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Jack Kerouac


Articolo di Massimo Barile – Rivista Club degli autori 157-158-159-160 Marzo 2006


Jack Kerouac: Quel maledetto stupido ultimo hotel e altri viaggi

Kerouac mi fa venire in mente l’immagine di un hotel tappezzato di quelle vecchie grandi insegne pubblicitarie anni sessanta, una Cadillac o una Hudson nel posteggio semideserto che paiono capitate lì per caso, carta straccia per terra, scorrimani scrostati dalla ruggine, avanzi d’un pasto fast, qualche vecchio pneumatico nascosto dagli arbusti e, poco più avanti, un distributore di benzina che pare contenere tutto tranne che petrolio e, infine, l’immancabile contenitore della Coca Cola. Quasi un’atmosfera irreale, sospesa nel tempo, anzi inquietante, nella sua condizione di sospensione. E lì intorno l’umanità che va e viene, corre disperatamente, viaggia per chissà quale destinazione, sempre che sia interessata ad una mèta, quasi nomadi involontari d’un tempo che scorre così veloce da non permettere di «attaccare il cappello» oltre il tempo necessario che, di solito, è breve. L’umanità che si nasconde, proprio come ha fatto Kerouac negli ultimi anni, che si isola, che pare estranea, che si aggira di notte schivando i lampioni che ancora fanno un po’ di luce. Ecco allora che si delineano in modo preciso le intenzioni, emergono, da luoghi conosciuti ed ignoti, i frammenti, i residui, i rimasugli di parole nate dal linguaggio, spontanei come alcune piante e fiori che riescono a germogliare e sopravvivere nelle condizioni più estreme. I grandi giri di parole diventano inutili e gli orpelli di certa accademia vanno a farsi fottere davanti all’improvvisazione, all’istinto, alle parole d’una conversazione in un fumoso bar, in auto, in bus, al tavolo d’una tavola calda, al suono d’una musica blues o jazz in un locale malfamato.
Il viaggio è appena iniziato e già sappiamo che ne vedremo di tutti i colori, senza fretta, senza limitazioni di sorta, senza impacci: tutto passerà davanti agli occhi come in un film, proiettato poco dopo il nostro naso, eppure intoccabile, visione o delirio, poco importa. Le sequenze potranno coinvolgere o farci restare totalmente indifferenti o magari, al limite, farci sussultare ogni tanto sulla comoda poltrona così avvolgente e morbida. Non ci sono domande, non ci sono risposte, né giudizi né accuse, nè ragioni nè alibi, nè vincitori né perdenti: sarà soltanto la vita che scorre… in modo inspiegabile, avvincente, inimmaginabile, entusiasmante, casuale. La luce del tramonto irradierà un po’ di colore sulle carcasse delle auto, sulla ruggine d’un cesso, su una tolla di benzina ma… solo per poco. Gli occhi penetranti di Kerouac daranno uno sguardo fuori dal finestrino, giusto per capire dove si trova, ma con la mente già proiettata verso la nuova frontiera da oltrepassare, il nuovo confine da varcare, la nuova linea d’orizzonte da immaginare. Sempre guardando avanti.
Una vita che è tutto un programma: lavora come benzinaio, si imbarca come sguattero su un mercantile diretto in Groenlandia, se la spassa tra bar, bordelli e locali jazz, si appassiona a Benny Goodman e al grande Charlie Parker. Tanto per rendere l’idea.
E quella giacca un po’ sgualcita, la camicia bianca con l’ultimo bottone del colletto slacciato, la cravatta allentata come dopo una lunga e faticosa giornata, con quella faccia da… Kerouac, e dietro quegli occhi chissà cosa: l’immagine d’un poeta che ha inventato la poesia americana moderna come ha più volte scritto Fernanda Pivano, d’uno scrittore che ha affermato «se non mi fossi guadagnato da vivere scrivendo avrei fatto il funzionario postale per poter andare in giro quando volevo», d’un uomo che ha raccontato solo «cose vere».
