Racconto premiato di Leila Gambaruto

Con questo racconto si è classificata all’ottavo posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Le ferali previsioni di una cartomante andalusa, si avvereranno per Faustino, un circense dal cuore torturato. L’ironia della sorte è che per sventare il terribile vaticinio, Faustino, fuggendo dalla morte, la realizzerà, come nella famosa leggenda di Samarcanda. L’autore conclude il racconto con un finale tragicomico decisamente originale». Alessandra Crabbia


Gli elefanti di Amanda

Faustino si chiedeva spesso perché Amanda, la sua splendida amica, avesse concesso i suoi favori proprio a lui, che come aspetto fisico lasciava piuttosto a desiderare, quando avrebbe potuto avere ai suoi piedi tutti i maschi più affascinanti del circo Oremus e, benché la giovane donna si dimostrasse sempre appassionata e piena di ardore nei suoi confronti, lui si tormentava in preda ai demoni della gelosia, temendo la fine imminente della sua fragile storia d’amore.
Anche perché Amanda non era libera. Aveva sposato un certo Francisco, un irascibile lanciatore di coltelli e il piccolo circo Oremus era un ambiente familiare, dove si finiva sempre per sapere tutto degli uni e degli altri.
Francisco aveva creato un trio con i due fratelli più giovani, ma era lui il lanciatore più abile, la stella dello spettacolo capace di affascinare il pubblico con dei numeri mozzafiato. Purtroppo una brutta forma di artrosi stava seriamente minando la sua carriera e il padrone del circo, costernato nel vederlo sbagliare i lanci sempre più spesso, minacciava apertamente di licenziarlo.
Francisco si era messo a bere per dimenticare i suoi guai e quando era sbronzo se la prendeva con la moglie e la malmenava duramente. Spesso la povera Amanda, che si esibiva con tre elefanti, doveva mascherare sotto il trucco di scena dei lividi vistosi, sfoggiando per il pubblico dei larghi sorrisi che si trasformavano spesso in smorfie di sofferenza. La giovane donna si lamentava per le botte del marito e piangeva spesso, ma quando Faustino le proponeva di abbandonare l’irascibile alcolizzato per rifarsi una vita insieme, lei recalcitrava, accampando mille pretesti.
Così finivano per litigare, poi facevano appassionatamente la pace ed invariabilmente Amanda prometteva al suo amante che prima o poi, al momento giusto, lei avrebbe lasciato il marito, ma il tempo scorreva inesorabile ed Amanda non trovava mai il momento giusto.
Con la gente del circo Oremus viveva una vecchia andalusa. Ormai era troppo anziana per lavorare, ma si arrangiava dando una mano un po’ qui, un po’ là e tutti cercavano di aiutarla.
Sovente gli artisti andavano a trovare la donna nella sua roulotte e le portavano una bottiglia di vino rosso per farsi leggere le carte. Una sera d’autunno Faustino, che si sentiva solo e più depresso del solito, bussò alla roulotte dell’andalusa con la sua bottiglia di vino, perché voleva sapere come sarebbe finita la sua storia d’amore con Amanda.
Abitualmente la vecchia era gentile e simpatica, specialmente quando riceveva un dono, ma quella sera non fu così. Non appena incominciò a maneggiare le carte, divenne tesa, nervosa, poi francamente ostile e si alzò in piedi bruscamente, rimettendo in mano a Faustino la bottiglia che le aveva appena offerto.
«Portala via!» gli disse. « E vattene! Io non voglio niente da te!».
«Ma perché?» chiese Faustino, stupefatto. «Ti ho forse offesa? Guarda che io non volevo…».
«No» rispose la vecchia, “non mi hai offesa. Soltanto…» Lasciò la frase in sospeso. Nei suoi occhi arrossati Faustino lesse dolore e paura… paura per ciò che aveva letto nelle carte. Che cosa significava quell’atteggiamento? Rabbrividì, suo malgrado.
«È per quello hai visto nelle carte? La fine dei miei sogni?».
La risposta lo colpì come uno schiaffo. «Ho visto la tua morte!».
Faustino fu talmente sorpreso che non seppe più cosa dire. Era forse uno scherzo? No, la vecchia non scherzava mai, specialmente quando prediceva il futuro. Cercò di ridere, ma emise un suono rauco e strozzato. L’andalusa lo guardò con simpatia, Faustino era sempre stato gentile nei suoi confronti e non avrebbe voluto turbarlo, ma le carte erano state chiare. «Stai attento, Faustino» gli mormorò in un soffio. «Stai molto, molto attento!».
«Come morirò?» chiese l’uomo, «E quando?».
