Con questo racconto è risultato 4° classificato – Sezione narrativa alla XIX Edizione del Concorso Marguerite Yourcenar 2011,
Questa la motivazione della Giuria: «La sofferenza ed il mal di vivere di un uomo, insegnante di Linguistica applicata, che deve fare i conti con lacerazioni interiori e devastanti angosce. Il dramma della sua vita non può essere sanato neanche dall’amore di Petra. Racconto che indaga nel profondo, penetrando l’inabissamento nel mondo oscuro, attraverso interessanti riferimenti al mondo dell’arte e della musica».
Massimo Barile
Seduto sulla luna
Solo vagava per la piana di Aleia rodendosi l’anima,
evitando il passo degli uomini.
Miro anche quella notte si svegliò di soprassalto. E sarebbe stato cosi per parecchie altre notti. Sognava che giaceva addormentato in una grotta quando Selene durante il suo giro notturno lo vedeva per la prima volta. Si sdraiava al suo fianco e dolcemente gli baciava gli occhi chiusi.
Sognava anche di ritornare nella stessa grotta e di cadere in un sonno senza sogni dal quale non si sarebbe ridestato mai più. Non capiva se ciò accadesse per sua volontà, perché lo terrorizzava l’idea di invecchiare o perché Selene, la luna, preferiva baciare il suo corpo inerte anziché essere oggetto della sua troppa passione. Lottava così contro il sonno e quando la luna perdeva lo splendore perché il sole s’affacciava sul suo viso pieno e le palpebre parevano tradirlo nel sonno senza fine, si destava di soprassalto. Vedeva la luna che lo fissava mezza nascosta dalla tenda della finestra, aspettava che il tempo la portasse via e si riaddormentava.
Così per tutti le notti di luna piena mentre il lago si rifletteva nel cielo chiaro, con tutto quanto nelle sue acque si specchiava.
Da un po’ di tempo Miro aveva ricominciato a dormire. Dormiva un po’più regolare, ma si svegliava, sempre, male. La sua giornata iniziava, il più delle volte, da una linea, una linea nera che premeva, come se avesse peso, da dietro le spalle, e lo teneva lontano dal sonno.
A questa linea sovrastava qualcosa di giallo, sembrava tremasse. Pareva luce e vuoto, lampi che nascevano in una parte remota della sua testa e accecavano gli occhi. Poi, altre linee più piccole, sottili come aghi sottili, correvano lungo le sue mani e le intorpidivano. Sembravano bruciare. Uno strano formicolio percorreva, allora, il suo corpo intero e usciva dal sonno, all’improvviso, come se l’avesse percorso una scossa elettrica. Si svegliava, e, ogni volta gli sembrava svegliarsi in una stanza sconosciuta. I muri senza colore, e di fronte, alla porta, vedeva sospeso qualcosa. Qualcosa senza vita, sospeso alla porta senza essere tenuto da niente.
«Continuerai a prendere le pillole ancora…» gli disse il medico, «di seguito vedremo. Devi riprendere a dormire. Questo adesso importa. Comunque, io vedo dei miglioramenti…» disse. E aveva ragione il medico, pensava Miro, perché da un po’ di tempo avevano smesso anche le voci. L’altro, che aveva dentro di sé, quello che gli parlava in continuazione con voce bassa, quasi mormorando. Lo lasciava tranquillo anche la paura, quella che lo teneva continuamente con un nodo alla gola da non poter stare da nessuna parte, che lo spingeva a tagliarsi nei vetri le mani e trovare un modo, un altro, perché terminasse quella cosa che lo tormentava. Più tranquillo era adesso, anzi aveva cominciato a dormire, e trovare un po’ di riposo. Certo non si svegliava bene, lo sapeva, ma dormiva, cosa che prima non gli riusciva per niente. Stava tutta la notte sveglio e aspettava. «Ho vissuto per dieci anni con la testa girata all’indietro», si era abituato a ripetere Miro.
