Con questo racconto è risultata 2^ classificata – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Il Club dei Poeti 2010
Questa la motivazione della Giuria: «Nel racconto “Il profumo della libertà” sono fissati, con una scrittura che fa “assaporare” le emozioni, i ricordi indelebili che hanno segnato la vita di un padre ormai anziano e malato ma ancora capace di resistere al male che lo indebolisce sempre più e rimanere lucido. Come quando ricorda il suo vissuto all’amorevole figlia e racconta la famosa storia della prima volta che aveva mangiato la cioccolata offertagli da un soldato americano durante il periodo della guerra: “La cioccolata più buona… perché profumava di libertà”». Massimo Barile
«Il profumo della libertà»
Osservo mio padre scartare, con cura, la barretta di cioccolata.
Le sue mani si muovono incerte e tremano leggermente, sintomi che “il lupo” è in agguato..
Rimango ferma, seduta accanto a lui, vincendo la tentazione di aiutarlo. Mi limito a regalargli un sorriso di incoraggiamento.
Mio padre ha compiuto ottant’anni, il suo fisico, minato dalla malattia, combatte una battaglia dagli esiti incerti.
Non si arrenderà facilmente e “il lupo”, come chiama lui il male che lo sta minando, dovrà usare ogni astuzia per vincerlo.
La sua mente lucida continua ad elaborare pensieri e piani per il futuro.
Mio padre è riuscito a scalfire lo strato di carta pergamenata e apre delicatamente la sottile carta stagnola che avvolge la barretta, come si trattasse di una statuina Thun.
Chiude gli occhi, di un azzurro ancora fulgido, nonostante l’età.
Il profumo della cioccolata invade la stanza, regalando ad entrambi una sensazione di benessere.
«La prima volta che ho mangiato la cioccolata è stato quando sono arrivati gli americani» ricorda, accarezzando con dolcezza la barretta.
Sorrido.
Conosco questa storia a memoria, ma adoro ascoltarla.
«Tu eri stato “sfollato” a Roma» mormoro per invogliarlo a continuare.
Raddrizza le spalle e per un istante il suo sguardo si illumina come quello di un fanciullo.
Il bambino che era allora.
«Lo sai abitavo in un paese che si trovava sulla Linea Gotica” spiega, come se io non conoscessi già quella parte della sua vita “gli americani avanzavano, i tedeschi scappavano e tutti bombardavano, correvamo da un rifugio all’altro come vespe impazzite, senza niente da mangiare».
«E poi vi portarono tutti a Roma».
Annuisce.
«Sì, ma non in gita come fanno adesso le scolaresche” scherza “ma stipati su un camion. Ricordo che io, la mamma e nonna Ida portammo con noi solo un vecchio materasso».
L’atmosfera di allora, l’assurdità della guerra in ogni tempo, in ogni luogo fanno capolino nella stanza.
Immagino mio padre, un bambino di dieci anni magro, sporco, abituato a muoversi con i sensi all’erta.
«Si mangiava sempre brodo di fagioli, più acqua che fagioli e c’era continuamente un rumore di sottofondo come un nugolo di mosche che ronzano» ormai è tornato con la mente in quel luogo «tante persone ammassate negli studi di Cinecittà, di paesi diversi, una cacofonia di suoni a volte incomprensibili».
I bambini però, pensavo io, ricordando quanto mi aveva raccontato, loro parlavano una lingua universale e avevano subito fatto amicizia e riempito quei luoghi freddi e impersonali con le loro risate, i giochi, le voci infantili.
Malgrado la morte che ti camminava al fianco ogni giorno, malgrado l’orrore, malgrado la guerra.
Mi riscuoto, mio padre continua a raccontare.
«Ti addormentavi in un posto alla sera e ti svegliavi qualche metro più in là la mattina perché i pidocchi erano talmente numerosi da portarti a passeggio. Per ucciderli ci riempivano di insetticida come le zanzare».
