La foresta nell’anima

di

Lamberto Motta


Lamberto Motta - La foresta nell’anima
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 134 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-2222

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In copertina: Helmut il drago illustrazione di Loretta Motta


Prefazione

La raccolta di narrativa dal titolo “La foresta nell’anima”, di Lamberto Motta, comprende sette racconti eterogenei che mettono in risalto la capacità dell’Autore di spaziare attraverso vari generi letterari.
Nelle sue narrazioni ritroviamo racconti dal sapore favolistico come ne “La foresta del Drago” e “Il mondo all’incontrario” e, poi, il racconto che parla di vampiri e licantropi, strettamente collegato a storie d’amore come ne “I Figli delle Tenebre” e, ancora, le intricate vicende di un gruppo musicale metal rock con la presenza di uno strano rito macabro come ne “La voce nel buio” e “La danza del teschio”; infine, il racconto visionario onirico con surreale presenza di una fatale fanciulla che ha come titolo “Di notte una ragazza” e, in ultimo, il racconto dal sapore storico che riporta la tormentata relazione sentimentale tra Gian Lorenzo Bernini e la bella Costanza.
Come è facile comprendere, ci troviamo davanti ad una miscela di generi letterari ben assortita, eppure, nei racconti di Lamberto Motta è sempre presente un sottile filo sotterraneo che collega l’intera raccolta: la presenza dell’amore nella sua concezione più ampia e multiforme, sia esso l’amore di un drago per una principessa; l’amore di un ragazzo per una donna licantropo; l’amore per una ragazza cieca definita un’anima nera infernale, che esegue una danza macabra con un teschio che porta sempre con sé e, infine, l’amore infatuazione per una bellissima fanciulla che si presenta con le sembianze di una gatta con gli occhi verdi.
Lamberto Motta racconta tutto ciò con una scrittura frizzante ed accattivante, riuscendo sempre a incuriosire il lettore riguardo gli eventuali sviluppi delle vicende e lasciando aperte possibili prospettive che, a volte, risultano sorprendenti e decisamente giocate su un piano fantastico-onirico.
La raccolta narrativa “La foresta nell’anima” si legge, quindi, con estrema facilità e riesce a coinvolgere fino all’ultimo racconto, pur affrontando tematiche molto diverse tra loro e, per questo motivo, più difficili da far coesistere: la narrazione è sempre “viva” con qualche tocco di sensualità, con immersioni nel fantastico e con riferimenti alla realtà giovanile sempre costellata da intricate relazioni sentimentali.
La capacità inventiva di Lamberto Motta propone una visione personale di tutto ciò che circonda l’essere umano e della stessa dimensione sognante: e, infine, si avverte fortemente che, su ogni storia, aleggia un alone di mistero incombente, tra atmosfere decadenti e percezioni intriganti.
La sua anima letteraria sa essere misteriosa e vampiresca, macabra e sensuale, tenebrosa e sognante: in un continuo alternarsi tra il Bene e il Male.

Massimo Barile


La foresta nell’anima

LA FORESTA DEL DRAGO

C’era una volta un castello, il più splendido che ci fosse mai stato, e c’era una principessa, la più bella che si fosse mai vista. Nel castello, e in tutto il reame di Belmondo, proprio grazie alla dolcezza e alla saggezza della principessa, chiamata Rosaspina, regnavano la pace e la concordia universali. Da anni ormai non c’era più il ricordo di una guerra o della benché minima discordia. I sudditi amavano il loro re, ma soprattutto veneravano la loro principessa e questo regalava loro una gioia e una serenità che non avevano eguali. Le giornate trascorrevano nei passatempi più piacevoli. C’erano cibo e benessere per tutti e anche lavorare non era una necessità, ma un divertimento. Tutti praticavano le arti e i mestieri che più erano di loro gradimento e nessuno, neppure fra i più umili contadini e fra i più piccoli artigiani, andava a letto con la pancia vuota. E i sogni, la notte, che sogni! Prati fioriti, cieli stellati, luoghi incantati, animali meravigliosi popolavano i sonni degli abitanti di Belmondo. E ovunque imperava l’amore.
“Quando il drago della Foresta Nera si unirà in orrendo connubio con la principessa Rosaspina, allora sul regno di Belmondo scenderanno le tenebre più fitte e dappertutto regneranno l’orrore e l’odio”, così recitava un versetto del Libro degli Arcani, gelosamente custodito nella biblioteca privata del castello. Solo il sovrano Boemo e la reale consorte Dolcemiele erano a conoscenza di questa triste profezia e il loro cuore nascondeva, con celata angoscia, questo terribile segreto. A tutti i felici abitanti del beato regno di Belmondo il re e la regina sembravano stranamente malinconici, ma attribuivano il fatto al peso di dover farsi carico della responsabilità dell’intero reame.
“O Gris, come sei fortunato a non dovere diventare re, da grande. I sovrani sono sempre gravati da dubbi e preoccupazioni, perché devono provvedere alla nostra felicità.”
Gris, un ragazzetto di appena tredici anni, ascoltava, pensoso, le parole della madre, mentre in una mano stringeva la spada di legno, che il babbo, morto di malattia quando lui di anni ne aveva solo cinque, aveva costruito con le sue mani in occasione del suo terzo compleanno.
“Da grande io vi salverò, tutti quanti!”, aveva l’abitudine di gridare il bambino nei suoi giochi.
“Un contadino non salverà mai nessuno, piccolo. Solo i principi e i cavalieri hanno il dovere di proteggere i propri sudditi, caro Gris”, gli sussurrava la mamma accarezzandogli la guancia.
“E, invece, io dico che vi salverò, salverò il regno di Belmondo e sposerò la principessa Rosaspina!”
“Beata innocenza! Vieni a tavola, piuttosto. È già ora di cena.”

Nella Foresta Nera, ai margini del regno di Belmondo, abitava la malvagia strega Tormenta, che aveva una figlia, Nerina, tanto bella quanto la madre era brutta. La ragazza aveva lunghi capelli neri, morbidi come la seta, mani di velluto, dalle dita affusolate, e un corpo snello, ma ben tornito. Il suo seno era sodo e prosperoso, i suoi fianchi rotondi e levigati come quelli di una statua di marmo. Nonostante avesse una figlia così bella, la strega era invidiosa del fascino superiore della principessa Rosaspina e appena poteva le scaricava contro, inutilmente, ogni tipo di maleficio.
La figlia del re sembrava, però, immune da maledizioni e stregonerie, e questo faceva ancora più adirare la malvagia creatura. Nerina, pur non essendo una ragazza modello, non possedeva la cattiveria della madre e la sua sola aspirazione era quella di trovare un nobile bello e ricco da sposare, per farsi mantenere e vivere, così, nel lusso e nel piacere. Non aveva amici e la sua sola compagnia era l’istrice Plum, che da piccola era stata sua compagna di giochi.
Fra le fronde maligne della Foresta Nera si nascondeva anche una banda di briganti, capitanati dal terribile Sherwood, un nobile decaduto dalla lunga barba nera e dagli occhi di ghiaccio, che passava il suo tempo ad escogitare imboscate per i malcapitati che osavano avventurarsi nelle vicinanze e a studiare un piano per impadronirsi, in futuro, del regno di Belmondo, spodestando l’odiato re Boemo, suo zio di parte materna.
La strega Tormenta e Sherwood non si vedevano di buon occhio, l’una diffidava dell’altro e viceversa, ma se si trattava di fare del male a qualcuno o di guadagnare senza fatica, e disonestamente, denaro e oggetti preziosi, i due diventavano improvvisamente buoni alleati.
Quando la malvagia Tormenta decise di tendere una trama per mandare in rovina il regno di Boemo e per distruggere la principessa Rosaspina, si rivolse, perciò, proprio al suo amato nemico, il capo dei briganti della Foresta Nera.
“Esiste, caro Sherwood, una profezia, che dice che quando il drago che abita questi luoghi maledetti si risveglierà e si unirà sessualmente con la principessa Rosaspina, il Paese cadrà nel caos e la pace e la gioia cesseranno di esistere a Belmondo…”
“Perché le dici a me queste cose, strega? Sai che non credo nella magia…”
“Se non ci credi, perché ti rivolgi sempre a me, chiedendomi nuovi intrugli, vuoi per curare le ferite, vuoi per fare innamorare qualche troietta di bassa lega?”
“Ma che cosa dici?! Io?! Quando mai?! Comunque, stregaccia dei miei stivali, andiamo al sodo. Che vuoi da me?”
“Voglio che mi aiuti a catturare la principessa e a risvegliare il drago che riposa da secoli nella caverna oltre il Ponte dei Malanni. Se il corpo del mostro verrà bagnato da qualche goccia di sangue di una vergine dai nobili natali, allora il drago tornerà in vita e noi potremo farlo accoppiare con Rosaspina, così ci impadroniremo del regno, io e te, caro brigante delle mie sottane sporche.”
“Basterebbe rapire la principessa, cavarle un po’ di sangue e, poi, risvegliato il dragone, esporla, legata come una salame, alle basse voglie dell’animalaccio.”
“Come sei perspicace, Sherwood. Finalmente, incominciamo a connettere. In parole povere, ci riusciresti, tu, a rapire quella maledetta Rosaspina?”
“Ci posso provare… So che, ad esempio, al sabato pomeriggio si reca sempre al Prato dei Conigli a raccogliere fiori con le sue damigelle… Certo, è accompagnata, immancabilmente, da un piccolo esercito di cavalieri, ma… io e i miei uomini siamo abituati alla guerra. Sai, non vogliono essere chiamati briganti, perché erano tutti valorosi guerrieri, privati del titolo dallo stesso re Boemo, che odiano, anche loro, con tutto il cuore. Le loro uniche colpe sono state di fare un po’ di razzia tra i contadini, per sfamarsi con qualche fagiano e con qualche gallina, e di cedere alle lusinghe di quattro contadinotte, più puttane di mia nonna Giseffa. Sai, in tempi di guerra è normale sfogare un po’ i propri istinti, bassi o alti che siano… Boemo, da scimmione qual è, non ha capito questo e s’è privato, per mia somma fortuna, dei servigi di questi uomini valorosi, che ora sono ai miei ordini.”
“Sì, sì, me l’hai raccontata centomila volta la storia della tua Armata Brancaleone. Passiamo alle cose serie! Mi aiuti o no a conquistare il regno di Belmondo, vecchio salame ammuffito?”
“Certo che sì!”, e così dicendo strinse con decisione la mano rinsecchita della strega Tormenta.
Ignara delle insidie che venivano tese contro la sua persona, la principessa Rosaspina giocava nel giardino del castello con le sue damigelle e con le cuginette più piccole.
“Re, regina, cavallo e stellina, quanti passi mi dai, principessina?”, le chiese, con voce strillante, Bianca, la più grande delle bambine.
“Tre passi da unicorno”, le rispose sorridendo, con infinita dolcezza, Rosaspina.
“Che cos’è un unicorno?! E come fa a camminare?”, ribatté, un po’ stizzita la cugina.
“L’unicorno è un animale meraviglioso, che abita nel Regno delle Favole. – spiegò con gentilezza la principessa – Ha il manto bianco come la neve ed assomiglia ad un cavallo di razza, però si differenzia dai normali equini perché ha uno splendido corno sulla fronte.”
“Un corno sulla fronte?!”, esclamò, sorpresa, Melinda, la più piccolina del gruppo.
“Facci il disegno di un unicorno! Dai, Rosaspina, per favore!”, la supplicò la cugina Teresa, che, per età, stava tra le sorelle Bianca e Melinda.
“E va bene. State brave che vi faccio uno schizzo, come meglio posso…” Così dicendo la principessa iniziò a disegnare quello che sembrava, a tutti gli effetti, un bellissimo cavallo, se non che, alla fine, tra la meraviglia delle bambine, Rosaspina vi aggiunse, proprio sulla fronte, un corno, così elegante e affusolato, che la piccola Melinda sbottò: “Adesso sì che sembra un cavallo da re!”
Dimentiche dei giochi, le cuginette della principessa, attorniate da un corteo di damigelle, ascoltarono estasiate le fiabe che Rosaspina, con la sua voce melodiosa e struggente, raccontava loro. Intanto, gli alberi e i fiori del giardino spandevano profumi e colori per l’aria primaverile.
Nerina, la bellissima figlia della strega Tormenta, aveva solo sedici anni, un anno in più della principessina, e, come lei, ancora non conosceva le gioie dell’amore. Passeggiando per la tetra foresta, la giovane fantasticava sul suo futuro. Sognava un principe meraviglioso, bello e forte come un dio, che la portasse, un giorno, al suo castello, per ricoprirla, da capo a piedi, di gioielli e di pietre preziose. Allora lei sarebbe diventata una gran signora, avrebbe comandato ai sudditi e dato ordini alla servitù. Tutti l’avrebbero adorata e adulata. Si sarebbe trovata un amante straniero, che l’avrebbe trattata con i dovuti onori, iniziandola ai segreti dell’amore proibito e donandole piaceri ancora più intensi di quelli che il marito sapeva darle fra le lenzuola del letto coniugale. Mentre così fantasticava, Nerina era giunta presso una fresca fonte, coperta d’edera e mimetizzata con il verde delle piante. La ragazza, accaldata dal sole e dalle sue stesse fervide fantasie si chinò per bere un sorso d’acqua e per trarne un po’ di refrigerio.
Fu allora che si sentì afferrare, con forza, da dietro. Due mani grandi e callose le stringevano il florido seno, insinuandosi fino alle levigate rotondità del ventre e delle cosce.
“Chi sei?! Insolente!”, strillò, furiosa, e la sua sorpresa fu completa quando, voltandosi incontrò il viso abbronzato e i bei lineamenti di Sherwood. I vivaci occhi verdi della fanciulla si specchiarono in quelli grigi e seriosi del brigante e, per un istante, la bella streghetta arrossì, trattenendo un gridolino di stupore.
“Sei tu, Sherwood?”, gli chiese, già raddolcita, fingendo un residuo di collera, “Da quando hai di queste confidenze con me?”
“Da quando mi sono innamorato di te…”, le rispose senza tentennamenti, “Da quando non faccio che pensare al tuo viso e desiderare il tuo corpo… Da quando non faccio che sognare i tuoi teneri baci e i tuoi abbracci delicati…”
Nerina, rossa in volto come una mela matura, distolse, allora, lo sguardo da quello dell’uomo e, senza capire dove andava, si mise a correre a perdifiato. Voleva fuggire, più che da Sherwood, dai suoi stessi pensieri. Non voleva ammettere che, in fondo, il brigante, così lontano dal suo ideale di uomo, le piaceva, eccome se le piaceva. Non voleva ammettere che il ricordo di quell’abbraccio deciso e del tocco di quelle mani, indurite dalla fatica, sul suo giovane corpo in fiore, la facevano fremere. La facevano fremere e vibrare nel profondo del suo Io, mentre il cuore le batteva all’impazzata.

“Biondi i capelli e rose le guance,
la principessa ha.
Dolci sorrisi e freschi canti,
la principessa fa.
Quando lei passa fra la gente,
sembra fiorire un lillà.
Tenero cuore, mente divina,
tanto somiglia al suo papà.
Sogno un suo bacio, una carezza,
morire d’amore mi fa.”

Il canto di Gualtiero, il poeta di corte, risuonava melodioso, accompagnato dalle note del mandolino di Doremi, il musico del re. Sdraiate sull’erba, Rosaspina e le sue damigelle, in compagnia di qualche giovane e bel gentiluomo, ascoltavano incantate, con gli sguardi sognanti e persi, Gli animaletti del bosco vicino, intanto, facevano eco alla musica con i loro cinguettii, il loro squittii e i loro brontolii. I fiori erano accarezzati da leggiadre farfalle e presi d’assalto da api laboriose, mentre un profumo estasiante e dolcissimo si spandeva per l’aria, nel verde chiarore brillante del Prato dei Conigli.
La pace e la serenità sembravano vegliare sull’allegra brigata di giovani. I cavalieri, capitanati da Sigfrido, si tenevano alla giusta distanza dal gruppo, per non turbare la magica atmosfera idilliaca con lo scintillio della loro armatura e con lo spettro nero delle loro spade. I guerrieri, però, non perdevano d’occhio le giovani dame, osservando ogni loro movimento e notando ogni minimo rumore sospetto. Erano gli angeli custodi di quelle bellissime creature e andavano fieri del loro nobile compito.
All’improvviso, si udì come un sordo boato. Gualtiero esclamò: “Si sta preparando un temporale…”
Anemone dai ricci capelli alzò, allora, lo sguardo al cielo, tendendo la mano, per cogliere le prime goccioline. Il suo palmo, però, restò asciutto. “Non piove… Il cielo è sereno…”, proferì, Rosaspina, un po’ turbata, “Che cosa può essere stato? Quel rumore…”
Balzarono fuori da dietro gli alberi, dai cespugli, forse ne uscirono perfino dalle voragini della terra. I cavalieri neri di Sherwood, precipitandosi all’impazzata nel mezzo della gentile brigata, generarono uno spavento e uno scompiglio indicibili.
Chi afferrava una dama con violenta lascivia, per baciarla e poi scaraventarla a terra, chi sguainava la spada contro un atterrito menestrello di corte, calpestandolo con gli zoccoli del cavallo. Chi tagliava le trecce ad una gentil donzella, per esporle come terribile trofeo, chi tirava calci a destra e a manca, prendendo di mira le povere virilità di un giovin signore. Sherwood, il grande capo, approfittando del caos creato dai suoi uomini, mirò dritto alla principessa e in un battibaleno l’afferrò per l’esile vita, sollevandola sul suo nero destriero.
I cavalieri di Sigfrido, ripresisi dalla sorpresa iniziale, si scagliarono, a loro volta, contro il nemico, cercando, però, di fare attenzione a non ferire i nobili e le dame di Belmondo. Scoppiò una vera e propria battaglia. Volarono mani, braccia, pezzi di armatura. Il sangue scorreva a fiumi sul Prato dei Conigli. Sherwood, già fuori dalla mischia, penetrò, al galoppo, nel bosco, stringendo a sé con vigore la principessa, che urlava e si dibatteva inutilmente. Sigfrido fu il più lesto a corrergli dietro, anche se il brigante aveva già un buon margine di vantaggio. Dopo di lui anche Ivano e Marino, i più valorosi dei suoi cavalieri, nel tentativo di salvare Rosaspina, si gettarono all’inseguimento del capo nemico. Nell’epico scontro che ebbe luogo sul Prato dei Conigli, i cavalieri del re ebbero presto ragione degli avversari, mettendoli in fuga e lasciandone parecchi, esanimi, sul campo. Poche furono, invece, le perdite fra l’esercito di Boemo. Per quanto riguarda i civili, perse la vita solo Gervaso, un nobile e amabile giovanotto. Brunilde, una delle damigelle più care a Rosaspina, fu ferita ad una spalla e solo l’intervento di Howard, il cavaliere che l’amava in gran segreto, impedì che la giovane venisse violata da Roncisvalle, il comandante in seconda dei nemici, colpito a sua volta al torace e messo in rovinosa fuga, alla pari dei compagni.
Sherwood, nel frattempo, nonostante il distacco che aveva accumulato sugli inseguitori, fu presto braccato dai valorosi alfieri di Boemo, così che in lui la tensione cresceva a dismisura. Stanco delle lamentele della giovane principessa le mise un bavaglio e le legò le braccia e le gambe come meglio poteva, per far sì che la smettesse di scalciare. “Brutta troietta che non sei altro! Almeno adesso starai zitta…”, la insultò il brigante con i nervi a fior di pelle. Sigfrido gli era, infatti, alle calcagna e presto la sagoma del capo dei cavalieri neri entrò nel cono visivo del più nobile guerriero di Belmondo.
“Fermati, marrano! Lascia andare la principessa, se vuoi salva la vita!”, gli intimò, allora, il bel cavaliere, affiancandolo in groppa al suo bianco destriero.
“Non ci penso nemmeno, damerino da strapazzo! Sfodera la spada, coniglio! Battiamoci!”, fu la risposta altezzosa del bandito.
I due cavalieri diedero vita ad un duello davvero avvincente. A colpi di scherma si contesero la principessa, che, accucciata sul cavallo del brigante, intanto, tremava di paura. Nessuno dei contendenti sembrava avere la meglio, ma l’arrivo dei valorosi Ivano e Marino rese la contesa impari, tanto che Sherwood, vista, ormai, l’impossibilità di spuntarla e considerando che Rosaspina rischiava di venire ferita gravemente nello scontro (e a lui, per i suoi loschi piani, la principessa serviva viva e in salute), prese la decisione di disfarsi della bella ragazza e di darsela a gambe. Di certo avrebbe avuto altre occasioni per rifarsi e, almeno per il momento, era preferibile una ritirata strategica. Fu così che il capo dei briganti si liberò della principessa, scaraventandola a terra bruscamente, e si diede di nuovo alla fuga, nel fìtto del bosco. Sigfrido fece segno ai compagni di lasciarlo andare, desistendo lui stesso dall’inseguimento.
“Pensiamo alla principessa, piuttosto! Come sta, altezza? Tutto bene? Forza, slegatela! Non vedete che è imbavagliata e non può parlare?”, ordinò il capitano, togliendosi l’elmo dal bel pennacchio rosso e asciugandosi con un panno il sudore che gli scorreva copioso sul viso dai lineamenti delicati.
“Grazie, miei valorosi cavalieri! Senza di voi a quest’ora sarei morta o prigioniera di qualche malvagio re nemico.”, proferì la principessa, appena libera, con la sua voce carezzevole. La gratitudine di Rosaspina ripagava da sola le guardie del re per la fatica profusa in combattimento.

Re Boemo pianse i caduti, esprimendo tutto il suo sincero dolore, e ricoprì di onori e di omaggi i guerrieri vincitori.
“Nobile Sigfrido – comunicò il re, visibilmente turbato, non senza un po’ di comprensibile esitazione – mi dispiace dovervi annunciare, proprio ora che siete reduce da un agguato tanto insidioso quanto fraudolento, nel quale voi e i vostri nobili cavalieri avete dimostrato, se ce n’era ancora bisogno, tutto il vostro valore e la vostra forza d’animo, che ho una nuova importante missione da assegnarvi. Marlene, la sovrana del Regno delle Nevi è stata assalita a tradimento dall’esercito di re Carlo VII di Moenia e mi ha chiesto di inviarle un contingente, non tanto numeroso, quanto eminente per abilità guerresche e provata fedeltà. Le ho, perciò, promesso di mandarle delle truppe scelte agli ordini del comandante da me più stimato, ovvero voi, nobile Sigfrido di Zelanda. Mi dispiace non avervi prima consultato, ma già sapevo che avrei potuto contare sulla vostra pronta e spontanea obbedienza.”
Sigfrido ringraziò re Boemo per l’onore che gli concedeva e accettò, senza battere ciglio, la decisione del sovrano, che, d’altra parte, era il capo supremo dell’esercito di Belmondo. In verità partire per la guerra così all’improvviso non gli era cosa gradita, anzi. Conosceva la forza brutale e la barbarie dei soldatacci della Moenia e sapeva che le probabilità di tornare vivo da un simile conflitto, che si prospettava lungo e crudele come nessun altro prima, erano assai basse. Quello che più gli dispiaceva era che avrebbe dovuto separarsi dalla bella Doralice e che forse non l’avrebbe più rivista.
Da tre anni il capitano delle guardie reali e la nobile damigella erano fidanzati ufficialmente. Il loro era un amore puro e casto. Mai il valoroso cavaliere aveva osato chiedere a Doralice di concedergli più di un bacio e di qualche carezza. Ora, però, con lo spettro della partenza imminente per il Regno delle Nevi, da dove non sapeva se sarebbe mai più tornato, il giovane eroe trovò la forza di fare il grande passo.
“Dora, ti prego, non pensare che io sia un opportunista… Sai della mia prossima dipartita per la guerra… Potremmo non rivederci mai più… E io vorrei lasciarti qualcosa di me… qualcosa di più di un semplice ricordo…”, balbettò il bel soldato, timido e titubante di fronte a lei quanto era prode in battaglia.
La donzella non lo lasciò finire di parlare. Gli fece segno di stare zitto, appoggiandogli, con grazia, un dito sulla labbra e lasciò, al contempo, cadere a terra la candida veste di lino che rivestiva le sue nudità. La sua pelle era bianca come la neve e splendeva di luce propria. Sigfrido, a sua volta, si spogliò, prese la ragazza fra le braccia e la depose sul letto dalle candide lenzuola.
Non fu sul talamo nuziale, come avrebbe sognato la giovane, che aveva il cuore puro e semplice come quello di un fanciullo, che si consumò l’amore fra la bella Doralice e il suo amato cavaliere, ma sul suo, ancora innocente, letto di nubile.
Lei lo accolse come si riceve una vita che germoglia nel profondo del nostro essere. Lui fu tenero e delicato, prendendola come si coglie una rosa morbida e profumata. Non ci fu violenza nel loro nobile atto d’amore. Lei gli cinse il collo e la vita, aggrappandosi a lui in un ultimo spasimo di gioioso piacere e poi scoppiò in pianto: “Non ci rivedremo più, Sigfrido… Amore mio… La guerra ti porterà via da me… per sempre…”, ebbe la forza di proferire fra i singhiozzi. I due giovani amanti rimasero, così, abbracciati e uniti con i loro splendidi corpi, in un amore senza tempo, fino a quando l’alba di un nuovo giorno non giunse a ricordare loro che era arrivato il triste e temuto momento degli addii. La partenza di Sigfrido per la guerra, accompagnato da un drappello di cavalieri scelti, rattristò alquanto la principessa Rosaspina. Non solo le dava dispiacere vedere l’amica Doralice tanto angosciata e giù di morale, ma, soprattutto, le dava ansia il fatto che il Regno di Belmondo inviasse suoi soldati in un conflitto che rischiava, così, di coinvolgere direttamente, in un prossimo futuro, anche il suo Paese. Rosaspina amava la pace e la tranquillità dei sudditi più della sua stessa vita ed era per questo motivo che tutti gli abitanti del reame ricambiavano il suo affetto. “Vedrai, Dora, che il tuo amore tornerà presto e in ottima salute.”, sussurrò all’amica con la sua voce melodiosa, cercando di rincuorarla il più possibile. Doralice annuì, anche se in verità non nutriva grandi speranze. L’affetto della principessina, però, era per lei la migliore medicina e il bambino che già sentiva di aspettare dall’amato le dava la forza di continuare a vivere.

[continua]


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