La vecchia scrollò le spalle. «Tu chiedi troppo… ma sappi che c’è un elefante… c’è un elefante nella tua morte!».
Faustino tentò di mascherare il suo turbamento, ma non ci riuscì. Improvvisamente lo colpì il pensiero che tra gli amabili pachidermi addestrati dalla sua donna si celava un potenziale assassino.
Come ad esacerbare i suoi sospetti, un lungo, cupo barrito risuonò nell’oscurità, simile ad un richiamo o ad una sfida… Faustino riconobbe la vecchia Jaya, una femmina enorme, che stava già dando dei problemi agli inservienti …La voce della sua morte!
Faustino si sentì improvvisamente piccolo, vulnerabile. Era in pericolo! In preda al panico, corse fuori inciampando negli scalini e si precipitò a cercare rifugio nella sua roulotte, sentendo ancora nelle orecchie la voce roca della vecchia che gli mormorava in un soffio «Stai attento, Faustino. Stai molto, molto attento».
Quando raccontò l’episodio ad Amanda, lei lo fissò interdetta, spalancandogli in volto quei suoi magnifici occhi scuri che lo turbavano sempre come al loro primo incontro. Poi scoppiò a piangere.
«I miei elefanti non ti farebbero mai del male. Sono animali docili, mansueti…»
«Ma sono pur sempre dei pachidermi» replicò Faustino. «La vecchia Jaya ha cercato di aggredire un inserviente».
«Quell’uomo era cattivo!» gridò Amanda tra le lacrime, «Si divertiva a farle dei dispetti! Jaya è affettuosa come una bambina! Non farebbe del male a una mosca!» e raddoppiò i singhiozzi.
«Su, Amanda, non fare così», cercò di consolarla Faustino, porgendole un fazzoletto. «Dopotutto non è detto che il pericolo si nasconda proprio dietro ai tuoi elefanti».
Lei si tamponò delicatamente gli occhi. «Stai attento a Francisco, piuttosto. Ha un tatuaggio sull’inguine. Una testa di elefante».
Faustino provò un’acuta, irragionevole fitta di gelosia: «Non me lo avevi mai detto».
«Non mi sembrava il caso. Anche i suoi fratelli hanno lo stesso tatuaggio».
«Ma davvero? E tu come lo sai?».
Amanda arrossì vivamente. «Oh, li ho visti una volta in piscina, con un costume da bagno ridotto…» poi aggiunse, con aria svagata «Ma forse le carte non parlavano di loro. Anche Petra, la contorsionista…».
«Non ha tatuaggi da nessuna parte».
«Ti credo, ti credo, visto che voi due avete avuto una lunga storia e tu hai avuto tutto il tempo di controllare. Ma io mi riferivo al suo anello portafortuna, che lei non si toglie mai e che raffigura un elefante con l’occhio di rubino».
«Ma perché Petra dovrebbe volermi del male? La nostra storia è finita da un bel pezzo».
«Forse lei non ti ha mai perdonato di averla lasciata. Ho sentito delle voci in giro». Ed Amanda riprese a tamponarsi gli occhi. Faustino le prese le mani e la strinse a sè, con tenerezza.
«Amanda, ascoltami: io me ne vado! E questa volta ho deciso, non torno più indietro. Ho ricevuto una proposta molto interessante da un grosso circo internazionale, che sta organizzando una tournée in Spagna e devo andare a Roma per firmare il contratto. Se tu mi ami veramente, vieni via con me».
«Quando?».
«Adesso, subito. Prendiamo l’autobus che porta in città, andiamo alla stazione e saliamo sul primo treno che va verso Roma».
Lei lo fissò sgomenta. «Vuoi partire così? Prima dello spettacolo? Senza bagagli e senza avvisare nessuno?».
«Vuoi che tuo marito ci ammazzi entrambi? Dobbiamo andarcene di corsa, senza farci notare! Quando saremo lontani penserò io ad avvisare il padrone e a regolare tutto, non preoccuparti. Sempre che…» aggiunse con il cuore in gola, «sempre che tu voglia veramente partire con me».
Trascorsero alcuni attimi di silenzio, brevi e dilatati nel tempo, un’agonia d’attesa per decidere di tutta una vita. Faustino si sentì morire.
Poi Amanda smise di piangere, sollevò verso di lui i suoi grandi occhi vellutati, caldi di tenerezza e, prima ancora di sentirla mormorare piano «Parto insieme a te», Faustino capì di avere vinto.
I due amanti non ebbero difficoltà a raggiungere la città in autobus, ma quando furono nella stazione centrale scoprirono con vivo disappunto che a causa di un ennesimo sciopero ferroviario non c’erano treni in partenza fino al giorno successivo.
