Opere di

Laura Pagliaini


Laura Pagliani – «Anita. Storia di un viaggio»
Formato: 15×23 – pp. 180
Euro 12,00
anche in Ebook
ISBN: 9788892320741

Richiedibile sul sito www.laurapagliaini.it


SINOSSI

Genova, estate 1945. La guerra è finita da poco, Attilio è in apprensione per la sorte del fratello, Commissario di Polizia antifascista, disperso a Gorizia da maggio. Lo scambio di lettere con l’altro fratello Giovanni, medico in Alto Adige, lo convince che le richieste di informazioni ai responsabili alla frontiera non portano a nulla e decidono così di fare un viaggio, verso quella zona di confine tanto difficile. Anita, moglie di Attilio, li accompagna, per dare un sostegno al marito. Insieme affronteranno un viaggio scomodo, con diversi mezzi di trasporto, tra le terre di un’Italia, che ancora fatica a rimettersi in piedi, dopo tutta la devastazione della guerra. Incontreranno diverse figure, più o meno fondamentali, che faranno loro capire e conoscere una realtà, ancora in parte ignorata e un mondo diverso, a tratti affascinante, ma a tratti confuso. Anita vedrà tutto questo con i propri occhi e si troverà di fronte a molte domande, a cui cercherà di dare una risposta.


I

Quella mattina Anita era andata dal macellaio per acquistare una bella porzione di carne, che bastasse per tutti in casa sua: doveva preparare il roast beef, la sua specialità; era davvero tanto tempo che non lo faceva, perché con la miseria e la scarsità di alimenti di quegli ultimi anni, chi se lo sarebbe potuto permettere? Aveva messo insieme le tessere annonarie di tutta la famiglia e sperava che fossero sufficienti e che soprattutto il macellaio fosse un poco fornito.
C’era il sole. L’estate era ormai alle porte ed era una splendida giornata, di quelle che ti riconciliano con la vita e ti viene voglia di uscire e di darti da fare; la città però la stancava ancora, non era più abituata, dopo aver passato tanto tempo in un piccolo borgo, dove conosci tutti e tutto è a misura d’uomo; l’imponenza e la forza di una città come Genova la sovrastava e lei si sentiva un po’ disorientata.
Le venne da sorridere a pensare che quando era giovane non vedeva l’ora di scappare da un piccolo centro come Busalla, dov’era cresciuta, e conoscere la vita della grande città. La città era impegnativa. Ma lei l’adorava, con i suoi palazzi imponenti, le strade trafficate, quella mattina poi era tutt’intorno un pullulare di persone.

Insieme a lei c’era Robertino, il suo secondo figlio, il più dolce a parer suo, e anche quello che amava di più uscire con la mamma; sentiva la sua manina sempre attaccata e stretta nella sua e non la lasciava per un momento, lei ogni tanto lo guardava con orgoglio: stava diventando grande, presto sarebbe andato a scuola e lei era grata al mondo che in quegli anni di guerra non fosse accaduto nulla ai suoi figli.
I loro occhi spesso si incontravano senza che avessero bisogno di dirsi nulla, lei aveva quasi la sensazione che lui, nonostante l’età, capisse tante cose e spesso, guardandolo, aveva trovato conforto alle molte difficoltà che la vita le aveva messo di fronte. Lui la guardava con ammirazione e le sorrideva, e lei in quei momenti si sentiva come più leggera.
Camminavano con passo svelto attraverso i vicoli, perché voleva essere a casa in tempo per l’arrivo di Attilio; da quando erano tornati in città lui era così preso dal lavoro, che il tempo per stare un po’ insieme era davvero poco e anche lei era così assorbita dalle visite in ambulatorio, che spesso tornava a casa solo la sera.
Mentre camminavano si guardava intorno: da tempo non passava dai vicoli; la guerra aveva colpito con grande violenza quella zona della città: si camminava tra le macerie delle case e dei palazzi, solo alcune persone cercavano di pulire meglio che potevano e di spostare i calcinacci.
I genovesi erano gente fiera, la liberazione era avvenuta proprio grazie ai partigiani della zona e questo li aveva resi più forti di altri, nella consapevolezza che si sarebbero ripresi da quel tremendo periodo.
Lei e la sua famiglia erano tornati da poco in città; gli anni da sfollati erano stati duri, in un piccolo borgo fuori città, lontani dalla civiltà, stretti in due stanze, ma avevano fatto il possibile per convivere in armonia. L’avevano fatto per i bambini, per salvarli dai bombardamenti. Genova era troppo pericolosa, ma si erano trasferiti in un spazio piccolo anche con i due anziani della famiglia, il padre di Attilio e la vecchia zia malata. Una convivenza pacifica e in fondo Anita doveva ammettere che il nonno e la zia erano un aiuto valido per tenere i bimbi. Era comunque stato un periodo durissimo: ogni giorno si recavano in città per il lavoro e avevano avuto ben poco tempo per occuparsene. Lei tutte le mattine in bicicletta e in treno per arrivare all’ambulatorio e lui che tornava a casa di rado, a causa delle persecuzioni dei fascisti.
Tutto quello che vedeva intorno a sé in quel momento la faceva ripensare a quei tempi e a quello che avevano vissuto. I volti della gente non erano felici, naturalmente, aleggiava nell’aria ancora un’idea di morte e di perdita, molti cercavano con coraggio di capire cosa fosse rimasto delle loro attività, dei loro negozi e si domandavano se avrebbero potuto riprendersi, ma le sembrava che avessero tutti un profondo senso di rivalsa. La vittoria contro i fascisti e i nazisti aveva infuso una linfa positiva nei loro cuori e una voglia di rialzarsi che sembrava li animasse tutti.
Quel giorno il roast beef fu una festa, il profumo che emanava per tutte le stanze portava con sé molti significati: che erano tornati a casa loro, che erano di nuovo liberi e che la vita stava ricominciando. I bambini sorridevano felici e mangiavano di gusto, Anita li guardava con soddisfazione, anche il nonno aveva appetito e Attilio aveva accolto con gratitudine sincera quel pranzo festoso.
Solo una nota dolente non permetteva loro di gioire davvero quel giorno: Anita sapeva che in quel sorriso mesto del marito vi era tutta la preoccupazione per il fratello disperso.

