Katia Brentani con l’opera «Ritorno a Flavigny» si è classificata al 1° posto alla XV Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2011
Questa la motivazione della Giuria: «Nel racconto “Ritorno a Flavigny” Katia Brentani riporta lo struggente recupero memoriale d’un uomo che, dopo molto tempo, ritrova un frammento della sua vita. Le simboliche scatole ovali di alluminio contenenti “Anis de Flavigny”, che ogni anno gli venivano inviate dalla Francia fin dal 1945, rappresentano il legame con il passato, il sottile filo della memoria che mantiene vivo il ricordo della donna che lo aveva salvato dall’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale. Nel momento in cui il dolce regalo non arriva più, tutto appare chiaro. Il finale a sorpresa rende ancor più struggente il ricordo di quel breve amore dal quale lui è scappato e fa risplendere l’immenso amore di quella donna salvifica. Con una scrittura limpida, Katia Brentani offre una storia pervasa dalla forza dell’amore, dall’importanza della memoria e dal destino della vita al quale nessuno può sfuggire».
Massimo Barile
Ritorno a Flavigny
Carlo seguì, distratto, il telegiornale delle tredici e trenta in televisione, con l’orecchio teso all’arrivo del postino. Alle quattordici in punto il postino suonò alla porta e gli consegnò una rivista, a cui era abbonato, e le consuete bollette da pagare, ma nessun pacco. Nel pomeriggio, dopo un sonnellino, tentò di aggiustare un vasetto che piaceva molto a Teresa, sua moglie, morta da sei anni. I cocci stazionavano sulla credenza della cucina da alcune settimane. Con il tubetto della colla in mano, cercò di ignorare il leggero tremito che accompagnava i suoi gesti da un po’ di tempo, mentre, vigile, attendeva di sentire suonare, di nuovo, il campanello. A volte i pacchi li consegnavano nel pomeriggio. Alle otto di sera, con il vasetto incollato riposizionato sulla credenza, dovette arrendersi e ammettere che non sarebbe arrivato nulla dalla Francia. Carlo andò in camera e aprì l’armadio: impilate sul fondo c’erano numerose scatole ovali, di alluminio, con la scritta anis de Flavigny e l’immagine di una pastorella e un pastore sul coperchio, in atteggiamento, al tempo stesso, intimo e pudico. Il penetrante odore di anice gli solleticò le narici..
Contò le scatole mentalmente, anche se conosceva il numero esatto: 65. La prima scatola l’aveva ricevuta nel 1945, il quattro marzo.
Richiuse l’anta dell’armadio e si avvicinò al comodino, dove si trovava il telefono. Compose il numero di suo nipote Lucio, il suo nipote preferito, quello con i riccioli di un caldo color castagna e il sorriso sulle labbra.
«Ciao, nonno Carlo» lo salutò allegramente Lucio.
«Ciao, ho bisogno che mi accompagni a Flavigny, in Borgogna».
Una settimana dopo stavano percorrendo, in macchina, una strada stretta che si snodava, a serpente, nella campagna francese.
Lucio guidava chiacchierando, mentre Carlo si guardava attorno, tentando di riconoscere i luoghi che non vedeva dal 1943.
A un primo sguardo a Carlo non sembrò che il panorama fosse molto cambiato. I francesi erano bravi a mantenere intatto il territorio e le loro tradizioni.
«Lo sai che Flavigny è stato il set di un film famoso?» Lucio lo riscosse da quel viaggio a ritroso.
«Un film?».
«Sì, Chocolat con quell’attore bello per cui tutte le donne impazziscono e quell’attrice francese per cui, una buona fetta di noi maschietti, farebbe follie, sai il fascino francese».
Carlo increspò le labbra, a Lucio non mancava il senso dell’ironia. Doveva averlo ereditato da sua nonna Teresa, lui era un tipo più malinconico.
Tornò a guardare fuori dal finestrino e all’improvviso lo vide. Provò un tuffo al cuore riconoscendo il luogo dove era rimasto accucciato, pregando Dio di concedergli una morte veloce.
«Accosta» disse, con la gola secca.
Lucio fermò l’auto sul ciglio della strada e Carlo scese, non in fretta come avrebbe desiderato, la lunga permanenza in macchina aveva intorpidito le sue gambe.
«È qui che è accaduto?» domandò Lucio, guardandosi attorno: campi a perdita d’occhio, una vecchia casa colonica con vasi di fiori nel cortile e un boschetto di alberi poco distante.
Carlo annui, durante il viaggio in aereo aveva raccontato a Lucio quello che gli era accaduto, a vent’anni, in Francia nella primavera del 1943.
«Mi ero nascosto vicino a un tiglio» Carlo indicò un punto preciso «i tedeschi mi avrebbero trovato e lo sai cosa accadeva a chi era ebreo».
Lucio guardò la casa colonica, nel cortile alcune galline razzolavano, becchettando fra l’erba rada.
«La ragazza quindi abitava lì» disse, fissando le imposte aperte.
Carlo non rispose ma si diresse, deciso, verso la casa colonica, catapultato, di colpo, nel passato, di nuovo raggomitolato dietro il tiglio, con la testa fra le gambe, sussurrando all’infinito una preghiera mentre le voci si avvicinavano. Ordini impartiti in tedesco, con tono perentorio, accompagnati dal ringhiare dei cani.
Un tocco lieve gli aveva fatto alzare lo sguardo di scatto e i suoi occhi, pieni di terrore, avevano incontrato quelli di una ragazza che doveva avere qualche anno meno di lui, forse diciassette o diciotto. I capelli neri tagliati corti e due occhi da cerbiatta in un volto pallido, dall’ovale perfetto.
«Tu viens» aveva bisbigliato, prendendolo per mano.
Lui l’aveva seguita fino a una cantina umida ed era rimasto nascosto sotto le assi del pavimento coperte dai sacchi di patate. Con il cuore in tumulto aveva sentito i tedeschi bussare alla porta e la voce tranquilla della ragazza rispondere: «Rien».
«Nonno, non credi sia il caso di bussare?» lo canzonò Lucio «non possiamo rimanere davanti alla porta tutto il giorno». Quante possibilità esistevano che lei abitasse ancora in quella casa?
Carlo suonò il campanello e, un attimo dopo, comparve sulla soglia una giovane ragazza con i capelli corti e gli occhi da cerbiatta. Carlo provò un tuffo al cuore.
Lucio parlò, con disinvoltura, in francese le scuole che aveva frequentato almeno erano servite a qualcosa, spiegando alla ragazza chi erano e il motivo della loro visita.
Carlo provò disagio, il suo francese non era mai stato fluente e, arrugginito dagli anni, suonava strano.
«Si chiama Désiré ed è la nipote di Thérèse, la ragazza che ti ha salvato la vita» tradusse Lucio «sapeva che prima o poi saresti arrivato».
Carlo fissò Désiré negli occhi e si ritrovò nella cantina umida, dove aveva trascorso un mese in attesa di poter trovare un’occasione per rientrare in Italia. Thérèse aveva contattato il parroco del paese che le aveva promesso aiuto.
Thérèse che adorava i confetti, quelli di Flavigny, prodotti dalla piccolo fabbrica dell’abbazia medievale: gli anis, gli anici, piccoli semi di anice verde ricoperti di strati di zucchero. Confetti rotondi racchiusi in scatole di alluminio dalla forma ovale, da gustare senza fretta, facendoli sciogliere lentamente in bocca, senza masticare.
Una lacrima rigò il suo volto.
«Perché Thérèse non ha mai indicato il mittente e l’indirizzo sul pacco?» domandò «È ancora viva?».
Dèsirè abbassò la testa, poi la alzò, fece un sospiro, e parlò in fretta, mentre Lucio la seguiva, concentrato.
Beaucoup de temps… rencontre il fiume di parole che usciva dalla bocca di Dèsirè fece emergere, violenti, i ricordi: le labbra morbide di Thérèse, il suo respiro che profumava di anice e restava, imprigionato, fra le pareti umide della cantina a fargli compagnia fino al suo ritorno.
Thérèse che sussurrava: «Moi petite dragée», mio piccolo confetto, coprendogli il viso con baci lievi.
«Nonno» Carlo si riscosse, immaginando che suo nipote fosse convinto che la senilità lo stava rimbambendo.
«Thérése è morta quattro mesi fa» lo informò Lucio «e la madre di Dèsirè, la figlia di Thérèse è morta dandola alla luce, l’ha cresciuta sua nonna».
«Come si chiamava sua madre?» chiese Carlo, mentre nella sua mente si insinuò un pensiero assurdo, che gli mozzò il respiro.
«Carlà, come suo padre, il ragazzo italiano che Thérése ha amato» rispose Lucio, impacciato.
Carlo capì che ora tutto aveva un senso: le scatole di confetti inviati ogni anno, il giorno in cui lui e Thérèse si erano incontrati, il suo non voler capire, per pigrizia, per quel aver voltato pagina dietro cui si nascondeva, felice però di ricevere ogni anno quella scatola di confetti, segno tangibile che lei era viva, stava bene e lo pensava. Vanesio ed egoista.
Non immaginava però che Thérése avesse avuto una figlia da lui. Quando era fuggito dalla Francia, con l’aiuto del parroco del paese, si erano salutati in fretta, Thérèse aveva trattenuto il più a lungo possibile le sue mani, ma non aveva confessato di essere incinta.
“Forse non lo sapeva ancora” pensò Carlo. In qualche modo doveva aver imparato dove abitava e aveva iniziato a spedirgli le scatole di confetti, gli anis di Flavigny.
Carlo si coprì il volto con le mani, mentre ripensava ai suoi vent’anni, alla guerra finita, a quella ragazza lontana che gli aveva salvato la vita e fatto conoscere l’amore.
E alla sua impazienza, al desiderio di recuperare il tempo perduto, a Teresa, sua moglie, che forse lo aveva attratto anche perché portava il nome della ragazza degli anis di Flavigny.
Carlo tolse le mani dal viso e si asciugò le lacrime.
«Ho una nipote» mormorò, stringendo, impacciato, una mano della ragazza: una piccola mano bianca, senza asperità racchiusa nella mano rugosa di un vecchio smarrito, come il giorno in cui Thérèse aveva toccato, lieve, una sua spalla.
«Vorrei mi parlassi di Thérèse e di tua madre Carlà, di mia figlia» nella sua voce c’era un’urgenza, mista a rammarico per quanto aveva perduto per sempre.
Lucio, spiando il volto pallido del nonno, gli sfiorò la mano, intrecciata a quella della ragazza, con una carezza.
Désiré iniziò a raccontare di Carlà, sua madre e di Thérése, sua nonna, mentre le scatole di alluminio, racchiuse in un vecchio armadio, lontano chilometri da lì, tintinnarono allegre, rinate a nuova vita.
L’odore di anice salì dalla cantina umida e invase la stanza, mentre un vento leggero mosse i candidi capelli di Carlo, disperdendo nell’aria parole d’amore: «Moi petite dragée», mio piccolo confetto.
Katia Brentani