Fu una primavera che Miro cominciò ad essere afflitto per la prima volta dall’insonnia. Quel mattino di allora, non ricordava come, che cosa avvenne, la scena che aveva ancora in testa con la luna rimasta immobile nel cielo nonostante la luce del mattino, gli si cambiò e lui si trovò improvvisamente in strada. Il giorno era insignificante ed era solo. Rincorreva di corsa una dopo l’altra le strade che sembravano in movimento loro, mentre le auto erano ferme davanti ai semafori che continuavano più che mai a rimanere rossi. All’improvviso il verde del semaforo e il movimento sregolato delle auto gli fece girare la testa come quando da molto in alto si guarda per terra. Il tremore lo immobilizzò. Temette di impazzire o di morire. Alla sua immobilità venne prontamente in soccorso il portone che si trovò a fianco. Qualcuno si prodigò a sorreggerlo. Tentò di dire qualcosa. La perdita del linguaggio era una privazione terribile. Non è che esso se ne vada via davvero, è che si chiude dentro. I suoi pensieri erano tutti alla rinfusa. Cominciò a pensare a qualcosa, o a parlarne, ma non arrivava mai al punto. Vagava nella direzione sbagliata e veniva afferrato da ogni sorta di idee diverse che forse erano o potevano essere collegate con quello che voleva dire, ma in un modo che non riusciva spiegare. Le parole inciampavano una a ridosso dell’altra. I loro suoni rotolavano indistinti nelle sue orecchie che invano cercavano di ricomporli. Sembrava che suoni e parole avessero perso la loro identità, la relazione degli uni con le altre. Chi lo ascoltava si perdeva più di lui.
Miro si era anche abituato a reggere lo sguardo interrogativo di Petra, quando lei non comprendeva perché stringerlo tra le sue braccia o passar la mano tra i suoi capelli, non gli portasse nessun sollievo. Teneva strette le mani nelle sue mentre lui tornava a guardarla come se fosse tornato dall’inferno. Continuava a confrontarsi nella sofferenza e nel mal di vivere di Miro con un’appassionata partecipazione al destino dell’ uomo che amava. Lei guaritrice ferita per non averlo potuto salvare, lui portatore del male. Intuiva il profondo dolore di Miro perchè la sua diversità faceva parte dei possibili risvolti dell’esistenza e perché essa, in parte era anche in lei. La intuiva. La intuiva e la temeva.
Petra lo aveva visto per la prima volta molti anni prima. Il ricordo di quell’ incontro la riempiva ancora di calore. L’aula era talmente colma che la gente riempiva perfino la scalinata posteriore che portava ai banchi della parte alta dell’emiciclo. Vedeva, all’altezza dei suoi occhi, l’inizio della ringhiera che delimitava la fine della scala dal corridoio che scendeva verso la cattedra, pieno di persone, quando sentì per la prima volta la sua voce. Dovette aspettare quasi la fine della conferenza per riuscire a scorgere la sua sagoma giù in basso. Infine, il suo viso, seduta finalmente nell’ultimo scalino quasi di fronte a lui, quando finito di parlare, aveva cominciato a rispondere alle prime domande.
Si accorse presto che aveva sbagliato aula. Si dibatteva dell’invenzione della scrittura. Miro, per lei ancora senza nome, affermava che essa nasceva come strumento più finalizzato allo sfruttamento degli uomini che alla loro crescita intellettuale. Riferiva dei primi documenti scritti che non avevano altro scopo se non quello di informare i signori dei palazzi cretesi sull’ammontare della loro ricchezza e sugli spostamenti dei loro sudditi. Per millenni uno strumento di costrizione per le masse che non avevano accesso alla conoscenza, che facilitava l’asservimento, prima di diventare uno strumento di liberazione dalla servitù dei potenti e di liberazione dello spirito.