«Egregio avvocato…» cominciava così la nuova lettera che Attilio quella sera stava scrivendo per avere notizie di suo fratello, era l’ennesima.
Ormai da tempo non aveva più avuto notizie di Mario; la guerra era finita e, sebbene le comunicazioni fossero ancora difficoltose e lui fosse lontano, non era arrivata alcuna lettera che li tranquillizzasse e dicesse loro che stava bene.
Attilio si sentiva in dovere, anche nei confronti della cognata Lea, la moglie di Mario, di cercare di sapere presso le sue più influenti conoscenze, quale fosse stata la sorte del fratello. Grazie al suo lavoro di industriale e al suo impegno politico infatti, nel corso degli anni, aveva avvicinato diverse persone del Partito Socialista o in qualche modo informate, e sperava che queste conoscenze potessero servire almeno in parte.
Anita entrò in camera in quel momento, guardò distrattamente il marito che stava scrivendo e già sapeva per quale motivo; tutte le sere ormai si attardava a scrivere con impegno, e anche con una certa apprensione, a chi potesse dargli qualche notizia del fratello scomparso, personaggi di spicco del partito o persone che potevano avere avuto contatti con Mario negli ultimi tempi. Oppure scriveva all’altro fratello, Giovanni, anche lui lontano da Genova, con cui teneva una fitta corrispondenza da sempre, per scambiare notizie ed aggiornamenti non solo sulla sorte di Mario.
Anita sapeva quanta sofferenza desse al marito quella situazione di assoluto silenzio e se ne preoccupava anche lei, lo guardava affannarsi con quelle continue lettere, vedeva sul suo volto disegnarsi espressioni di tensione e di sconforto. Avrebbe voluto sostenerlo di più e nelle sere in cui lo vedeva troppo stanco, cercava di aiutarlo, leggendo per lui le risposte o scrivendo a Giovannino, come chiamava lei il cognato, per informarlo su eventuali sviluppi.
Non avevano notizie di Mario da quando era ripartito per Gorizia, un posto terribile, sentenziava Anita quando ne parlavano, un luogo di frontiera, che a lei faceva una brutta impressione solo al pensiero. Arrivavano notizie sempre gravi su quelle zone al confine con l’Istria e la Slovenia e le pressioni dei partigiani di Tito, dall’altra parte, sembravano aver messo la città in uno stato di allarme continuo.
Anita e Attilio sapevano da tempo che non era una zona sicura, e vedendo Mario partire quell’ultima volta, lei sapeva in cuor suo che probabilmente lo avrebbe atteso la sorte peggiore.
Sia Attilio che Giovanni lo avevano scongiurato di non partire: «Sta finendo la guerra, lo dicono tutti, laggiù non si sa come andranno le cose, tu sei una figura del regime, sei un poliziotto, non ti lasceranno tranquillo».
Mario, a quelle parole, si era adirato: «Io non sono una figura del regime, io non sono come loro, lo sai!».
«Mario, non puoi pretendere che facciano facilmente delle distinzioni, nella situazione in cui siamo, sei un commissario e come tale…» aveva ribattuto Attilio con severità.
«E come tale mi comporterò!» lo aveva interrotto il fratello.
Giovanni gli aveva anche offerto un nascondiglio sicuro, una botola sotto il pavimento, dove nessuno avrebbe potuto trovarlo, lassù tra le montagne dove viveva lui, ma inutilmente.
Mario era un uomo serio, un integerrimo, un leale, totalmente avverso al regime sì, ma non avrebbe mai disonorato il suo Corpo. Era commissario di polizia aggiunto a Gorizia, l’avevano mandato lassù per punirlo, perché la sua avversione alla Repubblica Sociale era cosa risaputa e la posizione di suo fratello Attilio, convinto antifascista, non migliorava l’opinione che i suoi capi avevano di lui.
Mario aveva rifiutato di nascondersi e di non assolvere ai suoi doveri. Con i suoi occhi dolci e scanzonati, che aveva sempre avuto fin da ragazzo, e che Anita aveva imparato a conoscere, aveva chiesto al fratello maggiore Attilio di capire la sua posizione e di non insistere, ma sapendo bene a cosa andava incontro, gli aveva affidato la sua famiglia, la moglie Lea e la piccola Maria Silvia, ancora una bambina.
Era stato un momento tristissimo quello in cui li aveva lasciati; era successo ormai da mesi, ma Anita aveva ancora davanti a sé l’immagine della sua partenza, alla stazione, con la valigia, che salutava con trasporto la figlia, quasi come fosse stato l’ultimo abbraccio. Nei giorni successivi lei aveva passato momenti d’angoscia quasi incontenibile, nel vedere il marito, sempre forte e di sostegno per gli altri, ripiegarsi su se stesso per il dolore. Non era mai stata un’ottimista e questa partenza riusciva a vederla solo come una perdita quasi preannunciata.
A peggiorare la situazione vi era il senso di responsabilità che Attilio sentiva dentro di sé ogni volta che si trattava dei fratelli: da quando erano rimasti orfani della madre, molti anni prima, lui, da fratello maggiore, aveva sentito su di sé un ruolo importante per la loro vita, come se la madre glieli avesse affidati. Aveva lavorato duramente fin da ragazzo, per permettere ai due fratellini di proseguire con gli studi e potersi laureare entrambi. Egli sentiva il peso di questa responsabilità da sempre, come avesse fatto loro un po’ da padre.
Anita in questa circostanza cercava di consolarlo, ma non c’erano parole che potessero farlo, non ne trovava; aveva solo abbracci, ma poco valevano anche quelli, in tale situazione, e poi era come se da un po’ di tempo non fossero più abituati alla vicinanza l’uno dell’altra. La guerra e le preoccupazioni li aveva, senza che lo volessero, allontanati: erano spesso di corsa, si vedevano poco e anche quando la sera si ritrovavano in camera da soli, erano talmente stanchi e presi da mille pensieri, che non avevano nemmeno il tempo e la voglia di guardarsi.
Tutto appariva fermo, congelato, freddo e Attilio diventava sempre più chiuso nei suoi pensieri, sempre più assorto e distante. Le parlava in realtà, si confidava, come aveva sempre fatto, ma lei aveva l’impressione che non riuscisse ad esprimere realmente quello che lo angosciava e che anche parlarne non gli servisse a nulla.
Dopo la fine della guerra, la corrispondenza con Giovanni era stata continua: Giovanni era medico condotto in un piccolo paese dell’Alto Adige, Campo Tures, si trovava più vicino a Gorizia e cercava di prendere informazioni dalle persone che arrivavano da quelle parti, magari scappando dalla frontiera ad est.
Giovanni nelle sue lettere raccontava che lassù molti dicevano che la guerra non fosse ancora finita del tutto: era finita ufficialmente, ma tra le montagne, nascosti, c’erano ancora soldati tedeschi e italiani fascisti, che cercavano di scappare in Svizzera o di trovare rifugio presso famiglie amiche.
I partigiani si aggiravano nella boscaglia in cerca dei fuggitivi ed anche coloro che erano cittadini ‘normali’ adesso avevano preso coraggio e cercavano di vendicarsi delle angherie subite durante la guerra. Quelli che fuggivano erano terrorizzati all’idea di essere trovati e uccisi o trattati senza pietà; si nascondevano dappertutto, alcuni pregando gli abitanti del luogo, affinché dessero loro asilo, alcuni minacciando con le armi per non essere denunciati. Invano comunque, perché tra le montagne del nord si sentivano ancora colpi di pistole e fucili e tutti sapevano cosa volesse dire.
Giovanni cercava di avere più notizie possibili dai partigiani; era un noto antifascista e, in quanto tale, rispettato dai nuovi piccoli governanti che si erano messi a capo di quell’Italia ancora confusa.
Inoltre, essendo il medico di tutti quei paesi spersi nel verde e nella neve, aveva curato molti di loro o dei loro figli, quindi poteva chiedere favori o informazioni.
«Devo essere cauto però – diceva nelle sue lettere – chiedere delle sorti di un poliziotto della Repubblica Sociale di Mussolini non è cosa facile», non era chiaramente ben vista la richiesta e nessuno gli dava notizie volentieri, quindi preferiva cercare solo di sapere che cosa fosse successo a Gorizia con precisione, alla fine della guerra.
Le risposte che arrivavano non erano buone, si diceva che tutti i funzionari del regime fossero stati imprigionati e condannati per i loro crimini e perché rappresentavano il duce e il Fascismo e tutto quello per cui i partigiani italiani e sloveni si erano battuti.
Inoltre gli Slavi del nord, Sloveni ed Istriani, volevano vendicarsi del regime fascista, che anni prima aveva invaso le loro terre senza rispetto ed aveva imposto le proprie regole e la propria lingua.