Erano stanchi ed affamati, per cui incominciarono a cercare un albergo non troppo costoso nei pressi della stazione, ma curiosamente, tutti gli alberghi della zona parevano essere al gran completo. Girarono e rigirarono inutilmente, senza riuscire a trovare una stanza libera, nemmeno modesta.
«È per via della Fiera d’Autunno» diceva Amanda, ma Faustino scuoteva mestamente la testa. Aveva captato suo malgrado certe lunghe occhiate oblique, certe pause d’imbarazzato silenzio, prima di sentirsi rispondere che non c’erano più stanze disponibili. «È il nostro aspetto che non piace, Amanda», le rispondeva malinconicamente. “Sarà anche perché non abbiamo bagagli» commentava Amanda, cercando di rincuorarlo. «Forse…» mormorava Faustino. «Forse… sarà come dici tu…».
Finalmente, quando era già calata la sera, qualcuno disse loro: «C’è un piccolo albergo in ristrutturazione, in cima alla salita del borgo vecchio. Non sappiamo se le stanze sono disponibili, ma il ristorante è aperto e si mangia anche bene. Provate a vedere lì».
Amanda e Faustino s’inerpicarono stancamente. L’alberghetto era una modesta costruzione che scompariva letteralmente sotto i ponteggi, ma dalla saletta illuminata del ristorante filtravano dei ghiotti sentori di buona cucina ed alcuni clienti cenavano già, seduti ai tavolini rotondi.
Il padrone del locale, un uomo robusto con un sorriso smagliante, li accolse cordialmente, scusandosi per i disagi dei lavori in corso. Disse che aveva ancora un paio di stanze disponibili al pianterreno e se volevano mangiare, potevano accomodarsi al tavolo che preferivano.
Faustino ed Amanda incominciarono a rilassarsi. Sedettero ad un tavolo un po’ appartato e chiesero il menù.
Mentre aspettavano di essere serviti, Faustino cercò il bagno.
«Vada al piano di sopra», gli disse il padrone. «In fondo al corridoio, l’ultima porta a destra, giusto di fronte alla terrazza. Faccia attenzione ai calcinacci».
Faustino salì le ripide scale e s’addentrò nel corridoio debolmente illuminato da una nuda lampadina giallastra, respirando un acre odore di solventi e vernici, che prendeva alla gola. Ovunque mattoni rotti e fili che penzolavano. Molti infissi erano stati tolti e giacevano accatastati in disordine, sostituiti da pesanti teli di plastica, che frusciavano misteriosamente, mossi dalle correnti d’aria. Faustino cercò di orientarsi, inciampando nel pavimento sconnesso. Cos’aveva detto il padrone? In fondo a destra. Improvvisamente scivolò e cadde sulle ginocchia, puntellandosi con le mani in avanti. E mentre cercava di rialzarsi, se lo vide davanti: l’elefante della sua morte!
Faustino tentò di urlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.
L’elefante stava lì, immobile in fondo al corridoio, nascosto dietro un telo di plastica che oscillava lievemente, mosso dalla brezza. Aspettava lui!
Faustino si rimise in piedi barcollando, tentò di fuggire. Il mostro (era un uomo? Un elefante? Entrambe le cose?) protese verso di lui delle molteplici braccia d’ombra e di morte.
Faustino si gettò verso la terrazza, folle di terrore, dove un ammasso di travi e grosse corde celava insidiosamente il bordo in rifacimento senza parapetto. Per un attimo rimase fermo in equilibrio, piccola figura patetica sullo sfondo disordinato dei ponteggi poi, con un grido straziante, cadde all’indietro, roteando le braccia e si schiantò sul cemento sottostante.
E questa fu la drammatica uscita di scena di un grande artista, il nano Faustino, clown innamorato con un cuore romantico più grande di lui.
Poi tutti si mossero in modo caotico e disordinato, cercando di dare una spiegazione a quella morte assurda. Mentre un medico si occupava di Amanda che tremava e batteva i denti in stato di choc, tutti i presenti nella sala erano concordi nel testimoniare che il nano pareva calmo e sereno quando era salito a cercare il bagno. Ma che cosa era successo? Il piano superiore era deserto, nessuno l’aveva spinto. Era stato un malore? Una disattenzione? Un suicidio meditato da tempo?
Soltanto Ganesha, il dio elefante, avrebbe potuto rispondere a tutte quelle domande, ma non poteva parlare. Era soltanto una insegna di latta che, restaurata e ridipinta, se ne stava saggiamente appoggiata al muro, protetta da un telo di plastica, aspettando di poter tornare al suo posto sulla facciata dell’edificio restaurato, a reclamizzare l’eccellente cucina del ristorante indiano che si chiamava “Ganesha” pure lui.


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