragazza puntava proprio lui.
L’obiettivo lo guardava fisso, come una scimmia istupidita.
Click.
Max era incredulo.
La cosa avrebbe anche potuto onorarlo. Avrebbe potuto farlo sentire al pari di James Dean o di un altro divo del cinema inseguito dai paparazzi… ma in realtà la situazione era semplicemente ridicola. Ai limiti del grottesco. Non sapeva se mettersi a ridere o infuriarsi.
«Secondo me ti conviene girare con dei mazzetti di foto già fatte e autografate… magari mentre giri la minestra sul fuoco o mentre tagli l’erba, così si risparmiano la fatica e gioiscono sapendo che persino tu hai le funzioni vitali per fare queste cose come tutti gli esseri umani del mondo…».
Rise alle parole di sua moglie.
«Effettivamente questi incontri scioccano…», scherzò. «È un po’ quello che succede a una scolaretta delle elementari che scopre che anche i suoi maestri mangiano».
Il mare sospirò in lontananza, distendendo pigramente le sue punte azzurre verso riva.