Più tardi Miro, vedendola ancora seduta sull’ultimo gradino nell’aula ormai vuota, le tese la mano per aiutarla ad alzarsi e mentre uscivano le spiegò che la prima scrittura nata già quattromila anni prima, era la scrittura sillabica chiamata lineare A, ancora non decifrata, usata dai micenei che poi crearono, sulla base del suo sillabario, la loro scrittura lineare B che qualcuno classifica come lingua di origine greca.
Petra era affascinata nell’aver appreso che le “antenate” delle lettere che utilizzava quotidianamente nelle formule e nei calcoli del suo lavoro avevano un origine cosi dibattuta e misteriosa.
Petra e Miro si videro il giorno dopo e quello dopo ancora. Lei si innamorò quasi subito. Una sera, in piedi dietro la finestra chiusa, teneva la tenda scostata a guardare l’unica stella che si prodigava nel mucchio. Miro, alle sue spalle, gliela indicava con una mano mentre l’altra s’appoggiava intorno alla sua vita. Abbassò lo sguardo quando lei si girò. Un bacio lungo, una carezza lenta tolsero loro la parola. Le mani, goffamente, cercavano gli uni il corpo dell’altro. La sottile linea di imbarazzo scivolò, rotolò sul pavimento senza rumore, assieme al vestito color canarino polveroso di lei.
Quanto lei tornò a guardar il cielo, dietro la finestra, altre stelle avevano preso il posto di quella di prima, inseguite da altre.
Spesso si sarebbe chiesta, anni dopo, quali erano i sogni che lui non aveva mai sognato, quali le emozioni mai provate.
Era tornata ad incontrarlo anni dopo. Lui, non girava più il mondo a far conferenze anche se continuava ad insegnare Linguistica Applicata. Anche lei era cambiata. Fisicamente era rimasta ancora una donna che piaceva. A Miro continuavano a piacere i suoi fianchi larghi, il tratto del suo corpo senza nulla di superfluo. Gli piaceva anche la nuova visione che Petra aveva del suo lavoro, il riconoscere i limiti della specificità dell’attività svolta fino a poco tempo prima, l’occasione di vivere una sfida di lavoro unica. Era come se ad un architetto abituato a progettare solo case o ponti avessero chiesto di progettare una città intera e questo oltre a intimidirla la rendeva giovane come una volta. A Miro, durante i primi tempi, piaceva accompagnarla in questa sfida, osservare, seppur da lontano, come queste idee prendevano forma e diventavano realtà.
Il “viaggio” di Miro intrapreso quel lontano mattino, con la luna che tardava a nascondersi per paura di perdere il suo incantesimo, lo aveva portato lentamente, ma inesorabilmente, in uno stato di malinconia permanente. La mattina, spesso, era il momento peggiore. La sentiva arrivare come una nube tossica, lo spogliava della stima che aveva di sé ed ogni sentimento orribile seppellito all’interno la sua anima affiorava e diventava insostenibile, come un grande dolore fisico. Il tempo per sé pareva rallentato. Petra invece era la speranza, il ritmo del mondo che lo circondava. Malinconia e speranza si conciliavano poco. Ma lui si accorgeva sempre di meno della marginalità nella quale Petra s’inabissava lentamente. Così l’ambiguità di entrambi si rincorreva nel tempo.
Spesso, un’ immagine, una parola detta, richiamavano altro, si intromettevano nel flusso dei pensieri che Miro non riusciva ad allontanare, si insinuavano nel suo presente, ovunque lo vivesse, mentre si cenava o si cercava il parcheggio nelle vicinanze di un cinema o di un grande magazzino, mentre si parlava di qualcosa che forse avrebbero dovuto fare o volevano fare. Così il presente richiamava il passato, le figure si confondevano e pur riconoscendone l’irragionevolezza, si sovrapponevano, diventavano tutt’uno con loro due ed improvvisamente diventavano in tanti. Impegnavano Miro in una serie di pensieri elaborati, di lacerazioni interiori, dei quali non riusciva più a prevenire le conseguenze. Miro non distingueva dentro di sé queste due parti, pezzetti di puzzle di vita diversi che si componevano in uno terzo, non le distingueva per porsi come mediatore tra queste.