Sempre «on the road», tra malessere, rivolta e serietà, e nella vita nel frattempo «la pioggia cadeva sferzante… la strada principale piena di fango… un vicolo cieco… non si vedeva anima viva e non c’era una luce a pagarla… impantanati». Le «grandi pianure di artemisia scorrevano via veloci… orizzonti azzurri si aprivano nel cielo» e gli occhi erano attratti dalla «luce del crepuscolo», dall‘«alba celestiale», da una «grande insegna al neon che mandava un bagliore rosso», oltre «il muro di nebbia» quasi «immersi in un sogno», a fare i conti «nel cuore della notte», a bordo di un’auto «rombando la vallata» mentre «una bellezza bionda seduta tra due uomini senza uno straccio addosso» faceva sbandare i camionisti.
Tutt’intorno quell’ «aria fresca e violetta, rugiada e nuvole d’oro cangiante» ma subito si deve sbattere il muso contro la dura realtà «trovare i soldi per la benzina»: «Non avevamo soldi… Girammo per le stradine strette e romantiche con i nostri fagotti di stracci. Tutti quelli che incontravamo sembravano comparse malconce, attricette appassite, controfigure disincantate, piloti di go-kart, intensi personaggi californiani con la loro tristezza da limite estremo del continente, uomini belli e decadenti alla Casanova, bionde da motel con gli occhi gonfi, puttane da bar, papponi, puttane da strada, massaggiatori, fattorini d’albergo- un branco di derelitti, e come si fa a guadagnarsi da vivere in mezzo a gente come quella?».
E lui racconta i suoi sogni a Marylou, la bellezza bionda, che «era proprio una puttana» e ci passa intere notti a letto insieme e le racconta del «grande serpente del mondo che giaceva raggomitolato nella terra come un verme nella mela e che un giorno sarebbe saltato fuori in cima a una collina che da quel momento in poi si sarebbe chiamata Collina del Serpente per poi srotolarsi giù nella pianura, lungo cento chilometri, e divorare tutto quello che trovava sulla sua strada» e via di seguito, come in una visione o nel delirio d’un uomo fuori di sé, affamato e agonizzante nella sua solitudine. Le vecchie ferite, quella sensazione di essere il «figlio perduto», capace solo di ubriacarsi e attaccare briga. L’estasi «nell’entrare di netto nelle ombre eterne superando il tempo cronologico e osservare stupefatto da lontano lo squallore del regno mortale, nella sensazione della morte che incalzava… correre… verso un trampolino dal quale si tuffavano gli angeli per volare nello spazio sacro del vuoto della non-creazione, nel potente e inconcepibile fulgore che si sprigionava dalla luminosa Essenza della Mente, con gli innumerevoli regni dell’oblìo che si aprivano nel magico firmamento del paradiso».
«Addormentarsi e svegliarsi un milione di volte… un senso di felicità dolce, travolgente, come una grossa iniezione di eroina nella vena principale; come il brivido di un sorso di vino nel tardo pomeriggio» e dalla finestra della stanza «entrava il profumo di tutto il cibo di San Francisco, succulenti menù, roast beef, aragoste, pollo allo spiedo, costolette arrostite, patatine fritte… la San Francisco dei miei sogni… la nebbia gelida che mette fame, e il pulsare del neon nella notte dolce, il ticchettìo dei tacchi delle belle ragazze, le colombe bianche nella vetrina di una drogheria cinese…».
Ci fosse stato un motivo per andare in giro con Dean, capelli arruffati, occhi iniettati di sangue, sconvolto nel cervello e «circondato dalle valigie logore della sua vita orfana e febbrile, avanti e indietro per l’America innumerevoli volte, un uccello sfinito»... ci fosse stato un motivo per rimanere nel proprio buco ma «non c’era più niente dietro di me, tutti i ponti erano rotti e non me ne fregava niente di niente».