Giovanni teneva Attilio ed Anita costantemente informati di quel poco che riusciva a sapere; scriveva anche continuamente lettere ai responsabili della nuova Questura di Gorizia e ad altri personaggi che in qualche modo potessero aver avuto contatti con Mario.
Anita spesso la sera leggeva le lettere di Giovanni ad Attilio, che la pregava di farlo, mentre lui si stendeva sul letto, ormai sfinito dalla giornata di lavoro e dai dolori alla schiena, che ultimamente lo affliggevano.
Anita sentiva, leggendo, tutta l’apprensione con cui il cognato scriveva e il fervore con cui si dava da fare, nonostante anche lui fosse così preso e occupato dal lavoro. Ogni tanto osservava il marito che ascoltava e le si stringeva il cuore, vedendolo sempre più avvilito e abbattuto.
Non l’aveva mai visto in quello stato, nemmeno in tempo di guerra, quando Genova veniva bombardata, nemmeno quando doveva nascondersi notti intere in fabbrica, per evitare i rastrellamenti dei fascisti; nemmeno quando quella sera i Tedeschi erano entrati in casa loro, pretendendo di essere accolti con tutti gli onori e che venisse offerta loro la cena.
In tutte quelle situazioni, lo aveva visto pieno di coraggio, fiero, a volte persino spavaldo, oppure teso fino all’estremo, ma mai così abbattuto, così colpito nel profondo dell’anima.
Era come se tutta la sua forza interiore fosse andata perduta, fosse scomparsa insieme a Mario; come se si sentisse svuotato e non avesse le energie per superare quella situazione così difficile, tanto più grande di lui, così piena di incertezze.
Lei, che in qualche modo aveva sempre tratto coraggio dalla forza del marito, si sentiva persa. Il suo mondo, che fino a quel momento aveva difeso con grande determinazione, sembrava ora sgretolarsi.
Eppure, pensava tra sé, ne avevano passate tante: il Fascismo, la guerra, il periodo da sfollati a Borgofornari, tutte le difficoltà del lavoro, quella follia degli ebrei deportati e la paura che la sua migliore amica fosse portata via insieme alla sua famiglia.
Come poteva ora tutto il coraggio, dimostrato fino ad allora, non avere improvvisamente più alcun valore, tutti gli sforzi fatti per resistere perdersi così?! Forse erano stanchi, la fine del conflitto avrebbe dovuto permettere loro di rilassarsi, di lasciarsi andare alle gioie quotidiane e di godersi quella pace tanto agognata. Le sembrava impensabile dover sostenere ancora sofferenza.
L’incertezza e l’assoluta mancanza di notizie, era quello forse che più li affaticava; nessuna risposta, nessuna traccia, nessuno sapeva niente, nessuno l’aveva visto, e al di là della frontiera, nessuno diceva nulla.
Ogni sera si sentivano sempre più spossati; lei non riusciva a seguire i figli come avrebbe voluto, cercava di ascoltare tutto quello che ognuno dei tre aveva da dirle appena tornava dal lavoro, ma i suoi pensieri erano sempre troppi e confusi.
Non riusciva a dare un ordine alle cose e sentiva che la questione di Mario li stava coinvolgendo a tal punto, da assorbire le loro energie e rovinare anche il loro quotidiano e la famiglia.
Non poteva permetterlo, doveva ritrovare la sua integrità e, se possibile, essere più forte lei di Attilio. Questa volta doveva aiutarlo a riemergere da quel mare di disperazione in cui si stavano perdendo.

Leggeva molto i giornali, per tenersi informata. La situazione reale della frontiera ad est non era chiara. Dai quotidiani purtroppo non si riusciva a sapere molto. Subito dopo la fine della guerra, Attilio aveva letto sull’Avanti che le truppe del generale Tito erano entrate a Trieste e Gorizia ed avevano spinto alla resa le rappresentanze tedesche e fasciste.
Questa, al momento, era stata presa come una buona notizia da tutti, perché le truppe di Tito collaboravano con i partigiani italiani e la Jugoslavia comunista era amica, come la Russia di Stalin; ma Mario era un rappresentante dello stato fascista e certo non amato dai partigiani di Tito, che erano in cerca di vendetta.
Negli ultimi tempi, prima di ripartire, Mario aveva raccontato che Gorizia era una terra difficile, persino i Tedeschi facevano fatica ad averne il controllo, non era certo un buon posto per fare il commissario di polizia.
Si erano sentite notizie gravissime nel 1943: violenze e fatti tragici perpetrati con efferatezza dai partigiani di Tito sugli Italiani. Non era stato poi confermato nulla ed alcuni dicevano che Mussolini avesse creato appositamente le notizie sulle foibe per fare della propaganda contro gli Slavi; loro in famiglia si erano fatti molte domande sulla questione e ad Anita era sembrato più che probabile che i fascisti volessero mettere in cattiva luce gli Slavi con ogni mezzo, anche coinvolgendo persone innocenti.
La popolazione, raccontava Mario, non era collaborazionista nei confronti del regime, anzi: famiglie di origine italiana e famiglie di origine slovena convivevano nella stessa città e passavano nelle stesse strade, ma questo non era sufficiente a farli sentire uguali.
Mario diceva che gli Italiani erano invisi agli Sloveni, perché considerati tutti fascisti e conniventi col regime. Invece di Italiani antifascisti e pronti ad affrontare la lotta armata ce n’erano, secondo lui, e l’avevano già dimostrato in passato, nel 1943, con la battaglia di Gorizia, un evento straordinario in cui la città aveva resistito eroicamente all’invasione dei nazifascisti.
Lui era conosciuto dai partigiani italiani e sapevano che era un possibile appoggio, uno che al momento del riscatto avrebbe preso le distanze dal comando ed aiutato i partigiani e i cittadini a scacciare i Tedeschi.
«Bisogna solo avere pazienza e presto qualcosa di buono accadrà...», queste erano state le sue parole poco prima della partenza.
Alla fine, quasi per darsi una motivazione valida per andare e non sottrarsi al suo dovere, si era convinto che doveva tornare per la patria, per i suoi ideali di uomo giusto, in cui credeva, per la libertà e per dare il suo contributo.
Anita l’aveva guardato con aria rattristata, mentre parlava così, una sera a cena a casa loro. Sapeva bene che, nonostante fosse un uomo coraggioso e mosso da ideali giusti, diceva quelle cose anche per confortare il fratello e convincerlo che il suo era un dovere morale, sperando così che Attilio lo approvasse.
Ma Attilio non riusciva a partecipare di questo suo entusiasmo forzato; era solo molto preoccupato, la frontiera era un luogo pericoloso per tanti motivi e i superiori di Mario lo avevano inviato là appositamente per punirlo.
Una sera, mentre tornava a casa, Anita ripensava a tutto quello che era successo prima di quella cena, forse anche troppo in fretta, perché se ne potessero rendere conto.
Mario infatti era stato più volte richiamato dai suoi superiori, aveva già commesso troppi sbagli nei loro confronti, perché volessero risparmiarlo.
Era da sempre un oppositore del Fascismo; una volta, quando si trovava in Alto Adige, aveva aiutato una donna ebrea a passare il confine verso l’Austria e, proprio per questo motivo si era dato alla macchia per mesi sui monti della Liguria. Poi, stanco di scappare, si era fatto catturare e dopo tutte queste azioni di cui si era reso colpevole, i suoi superiori l’avevano chiaramente condannato, mandandolo a Gorizia. Lui sapeva di essere obbligato ad andarci, per evitare di essere incarcerato o peggio che se la prendessero con la sua famiglia.
Era inoltre convinto che sua moglie Lea e la piccola Maria Silvia non avrebbero potuto «...sopportare il disonore di un marito e padre disertore, che non si presenta di fronte ai suoi doveri…», ma, in questa sua frase, allora Anita aveva notato un tono meno spavaldo, non più così battagliero, solo profondamente triste.
Così, con la morte nel cuore, avevano lasciato che partisse.