E Petra se ne accorgeva, realizzava un silenzio durato un istante di più, si voltava ed incontrava il suo sguardo che fissava il vuoto con occhi lucidi e persi in cui lui stesso era talmente immerso fino ad esserne annullato.
Petra qualche volta passava a prendere Miro all’uscita dello psicoterapeuta. Si attivava in lui qualcosa che, pur senza interferire direttamente con il dramma della sua vita, pareva aiutarlo ad attutire le tensioni devastanti tra i fantasmi interni e se stesso. Così, non potendo riemergere dal mondo in cui si era perso, se ne sentiva meno minacciato. Era, quello col medico, unico rappresentante della normalità, un contatto labile ma tale da lasciare sperare che la via tra il mondo dell’oscurità ed il mondo della luce diventasse accessibile e permettesse a Miro il rapporto con gli altri. Egli sopiva in lui il contrasto fra l’illusione per uno stato desiderato e la delusione della realtà che provocava disistima e distruzione, e quello dell’ ambivalenza e del lutto inconsolabile dovuto all’abbandono della figura della madre e della rabbia contro se stesso e contro chi gli stava vicino. Miro all’uscita, lungo il camminamento dell’atrio che attraversava per giungere a lei, pareva distrutto dall’assunzione di queste proiezioni sulla propria figura, da questo scontro dove ognuno dei protagonisti il cattivo o il buono, il persecutore o la madre, le due realtà, avrebbero reso impossibile o no, secondo la prevalenza degli uni sugli altri, l’incontro e lo scambio con il resto del mondo.
Petra si sentiva impotente. Si vedeva inerte nel perdere qualcosa che si accorgeva esserle caro ed estranea perché esclusa da quelli spazi che, interrompendo il rapporto di Miro con il mondo, lo interrompevano anche con lei. Ed inspiegabilmente si sentiva anche tradita dall’inconsumabilità di quel suo mal di vivere.
Durante i primi tempi Petra era intollerante ed incapace di comprendere. La sua reazione alla malattia era tipica del pensiero di chi non potava ammettere la propria inutilità. Era offesa dallo sconvolgimento che il mal di vivere di Miro causava all’interno della coppia. Speso era rabbiosa e piena di risentimenti. Poi venne il secondo stadio. Petra cominciò ad apprendere. Imparò i sintomi di quella malattia che contribuivano all’angoscia ed alla tristezza del temperamento di Miro. E poi imparò la lezione più importante di tutte, e cioè che il suo uomo non aveva scelto di condurre quella vita. Capì che tutto questo gli era stato imposto in modo crudele ed arbitrario, e che lui aveva un merito enorme a continuare a vivere.
Una di quelle volte, non vedendolo arrivare si inoltrò lungo il camminamento dell’atrio e salì sino allo studio al quarto piano. La porta si aprì davanti ad una sala d’aspetto vuota. Petra si accomodò in una sedia, incerta sul da farsi. Di fronte a lei l’attestato di specializzazione del medico. Una litografia più in là le attirò lo sguardo. Riconobbe la “Cascata” di Escher. Un flusso d’acqua che cadendo dall’alto mette in funzione un mulino il quale, a sua volta, spinge il flusso in un canale che, a zig zag, torna all’inizio della cascata. Una costruzione impossibile da costruirsi ma possibile da disegnare, avvalendosi della stranezze della prospettiva e della percezione. Petra sapeva, perché tempo addietro l’aveva studiato, che per ottenere questo effetto egli aveva unito due triangoli, chiamati anche triangoli impossibili e resi popolari dal matematico Penrose, in un’unica figura. Mentre Petra rifletteva sul come la suggestione spaziale di un’immagine piana così forte poteva suggerire su di essa dei mondi che, in tre dimensioni non avrebbero potuto assolutamente esistere, la porta a fianco del quadro si aprì e lo psicoterapeuta le venne incontro. Incrociò lo sguardo di Petra che era ancora sulla litografia e disse:
«Escher era molto colpito dal rapporto esistente tra le dimensioni. Si è soliti rappresentare forme tridimensionali su superfici che non ne hanno che due. Questo antagonismo crea dei conflitti.»