In fin dei conti, desolatamente solo, assolutamente isolato come quando s’era ritrovato sulla cima d’una montagna ad avvistare incendi, a passare il tempo tra estasi, visioni, inquietudini e lo scorrere avventuroso della vita quotidiana; o ancora come quando s’era chiuso in ritiro sulle coste californiane di Big Sur in una estate solitaria ad ascoltare, come naufrago di questa esistenza, le «voci» dell’oceano. E saranno suoni del mare, dell’oceano Pacifico plasc, sponda, rimbombo, sciou, sabbia e sale, «gli scogli diventano aria, gli scogli diventano acqua»... sputa le tue idee… schianto e schiuma, «si increspa, si increspa, borbotta/il fondo di squalo sabbioso»... il mare siamo Noi … e quell‘«incessante rimbombare rimbombare/e avanzare sulla sabbia»... Divina è la sostanza su tutto il mare… «È tutto aggrovigliato, cambiato,/sale & goccia la sabbia/& alghe & acquosi cervelli/ impigliati»... «circolare immensa maledizione»... «mare vibra ritmo/scroscio espone grotta/ pendi soffia fischia» e… «Noi cerchiamo di andare avanti/confidando in noi stessi, l’aiuto/ non viene mai troppo presto/da chissà dove e chissà cosa/il buon cielo può avere/suggerito di prometterci»... «Nemmeno il mare può impedirmi di/scrivere qualcosa da leggere quando sarò vecchio».
«Non siamo riusciti a intrometterci nell’eternità/nonostante un miliardo d’anni di tentativi-/un granello di sabbia possiede/Tremila mondi di gioia-/per non parlare di me- Ah Mare» ... rolla, brucia nel sale, scroscia, frange, rimbomba, gelatina di pensiero e dolore primordiale. «La mia vuota anima d’oro/sopravviverà al tuo sedimento salino» perché «Non c‘è tempesta tanto immobile & orrenda/quanto la tempesta interiore»... Ah Mare… splarsc sciou scirsc… silenzio … ma… «Sei Vergine tu che cerchi di scandagliare me…?».
«Io sono un poeta ma scrivo righe, paragrafi e pagine su pagine» in ascolto del ritmo del mare, a zonzo per le strade più disparate a consumare la vita, il linguaggio di ogni giorno tra bar e quartieri malfamati, il linguaggio della gente comune in viaggio per Città del Messico, per la California o per un luogo non ancora contrassegnato su una carta geografica, e tutto raccontato con parole uscite d’istinto, frasi brevi, semplici sguardi che poi così semplici non sono mai, versi scritti con autentiche fulminazioni quasi ad annusare avidamente gli odori e a percepire i più insondabili rumori, vibrazioni dell’anima, tra lagune acquitrini del vivere comune e lo schianto sulle scogliere delle onde dell’oceano… perché «nessuna parola umana può rivelare/l’emblematica pena più antica».
Una necessità vitale di ridare vita, energia e movimento, alla lingua seguendo i suoni, con una visione rivoluzionaria, originale, capace di far esplodere nelle pagine d’un racconto di viaggio l’espressività, la potenza della sua voce poetica: una incessante reinvenzione dell’uomo, dello scrittore, del nomade che può muoversi in ogni atmosfera, e sempre convoglia in un vortice di sensazioni, in una vertigine immane che pare dissolvere ogni luogo comune, quasi un elisir vitale per chi è sempre alla ricerca, sempre in viaggio, sempre in esplorazione, dentro di sè e fuori dal suo involucro.
L’ultimo fragore oceanico, l’ultimo maledetto hotel, l’ennesima avventura, la prossima mirabolante attraversata, raccontano di un angelo desolato, d’un vagabondo, d’un narratore, d’una stagione culturale, e ingigantiscono la sua personalità. Le tracce del passaggio e i segni profondi rimangono solo quando l’Uomo è riuscito, con le sue parole, a incidere nel suo tempo e anche oltre il tempo concessogli su questa terra.