Giovanni, in quel maggio dopo la fine della guerra, continuava a scrivere lettere e richiedere raccomandazioni a coloro che avrebbero potuto in qualche modo fornire un aiuto per la liberazione del fratello, ma si era convinto che bisognasse andare di persona a Gorizia, per cercare Mario, e che non avrebbero potuto presentarsi laggiù senza uno scritto di un rappresentante del partito, che potesse farlo accogliere in modo amichevole sia dagli Alleati che dagli Sloveni.
Non si avevano notizie così certe, ma sembrava che, dopo un periodo di confusione, a Gorizia avessero preso il comando le forze alleate e che i Titini fossero rimasti nel loro territorio di appartenenza.
Attilio si adoperò a lungo e riuscì, attraverso conoscenze all’interno del partito socialista di Genova, ad ottenere una lettera di presentazione per Mario da Palmiro Togliatti in persona, «... ti rendi conto Giovanni, il segretario del Partito Comunista, proprio lui! – scrisse in una sua lettera – quale strumento può essere migliore, per ottenere rispetto ed informazioni dai partigiani di Tito, non sei d’accordo?» scrisse una sera emozionato. Gli sembrava che Mario fosse già un po’ più vicino.
Questa lettera fu determinante perché la decisione di partire diventasse effettiva per i fratelli e fece loro ben sperare per il futuro. Anita decise di unirsi a loro e fu irremovibile.
In alcuni momenti l’idea di quel viaggio, le pareva quasi un’avventura; non ne aveva parlato ad Attilio, non voleva sminuire le sue angosce, né trasformare la ricerca di suo fratello in una caccia al tesoro. No, non era questo che lei intendeva, era un’altra cosa, era che l’idea di intraprendere un viaggio lungo, con diversi mezzi, in un’Italia ancora totalmente distrutta dalla guerra, le metteva certo un’ansia terribile, ma anche un’eccitazione non prevista. Si sentiva come curiosa.
In fondo, non si sapeva quasi nulla di quello che era successo nelle altre zone della penisola, se non quel poco che si riusciva a capire dalla radio e dai pochi giornali che circolavano.
Così invece avrebbe avuto l’occasione di rendersi conto un po’ più da vicino di quello che era avvenuto e di come gli altri Italiani avessero affrontato la fame e la devastazione.
Nei suoi pensieri non c’era cinismo, non aveva certo voglia di vedere ancora, dopo tutti quegli anni, la disperazione negli occhi degli altri. La cosa non la divertiva affatto, ma voleva conoscere, vedere con i propri occhi e capire: questo era ciò che la emozionava.
Inoltre pensava che questa ardente curiosità fosse anche un modo per scacciare la tensione del viaggio stesso e non pensare a quello che l’aspettava e a tutti i disagi che ne sarebbero derivati.