Ride e io con lui.
Ironizzare è un modo per sopravvivere all’orrore.
«Incontrai il soldato americano mentre passeggiavo nel cortile» mio padre prende la cioccolata e la spezza.
Un pezzetto lo porge a me e l’altro lo appoggia sul tavolino di fianco alla poltrona.
Richiude con cura la cioccolata rimasta.
«Camminava al di là della recinzione» continua «io lo salutai, sai come fanno i bambini che hanno l’abitudine di salutare tutti, anche le persone che non conoscono. Lui mi sorrise».
Mio padre prende il pezzetto di cioccolata e inizia a mangiarlo a piccoli morsi.
Io, intanto, ho ingoiato il mio e lo lascio sciogliere lentamente in bocca.
«Sembrava che continuasse il suo cammino» mio padre è ancora con la mente a quel giorno «poi cambiò idea, mi chiamò e allungò qualcosa attraverso la recinzione che delimitava la nostra zona».
«La tua prima barretta di cioccolata« mi intrometto nel racconto, che ho ascoltato tante volte “la più buona cioccolata del mondo”.
Mio padre annuisce con forza.
«E lo sarà sempre» nella sua voce traspare una nota di nostalgia «dalle poche parole italiane che pronunciò e dai gesti capii che aveva un figlio della mia età e sono certo una profonda nostalgia».
«Trovarsi lontani dalla famiglia è sempre molto difficile» ammetto.
«Non raccontai della barretta di cioccolato a nessuno, neppure alla mamma” confessa “cercai di fare durare quel dono prezioso il più possibile. Poco dopo ci ricondussero a casa, la guerra era finita e mio padre era tornato».
Tace e io non so cosa dire.
Conosco il seguito, il ritorno in un paese martoriato dove non esisteva più casa, ridotta a un cumulo di macerie, e molti amici erano morti.
La famiglia però era riunita, la guerra finita, la speranza in un futuro migliore integra, nonostante tutto.
Rimaniamo per un po’ di tempo in silenzio, assorti, assaporando l’aroma della cioccolata che pervade l’aria e i nostri sensi.
«Che ne dici di una bella passeggiata al parco?» propongo, attirata dal sole invitante che filtra dalle tende.
«Mi sembra una buona idea».
Aiuto mio padre ad alzarsi e lo prendo sottobraccio.
Indossa la sua giacca più leggera, l’aria è frizzante, ma non fredda.
Io mi avvolgo uno scialle variopinto attorno alle spalle.
Fuori la giornata è luminosa, i raggi del sole scaldano i nostri visi.
«Però ammetti che anche la cioccolata che ti ho portato oggi è buona» lo stuzzico.
«Non male» concede, magnanimo.
Mio padre ama la cioccolata fondente, per lui peperoncino, cannella, zenzero sono invenzioni moderne davanti alle quali storce il naso.
«Sai, si chiamava…».
«Cosa?» domando, distratta da un gruppo di bambini intenti a giocare a nascondino.
«Era stampata sulla carta, a grosse lettere, per me la cioccolata è sempre stata…» e intanto adocchia una panchina.
Si siede con fatica, il nome della cioccolata l’ha portato via il vento.
Un bambino grida «tana!» con il volto arrossato e mio padre sorride.
Ci sono ricordi che rimangono indelebili nella nostra mente, collegati ad eventi che segnano in modo definitivo la nostra vita.
Guardo mio padre che assapora questo attimo di pace.
Il volto rivolto verso i tiepidi raggi del sole, gli occhi chiusi e un’espressione rilassata sul viso.
Il “lupo”, anche se in agguato, concede pause e perde battaglie.
Troveremo ancora il tempo di mangiare barrette di cioccolata.
Mio padre apre gli occhi e mi regala un sorriso.
«Profumava di libertà» sussurra e mi stringe piano una mano.
Katia Brentani