«La mia opera è composta di un unico grande libro» scrisse Kerouac, una ricostruzione sempre in bilico, tra il reale e il visionario, d’uno scrittore che è stato «carne e sangue» della sua generazione (non ho mai sopportato le etichettature d’uno scrittore… Kerouac fu Kerouac, punto e basta). La sua opera è il diario d’un uomo e di uno scrittore enigmatico, onirico, inquietante, profetico, ribelle, emarginato, isolato, affamato, ubriaco nei fumosi locali di San Francisco, estasiato davanti le montagne della California, in meditazione notturna nei boschi, alla ricerca delle proprie radici familiari negli archivi francesi, raccoglitore dei versi di tutti i poeti del mondo custoditi in un armadio insieme alle sue traduzioni. Capace, ancora una volta, di sorprendere, e il suo viaggio diventa «emozione»: la bella bionda può affascinare ed ammaliare, tra una peregrinazione e l’altra, l’amico può essere «compagno» d’avventura, l’uomo può trasformarsi in genio letterario che compone haiku, pezzi teatrali, saggi, poesie, che racconta attraverso l’alter ego Jack Duluoz, e i ricordi diventano una miscela di dolce e amaro, di acido corrosivo e torta di mele.
Il rituale della scrittura è sempre lo stesso: a matita e a lume di candela.
La scrittura creativa, la tecnica della «scrittura automatica» e della «prosa spontanea» quasi con una deriva spirituale oltre l’umano, un lirismo assoluto che genera una nuova espressione: prosa, poesia, puro pensiero e visione non hanno più importanza perché vengono dirottati su qualcosa di più «grande», che sta al di sopra, oltre… forse… la vivificante illuminazione. Chissà.
Kerouac ha vivisezionato la natura umana, riscoperto la moltitudine delle caratteristiche degli uomini e delle donne nel clima della sua stagione e del suo tempo, ha osservato la bellezza e la prodigiosa diversità della natura e del mondo circostante: e la sua parola, il suo suono, la sua armonia ancestrale è stata sempre «pura poesia».
In costante esplorazione dei «sotterranei» della vita, e l’oscenità non è più oscenità, la violenza, la droga, il sesso, la velocità d’un auto nella notte più buia, il jazz e l’improvvisazione, l’istinto d’un uomo e d’una donna, l’attrazione e la repulsione come due facce della stessa medaglia: singolare miscela d’un vivere che è alla ricerca d’un «senso», del «senso» d’una mano che accarezza, d’un pugno che spacca il labbro, della mente che partorisce parole e versi all’impazzata, della stupefacente allegoria di se stesso, della devastante constatazione d’un crollo fisico che Kerouac avverte su se stesso e non solo guardandosi nello specchio infranto d’uno stupido hotel o chiedendolo, quasi fanciullescamente, a Fernanda Pivano.
A frugare nel microcosmo umano si può trovar di tutto, a disincagliarsi dalla moralità comune si corrono dei rischi ma e non c‘è «nulla di pericoloso ad incontrare gente nuova» nel susseguirsi degli avvenimenti, nelle iniezioni di nuovo spirito, negli slanci improvvisi, negli eccitamenti non previsti, nei brividi che corrono lungo la schiena.
Le finestre ricevono nuova luce e le parole fanno meno fatica ad uscire, a ritrovare il loro spazio: il suono dell’oceano, il vento, il rosseggiare d’un cielo, le nuvole che sembrano spuma primordiale diventano l’occulto. La connessione tra ciò che è intero e ciò che è lacerato diventa l’ultimo momento prima della morte, l’estremo tentativo di far tornare indietro il confine del «finito» per catapultarsi in un’atmosfera ancora da decifrare.
La possibilità di penetrare nelle zone oscure conduce ad uno stato esistenziale disperante, senza limiti, senza punti d’appoggio, senza ancore da gettare nel fondo.
Tra le crepe dei muri scrostati, tra le fenditure d’un improbabile «luogo ignoto», e nell’arido della terra può cadere, a volte, qualche goccia, può udirsi, raramente, qualche suono celestiale.
La pelle porta con sé il suo incanto, la simbolica vis amoris, ciò che attira sul fondo, e noi cerchiamo di risalire, di vivere, di scampare all’annegamento; a cercar le spiegazioni senza renderci conto di avere tra le mani la soluzione… l’erba amara della vita, il veleno naturale, l’ultimo stimolante, un sedativo per finire.
«I corpi li unisce il piacere, le anime la pena» ho letto tempo fa e mi dispiace non ricordare il titolo del libretto che era assai interessante. Non ha importanza il nome che diamo alla «porta» che ci conduce in un dolce ritrovo, ciò che conta è che ci sia una «porta»: l’angoscia è il muro.

Gli incontri, i gesti, i viaggi, le strade, i luoghi sembrano perdere la loro peculiarità, tutto viene distrutto, senza tabù, e i fantasmi non rientrano dalla finestra: il mondo così com‘è, talvolta esasperato, si fa disgustoso, desolante e tragico, lurido e sordido, lirico e divino, tragico e celestiale e mai sembra prepararsi alla catastrofe ma, al contrario, all’ultima illuminazione, all’ultimo rito propizio, alla catarsi possibile.
L’effetto delle parole che sgorgano automatiche sotto l’influsso della benzedrina e del caffè in quantità industriale produrrà On the Road con quella mania di scrivere in continuazione e gettare alla fine tutto ciò che non è riuscito a «vivere». Con il successo di On the Road, Kerouac diventa una celebrità, viene identificato come il simbolo d’una generazione e vine chiamato per interviste e apparizioni televisive. I vagabondi del Dharma viene scritto in dieci notti. Nel 1956, in dieci giorni e sempre aiutandosi con la benzedrina, scrive Visioni di Gerard, il fratello morto a soli nove anni. Già nel 1959 quando inizia a scrivere Viaggiatore solitario e Il libro dei sogni beve un litro di whisky al giorno, l’equilibrio psicologico è ai limiti del collasso, l’uomo affoga nell’alcol, la sua immagine di scrittore demolita dai critici. Passa settimane di solitudine a Big Sur tra visioni e deliri, vive per un mese in un lurido appartamento dove scrive Angeli della desolazione; Ginsberg gli consiglia la psilocibina, droga estratta da un fungo del Centro America. Nel 1965 Satori a Parigi viene scritto in una settimana: cognac a go-go e chissà cos’altro. Invitato a Milano da Mondandori, per la pubblicazione di Big Sur nel settembre del 1966, esce dall’aeroporto già completamente ubriaco, vittima sacrificale della stampa impietosa e dei commenti dei giornalisti che si possono ben immaginare. Nel 1967 su un rotolo di telescrivente, in tre mesi, scrive Vanità di Duluoz. Nel 1969 il sangue pare distruggere Kerouac, ventisei trasfusioni non sono sufficienti e Ti Jean muore alle cinque e mezza. Quarantasette anni.
Respinto ai margini, i rapporti spezzati, il trauma irrisolto e sempre portato con sé, il circolo dell’inconscio, quel pervicace rimanere sul terreno dell’insostenibilità del vivere in modo codificato, la tragicità spietata di una vita ai limiti della linea di confine tra il reale e il sogno, una esplosione violenta di energia, l’autolesionismo, la terribile sofferenza nel sapere di dover pagare un tributo a quella generazione, la parola come un sigillo maledetto impresso sulle rocce californiane.
L’assurdità della scelta, l’umiliazione e l’offesa non contano niente, niente ha importanza per un «angelo della desolazione», per un angelo della morte che come «l’ultimo vagabondo» cerca disperatamente un luogo dove portare avanti il suo lavoro, il suo mestiere degradato: ed è lì, alla fioca luce d’una candela e d’una vecchia matita mezza spuntata che la parola torna «vergine».
La lunga agonia non è più agonia, è un viaggio incessante, un vagabondaggio per questa vita malsana, triste, ipocrita: è agghiacciante vivere «davvero» ogni momento come se fosse l’ultimo. Paradossalmente l’opera è compiuta, il baccanale diventa vita propria, ciò che appartiene a Kerouac è solo suo. Non rimangono che le parole: e la parola può suscitare l’anima. Anche dopo la polvere a cui è destinato il «corpo».

Massimo Barile



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