La prima preoccupazione era quella di lasciare i suoi figli senza sapere quando avrebbe potuto fare ritorno: sapeva di affidarli a persone responsabili, ma erano ancora piccoli e tutto il trambusto del trasferimento in città forse li aveva un poco scombussolati, ma in quel momento le sembrava che fosse il marito ad avere più bisogno di lei e, seppure a malincuore, li avrebbe lasciati.
Sapeva che sarebbe stato meglio anche per loro, perché al suo ritorno, avrebbe potuto dedicarsi con maggiore attenzione ad ogni loro bisogno; la situazione di Mario si sarebbe appianata e lei avrebbe avuto più energie e serenità per seguirli.
Li adorava, non era mai stata una madre tanto affettuosa, lo sentiva, a volte persino se la prendeva con se stessa, perché non era in grado di esprimere tutto l’amore che aveva dentro per loro, ma lei sapeva di amarli più della sua vita. L’unico con cui forse riusciva ad esprimere tutta la sua tenerezza era Tino. Fin da quando era nato, avevano avuto una sorta di intesa più forte; aveva forse una preferenza per lui, non l’avrebbe ammesso mai con nessuno, perché non era giusto nei confronti degli altri due, ma nel profondo del suo cuore lo sapeva. Sapeva anche che era sbagliato per una mamma avere una predilezione per uno dei propri figli, ma non poteva essere altrimenti, lui era dolce, affettuoso, gentile e di buoni modi, a volte fin troppo accondiscendente, e spesso i suoi gesti di piccolo uomo la facevano commuovere.


II

Era ormai agosto del 1945 e Giovanni scriveva di aver organizzato tutto nei minimi dettagli, il trasporto, i viveri, i contatti, sarebbero arrivati a Gorizia in pochi giorni e tutto sarebbe andato bene.
«…una volta arrivati là, prenderemo contatti con il comando delle forze alleate e ci faremo dare notizie…» diceva in una lettera. Giovanni era convinto che gli Alleati sapessero dove tenevano Mario prigioniero, perché lui lo immaginava chiaramente chiuso in qualche carcere.
Attilio invece sperava che Mario si trovasse in fuga da qualche parte, nascosto in qualche montagna e che per questo motivo non potesse mandare notizie di sé.
Era un’ipotesi poco plausibile, secondo Anita, perché se davvero fosse stato così, avrebbe in qualche modo contattato i partigiani italiani, con i quali aveva sempre collaborato, ed avrebbe inviato informazioni alla famiglia.
Attilio però non perdeva le speranze e lo vedeva in fuga tra le montagne della Jugoslavia, chissà dove, magari disperso, senza sapere dove andare e di chi potersi fidare.
Anita insisteva a non avere una visione così ottimistica, forse perché non era suo parente diretto, forse perché, come le dicevano spesso, vedeva sempre il lato negativo delle cose.
Non era poi vero, secondo lei, semplicemente cercava di essere obbiettiva, in una situazione che avrebbe anche potuto far supporre dei risvolti tragici, date le circostanze; ma naturalmente per lei era più semplice essere distaccata e pensare che forse Mario stesse passando ore terribili.

Il viaggio in ogni caso venne programmato, Attilio e Anita avrebbero raggiunto in treno Giovanni, dato che avevano riaperto la linea ferroviaria che portava al Brennero.
Da lì avrebbero poi proseguito con mezzi di fortuna lungo i sentieri di montagna, per evitare controlli e fermate che avrebbero loro certo impedito di arrivare fino in Venezia Giulia.
Giovanni scrisse che aveva già preso accordi con persone che conosceva e di cui si fidava e guide alpine che li avrebbero accompagnati nei diversi tratti.
«Guide alpine?! Sei sicuro?» chiese sorpresa Anita ad Attilio, che leggeva la lettera ad alta voce, una sera, «Sì, guide alpine, perché?!» domandò lui.
«Mi sembra un po’ ingenuo pensare che delle guide alpine affrontino tanti rischi in un momento simile, per accompagnare nella boscaglia sconosciuti che si dirigono in un luogo più che pericoloso!» rispose Anita.
«Non vedo perché. Giovanni è molto rispettato da quelle parti, in quanto medico; molti di loro gli devono qualcosa e lo conoscono bene».
«Giovanni non è conosciuto oltre i confini di Bolzano e figuriamoci fino a Gorizia, non esageriamo!».
Anita non avrebbe voluto sminuire le risorse e le capacità di relazione del cognato, ma in certi momenti le sembrava di essere l’unica a rendersi conto che questo viaggio non rappresentava una spedizione di salvataggio e loro tre non erano soldati americani in missione, con tavolette di cioccolato e gomme da masticare.
Attilio si fidava troppo del fratello, secondo lei, contava su di lui come su nessun altro, si spalleggiavano per darsi coraggio vicendevolmente e perdevano di vista l’aspetto più pratico delle cose.

In una delle sue lettere, Giovanni confermò che non avrebbero potuto fare neanche un tratto di viaggio in macchina; scrisse infatti: «Mi danno solo 30 litri di benzina al mese e già ne ho dovuti consumare molti per le visite nelle valli da queste parti».
Avrebbero necessariamente dovuto scegliere un altro mezzo e l’unico adatto era la bicicletta.
«La bicicletta?! – chiese Anita sconvolta e pensando che Attilio la stesse prendendo in giro – scherzate? In bicicletta da Campo Tures a Gorizia?!».
«No – rispose Attilio – a Udine»
«Ah come se fosse tanto più breve» aggiunse lei in tono sarcastico.
«È l’unico modo per non passare dalle strade più battute e controllate e non avere problemi. Stiamo andando a cercare un rappresentante della Repubblica Sociale, lo sai anche tu, non saremmo benvoluti da qualunque partigiano o soldato alleato ed avremmo problemi ad ogni posto di blocco» cercò di calmarla Attilio.
«In bicicletta tra le montagne non mi sembra la scelta migliore, dicono che vi siano fuggitivi e partigiani armati che li cercano, forse sono più tranquille le città; sarà faticoso e lungo, non mi spaventa la fatica, ma la tua schiena è già così dolorante…» aggiunse lei.
«La mia schiena starà benissimo, vedrai, anzi non vedo l’ora di partire!».
Lei lo guardò andare nell’altra stanza. Aveva chiuso il discorso: i due fratelli avevano deciso e questa volta non poteva fare altro che aggregarsi e sperare che avessero ragione.

Anche degli incontri che avrebbero avuto a Gorizia, Anita pensava che non sarebbero stati così positivi, non si aspettava collaborazione almeno non totale, da coloro ai quali si sarebbero rivolti, partigiani o truppe alleate che fossero.
Era sempre più convinta che, una volta arrivati là, avrebbero dovuto trovare altre persone con cui parlare, magari meno importanti, meno in vista e forse, per questo, più ben disposte.
Ma non parlò di questo con Attilio, almeno per il momento, non era il caso di sottoporgli i suoi dubbi, che avrebbero solo peggiorato il suo stato d’animo; preferiva aspettare di vedere come realmente si sarebbe evoluta la situazione.
Mancavano ormai pochi giorni alla partenza. Anita aveva già avvisato i bambini; dapprima aveva tentato di nascondere il vero motivo, ma poi si era sentita in colpa e a disagio: non era mai stata in grado di mentire, nemmeno quando le sarebbe servito di più e così aveva rivelato ai tre piccoli che mamma e papà sarebbero partiti per andare a cercare lo zio Mario.
Erano ovviamente fioccate le domande, «Perché?» «Dov’è andato?» «Ma perché ci dovete andare voi?» e lei sentiva di non essere riuscita a districarsi bene da quelle giuste curiosità. L’avevano letteralmente soverchiata, tanto che ad alcune domande non aveva saputo cosa rispondere. Si accorse che molte erano state le stesse che lei spesso si era posta e alle quali non aveva ancora del tutto trovato risposta.
Invece che rasserenarla, il colloquio con i bambini l’aveva agitata, aveva sperato che le loro faccine candide ed ingenue le avrebbero infuso un po’ di tranquillità ed invece i tre piccoli, senza volerlo, l’avevano messa in angoscia.
In particolare il suo adorato Robertino la guardava con quegli occhi che sembravano quelli di un grande, uno che non puoi ingannare e uno che si preoccupa, già alla sua età, per la sorte dei propri genitori. Lei sapeva che le sarebbero mancati tutti e tre i suoi bambini, ma forse lui un po’ di più, e che quegli occhi dolci li avrebbe portati con sé per tutto il viaggio.
Li affidò alle cure della loro tata, che le era piuttosto antipatica e che forse non avrebbe mai capito, ma che era con loro da anni, era assolutamente affidabile e sapeva gestire i ragazzi in ogni situazione.
E poi avevano il nonno Plinio, il padre di Attilio, che si occupava di loro in modo egregio, li faceva divertire, li portava fuori e insegnava loro tutto quello che lei non avrebbe saputo insegnargli in una vita intera. Non doveva preoccuparsi, pensò, non troppo.