Dalle porta socchiusa Petra vedeva di spalle Miro. Si alzò da dov’era seduta e nel tendergli la mano replicò:
«Era in grado di produrre scene in cui l’alto ed il basso, l’orientamento degli oggetti a destra o a sinistra, dipendevano dalla posizione che l’osservatore decideva di prendere.»
«Vede», le disse girandosi a guardare anche lui la litografia. «Succede lo stesso anche nell’anima degli uomini. Qualcuno lo chiama il fenomeno dello Strano Anello(2). Esso consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico o strutturato, al punto di partenza. E non riuscire a uscirne più. Stritolati o irrigiditi tra opposte polarità, incapaci di scegliere ed esprimere una condizione di cui si è pure dei tragici testimoni. Come l’anello eternamente discendente di questa cascata.»
Tentò di fermarsi ma continuò con voce metallica: «Lei conosce la musica Petra. Miro mi parlò molto di lei.» Fissò ancora per un istante la parete e disse:
«Spesso questo quadro fa venire in mente un altro anello, questa volta eternamente ascendente, quello del Canon per Tonos, uno dei canoni dell’Offerta musicale che Bach scrisse per Federico il Grande. Il suo tema è in do minore. Ciò che rende particolare questa musica è che quando sembra concludersi non è più in do minore, ma in re minore. Bach modula la tonalità in un finale costruito perfettamente legato all’inizio, senza che l’ascoltatore se ne accorga. La cosa si ripete arrivando alla tonalità mi, ed ancora più avanti. Queste successive variazioni conducono l’orecchio a tonalità sempre più lontane, tali che ci si aspetterebbe di trovasi lontanissimi dalla tonalità di partenza. Eppure come per magia, dopo sei di questi cambi di tonalità, esattamente come l’anello a sei componenti della cascata di Escher, viene ristabilita la tonalità iniziale in do minore. La somiglianza tra i due simbolismi è impressionante. Bach ed Escher ci coinvolgono sullo stesso tema con due chiavi di lettura diverse, una visiva, l’altra musicale. Così succede anche alla psiche dell’uomo e succede spesso. Apparentemente senza alcun progetto creativo come quello evidente di questi signori.»
Petra non lo vide più anche se continuò a sentire per lungo tempo la sua presenza e, non andò più ad aspettare, per la fine della seduta, Miro all’uscita.
Amare, desiderare, appartenere, esistere, credere, ritenere, sperare, confidare, pretendere, volere, esigere, reclamare, rivendicare, attendere, ridomandare, lottare, combattere, supporre, misurare, competere, lacerare, indebolire, strappare, dilaniare, sciupare, dissipare, stremare, spossare, estenuare, sfinire, perdere, smarrire.
La grande vetrata si specchiava nel lago con le sue luci e con quelle già accese della città e con loro assieme si specchiava anche Miro. Miro era in piedi, voltato di tre quarti, a guardare l’acqua tra gli alberi ed i palazzi che si perdevano lontano. Petra tranquillizzava al citofono il tassista arrivato per portarla all’aeroporto. Prima di tirare la porta di casa dietro di sé, Petra si voltò di nuovo verso di lui. Il primo quarto della luna nuova, sorta da poco, straordinariamente grande perché vicinissima all’orizzonte di quell’ inizio d’estate, ammiccava dietro le spalle di Miro. Non si affrettò. Miro pareva seduto sulla luna. Sulla parte dello spicchio coperto dal suo corpo. