Opere di

Laura Gronchi


Estratto dal romanzo Ossessione – Etiopia, 10 Agosto 2016


Si risvegliò su un materasso lurido, la luce tremula di una piccola lampadina appesa al soffitto, che schia- riva un poco l’oscurità. Non credeva potesse esistere tanto dolore e non credeva neppure di essere capace di sopportarlo. Il suo corpo reclamava disperato un po’ di sollievo che però non sarebbe arrivato. Diede fondo ai polmoni e urlò tutta la sua sofferenza, mentre si metteva seduto per guardarsi attorno: tastò il muro, solido e massiccio, la porta di legno, dall’aria pesante e spessa, la feritoia in alto, da cui non sarebbe sgusciato neppure un gattino.
Okay, non posso fuggire senza chiave e, se anche ci riuscissi, sono sicuro che crollerei svenuto prima di arrivare al cancello.
Notò un secchio d’acqua su cui si avventò per placare almeno la sete e togliersi il sapore di carogna e sangue che aveva in bocca. Qualche istante dopo si sentiva meglio, anche se il suo status di prigioniero senza futuro non cambiava di una virgola.
Il profilo della donna amata invase improvviso la sua mente. Speriamo che almeno lei si sia salvata da quel volo ardito cui l’ho costretta
Si fissò le mani ancora illese e si abbandonò a una serie di riflessioni cui si aggrappò per ritardare quel che sapeva di dover fare.
In verità, a dispetto della situazione in cui sono, posso considerarmi un uomo fortunato. Non era da tutti innamorarsi davvero e a lui era accaduto per ben due volte, sinceramente ricambiato.
Peccato che devo morire.
Si frugò nelle tasche dei calzoni, che per fortuna gli avevano lasciato, finché le dita non incontrarono una delle schegge di vetro saltate dal parabrezza, nascoste prima di essere catturato. La fissò rassegnato e si ac- cinse a quello sgradevole compito cui l’anima si ribellava con tutte le sue forze. Devo agire adesso che ho ancora la lucidità e le mani intatte e capaci per farlo. Conosceva i metodi di tortura, l’avrebbero ridotto a una larva senza umanità, preferiva una morte pulita a quel futuro da ameba. Nel suo caso, poi, se lo sarebbero fatto durare parecchio.
La scheggia brillava vivace nella mano destra, mentre premeva lungo la vena azzurrina. Osservò il san- gue iniziare a sgorgare copioso assieme alla vita che gli scivolava via lungo le dita. Rabbioso, si passò il dorso della mano sugli occhi, irritati da lacrime di disperazione.
Dio! Non voglio morire! Non ora che le cose si sono sistemate. Sarebbe stato davvero bello fare quel viaggio nel Galles e non solo quello. Tornare a pilotare i suoi jet in giro per il mondo e magari trovare lei qualche volta ad attenderlo sulla pista d’atterraggio. Vedere suo figlio diplomato, forse anche laureato, sposato e con tanti marmocchi attorno.
Scosse la testa per scacciare quelle immagini di una felicità dolorosa e riprese a premere il vetro sulla vena, ma era piccolo e le dita erano viscide di sangue, s’impuntò in una piega della pelle e cadde per terra.
No! Devo ritrovarlo subito! Il panico lo sommerse mentre, a tentoni, annaspava nella polvere alla ricerca della sua salvezza.
Datti una calmata! Fece un lungo respiro, chiuse gli occhi e si sforzò di pensare ad altro. Il ghigno sfottente di De Rosa gli balenò davanti agli occhi. Gli tornò a mente la conversazione fatta al ritorno dall’Etiopia.
Aveva ragione lui: messo alle strette avrebbe fatto la scelta giusta. Peccato non avere una pistola, sarebbe stato tutto più pratico e veloce. Tornò a tastare metodicamente il pavimento e alla fine le dita riconobbero la scheggia e la impugnarono di nuovo. Ora non avrebbe desistito. Sentì un rumore leggero di passi che si avvicinavano alla sua cella. Un sudore freddo cominciò a scor- rergli lungo la schiena, mentre si affrettava a mettere al sicuro la sua microscopica arma. Si rannicchiò sulla branda in modo da tenere d’occhio la porta, preparandosi alla lotta e a tentare un’improbabile fuga. Sorrise tra sé. Forse non tutto il male veniva per nuocere, magari nello scontro sarebbe partita quella pallottola va- gante che desiderava per porre fine in fretta alla sua sofferenza.


Estratto dal Diario covid 19 pubblicato sul giornale “La Nazione” rubrica #ioleggopisano il 21/04/20

Giorno 1

È appena suonata la sveglia, mi stiracchio nel letto caldo e ho un primo flash di cose da fare. Sorrido, la mia giornata è piena. Ancora un secondo ed ecco che a rovinare tutto arriva il pensiero del virus. La mia radiosa giornata si tinge di grigio. Comunque sia, mi alzo e vado in bagno, tra poco suonerà la sveglia di mio marito Mario e il bagno dovrà essere libero. Il tragitto è come sempre: caos, camion, gente che va a lumaca perché guida chattando al cellulare e se gli suoni, ti guarda pure male. Al lavoro è come gli altri giorni: un gran casino, telefoni che suonano ignorati a causa del rumore delle macchine che vanno a tutto spiano. C‘è fretta, una dannata fretta, non ho tempo di pensare, di riflettere, devo solo correre. Ho smesso di fumare da cinque anni e per scaricare la tensione ora mastico chewingum. Arrivo a sera che sono sfinita. Guardo la borsa della palestra e tiro un sospiro. È tardi, sono stanca, forse è meglio che faccia come dicono in TV ed eviti i posti affollati. Una vocina mi urla di rimando, è solo pigrizia! Ok lo ammetto, ma ad allenarmi non ci vado.

Giorno 2

Il risveglio è pessimo: raffreddore, mal d’orecchi, mal di testa e nella mia gola pare ci abbiano passato la carta vetrata. Il virus! M’importa un tubo del virus! Ho l’allergia, maledizione! Come tutti gli anni affogo e lo spray omeopatico che prendevo non lo fanno più! Giornata di merda! Una vocina mi ricorda che la settimana prima sono andata in palestra, al ristorante e dall’estetista. Fai attenzione! Mi grida. La ignoro. Vado in bagno e tiro fuori tutto il kit d’emergenza per questi casi: sciroppo, propoli, spray al cortisone, Tachipirina, Benagol. Ficco tutto nella borsa frigo assieme al pranzo e vado al lavoro. C‘è da fare, corro tutto il giorno e mi sforzo di non pensare che mi sento male. La sera a casa sto peggio, starnutisco e tossisco senza posa mentre preparo la cena. A tavola Mario mi guarda male, però non dice nulla. Passo la notte in bianco, al mattino sono uno straccio.

Giorno 4

Finalmente è sabato. Dormo fino alle undici perché anche stanotte ho fatto cagnara. Mi alzo m’impasticco e comincio le pulizie di casa. Il tarlo del virus mi rode in testa. Mio marito mi gira intorno, mi guarda tra il preoccupato e l’apprensivo, però non dice niente.
«Forse sono da tampone?» chiedo.
«Lo fanno solo a quelli che stanno davvero male. Tu hai un po’ di raffreddore e mal di gola. Non sei da 118.» si sforza di avere un tono leggero, tuttavia lo sguardo rimane serio.
«No, hai ragione.» bisogna essere con un piede nella fossa, per essere presi sul serio. A cena stappiamo il vino bianco, bello fresco. Ho preparato una cenetta a base di pesce: pasta al sugo di cozze e sgombro al forno. Stasera non usciamo, tutta l’Italia è stata dichiarata zona rossa, gli spostamenti sono consentiti solo per motivi di necessità. Bar, ristoranti, pub, discoteche, palestre, qualunque luogo di ritrovo è stato chiuso. Chi se ne frega, tanto c‘è un bel film in TV!

Giorno 5

Questa notte ho dormito, mi sento meglio. Merito del vino? Poi mi torna a mente il virus. Mentre preparo colazione, riprendo a starnutire e tossire. Mi sforzo di non pensare. Apro la porta, c‘è un bel sole ma fa freddo, è tornata la tramontana. A pranzo altro vinello su un bel pollo alla griglia poi, nel pomeriggio, una bella passeggiata sul fiume. Capperi! Il sole e la primavera ci hanno dato alla testa, avremo percorso almeno dieci chilometri a piedi, tra boschi e campi semideserti. Al ritorno due chiacchiere con i vicini. Mi ci viene da ridere, sembra di giocare ai quattro cantoni per rispettare le distanze, e tutti parliamo ad alta voce. Io e Mario ci facciamo l’aperitivo sul terrazzo: solo un paio di birre e patatine, chissà perché io mi ubriaco lo stesso. Per preparare il risotto ai carciofi ci vuole un’eternità e dopo cena mi addormento sul divano.

Giorno 6

Mi sveglio male. È lunedì, sono ancora costipata e in aggiunta a tutto il resto ho anche la sbronza complicata. Giornata di merda! Comunque oggi chiamo il dottore. Il pensiero del virus è sempre lì. Durante il tragitto per andare al lavoro penso a tutte le implicazioni che comporterebbe il mio ricovero all’ospedale. Se m’intubano non potrò più parlare con nessuno. E la ditta? Gli operai? I pagamenti? Il fisco? Dio che casino! Sono sola, come faccio?
«Hai la febbre?» Mi chiede il medico al telefono.
«No. Mai avuta.»
«Dalle undici e trenta in poi ho finito con gli appuntamenti, vieni all’ambulatorio, ti visito.» Sono sulla panca dello studio con mascherina e guanti. Guardo la segretaria e gli altri medici che girano da un ambulatorio all’altro, con sguardo colpevole, cerco di rendermi invisibile e mi sforzo di non tossire. La paziente esce e il dottore mi chiama. Ormai sono rassegnata al verdetto e mi sento più leggera. Sul lettino mi osculta i polmoni con lo stetoscopio. Una bella visita, accurata.
«I tuoi polmoni sono così aperti che ci passerebbe un tir.» è la diagnosi.
«Ma scusi: il mal di gola? La tosse? Il raffreddore? Le fitte alle orecchie?»
«Hai la gola leggermente rossa. Sei allergica e in questo periodo il raffreddore lo hai sempre avuto e lo porterai fino a maggio. Nel canale uditivo non hai niente. Con tutta probabilità hai un problema di masticazione che ti infiamma gola e orecchi. Però ora non è il momento di fare accertamenti.» Porca miseria,! Accidenti al mio vizio di mangiare in continuazione chewingum! Devo smettere. Scendo dal lettino e mi rivesto.
«Quindi cosa prendo?»
«Che sciroppo vuoi?» chiede lui. Resto a bocca aperta.
«Solo uno sciroppo?»
«Certo! Hai la tosse e te la tieni finché non avrà fatto il suo corso. Non ti prescriverò certo l’antibiotico per una blanda irritazione!» Ci resto quasi male.
«Uno sciroppo che calmi la tosse allora. Almeno la notte dormirò.»
«Bene.» In pochi minuti ho la mia ricetta bianca e sono in coda in farmacia.

Giorni 7-8-9-10

Lo sciroppo funziona, la tosse sta passando. Al lavoro si corre come al solito e nella zona industriale i rumori sono sempre gli stessi. Non sembra nemmeno di essere in emergenza sanitaria nazionale. Solo la mattina e la sera c‘è meno traffico.

Giorno 11

È strano. Non me ne ero ancora accorta, tutta presa dal mio correre, ma non possiamo più progettare niente: una cena con gli amici, una gita, una visita al museo, un giro in moto al mare, una vacanza. Mio marito mi fa tenerezza, è sul sito della Moby a spulciare le tariffe estive. Me le mostra, sono davvero allettanti.
«Se prenoto entro il trenta marzo e poi non si potrà partire, ci rimborseranno il biglietto intero!» esclama sognante e contento.
«Lascia stare, non mi sembra il caso.» Ci rimane male. Ci pensa un po’, poi spegne il PC e torna a stravaccarsi sul divano con il telecomando in mano.
In TV pochi film o programmi di qualità e molti talk incentrati sul coronavirus, in cui si dice tutto e il contrario di tutto. Ormai l’argomento non si sofferma più nella materia grigia, entra da una parte ed esce dall’altra. Accendo il portatile e inizio a cercare qualche film da scaricate sulla chiavetta USB e caricare sullo schermo.

Giorno 12

«Stasera aperitivo con gli amici!» esclama Mario con il cellulare in mano. Lo guardo in tralice come fosse un marziano. Lo vedo affaccendarsi in frigo e richiuderlo sollevato: due birre ci sono. Poi spiega: «Tuo cugino ci collegherà tramite WhatsApp con gli amici del gruppo di Harleysti. Faremo l’happy hour in video chiamata!»
«Ah.» È tutto quello che riesco a dire perplessa.
Nel pomeriggio ci permettiamo una bella passeggiata al sole. Siamo fortunati, dietro il nostro appartamento ci sono campi sterminati, per i viottoli di campagna deserti possiamo sgranchirci le gambe.
All’ora stabilita ci colleghiamo. Non credevo, la video chiamata funziona. Il piccolo schermo del telefono si divide in quattro e in una cacofonia di brindisi e risate forzate, ci aggiorniamo sulle rispettive situazioni. Una coppia se l‘è vista brutta: hanno ricoverato il suocero per una polmonite con febbre alta. I sanitari hanno fatto il tampone a tutta la famiglia. Negativo. Al termine, l’evento mi lascia l’amaro in bocca. A questo ci siamo ridotti.



Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it