III

Era estate, agosto ormai, ma quella mattina Anita sentiva freddo, si sentiva le mani gelide e l’idea di dirigersi verso le montagne non la metteva certo di buon umore, era sicuramente un freddo psicologico, perché in realtà era un caldo torrido in città.
La stazione dei treni era un caotico turbinio di persone, come sempre, solo che era ancora in ricostruzione e i treni erano pochi e non si sapevano con precisione gli orari di partenza.
Attilio era stranamente calmo e concentrato sul viaggio e il compito che li aspettava; questo le faceva piacere, perché lei quella mattina aveva bisogno di un po’ di fermezza e di qualcuno a cui affidarsi, per trovare tranquillità. Silenziosamente lo ringraziò accostandosi a lui, quando trovarono posto sul treno.
Anita si era seduta accanto al finestrino: le piaceva immensamente guardare dal treno, le era sempre sembrata una visione sul mondo del tutto particolare, quasi come essere al cinema. Le immagini scorrevano, a volte veloci, a volte più lente e si susseguivano paesaggi diversi, campagne, città, paesi, persone che salutavano.
Questa volta gli scenari sarebbero stati diversi dal solito. Da prima della guerra non prendeva il treno, e sicuramente avrebbe assistito ad immagini di distruzione e degrado, ma era forse proprio quello che avrebbe voluto vedere; voleva rendersi conto di ciò che era successo in quegli anni così bui.
Il treno finalmente si mosse e il suo stato d’animo cambiò. Erano partiti, quello che avevano programmato si stava realizzando e si sentì diversa, come chi, ormai trovandosi in una condizione sfavorevole, prende atto di dover affrontare la cosa e lo fa con coraggio e con i migliori propositi. L’adrenalina che si sentiva in corpo l’aiutava a prendere di petto quella che adesso cominciava ad apparirle come una missione.

Il viaggio era lungo e faticoso, il treno spesso si fermava, per motivi di sicurezza, a volte rallentava ed aveva movimenti bruschi, a causa dei binari sconnessi.
Anita era a disagio ma cercava di lamentarsi meno possibile, anche perché notava che anche Attilio era affaticato, spesso si alzava, lamentando dolori alla schiena: certo un viaggio così non poteva fargli bene.
Lei cercava di distrarsi guardando fuori dal finestrino. I paesaggi non erano certo come li ricordava dall’ultima volta che era passata di là: molti campi erano incolti ed abbandonati, case distrutte anche in mezzo alla campagna, l’aspetto più atroce della guerra era tutto lì da vedere.
I combattimenti tra forze alleate e Tedeschi avevano sconvolto quella bella Italia. Certo adesso erano finalmente liberi, ma lo sforzo e il sacrificio che tutto questo aveva richiesto si vedeva chiaramente anche dalle cose, dagli oggetti sparsi nelle campagne. Camionette e armamenti militari distrutti, abbandonati nei prati, nessuno più che si occupasse dei raccolti, paesi interi quasi abbandonati, qualcuno che con fatica raccoglieva calcinacci e pezzi di ferraglia.
In cielo c’era il sole, ma il paesaggio che Anita osservava era scuro, come se il fumo dei bombardamenti fosse ancora lì presente.
Fu avvolta da una sensazione di tristezza e smarrimento quasi insopportabili, guardò Attilio e i suoi occhi trasmettevano chiaramente gli stessi suoi pensieri. Forse quello che si erano immaginati non era così tanto avvilente, questa volta il film che vedevano dal finestrino del treno assomigliava più ad un triste e macabro cinegiornale.

Non meno scioccante fu il continuo controllo dei documenti: passavano sul treno controllori delle ferrovie, ma anche partigiani o soldati delle forze alleate, che chiedevano documenti e biglietti e controllavano continuamente con sospetto fotografie e dati anagrafici. Facevano domande pressanti a tutti e sembravano non essere mai abbastanza convinti di quello che i passeggeri dichiaravano.
Anita era agitata e sentiva che anche Attilio lo era, gli tremava un poco la voce, mentre ripeteva che erano in viaggio per far visita in Alto Adige al fratello, che non era in salute e volevano sincerarsi delle sue condizioni. Naturalmente i diversi funzionari che li interpellavano volevano sapere tutto di loro ed anche di Giovanni; ma quello che ad Anita creava più angoscia erano le armi, tutti erano armati e le tenevano in bella vista pronti ad utilizzarle.
Non che non ne avesse viste in quegli anni, ma ora non ne poteva più; davvero era esausta di vedere fucili, mitra e pistole puntate, le mettevano una grande tensione e un senso di prigionia insopportabili.

Quando furono liberi dai controlli si rimisero a guardare fuori, i paesi erano quasi irriconoscibili, la pianura padana era uno scempio. Il treno viaggiava lentamente, la linea era stata interrotta in più punti da esplosioni e smottamenti del terreno; le riparazioni erano state fatte in fretta, in modo da permettere ai treni di riprendere i viaggi, quindi in modo non molto preciso.
Anita, nel vedere quello che le passava davanti, si sentiva assalita da una profonda commozione: le sembrava di avere nelle orecchie i rumori lancinanti delle esplosioni, vedeva le case crivellate di colpi e sentiva dentro di sé il frastuono degli spari. Le si riempirono gli occhi di lacrime, pensava alla gente comune che scappava da quella distruzione e cercava riparo dove poteva, le sembrava di rivivere i momenti drammatici di Genova, ma molto più da vicino.
Si sentì un groppo in gola, quando vide l’ennesimo cratere creato probabilmente da una bomba. Tutto questo era per lei insopportabile, sentiva dentro di sé le urla delle persone terrorizzate dai bombardamenti, le sembrava di vedere donne e bambini che correvano ovunque pur di salvarsi.



Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it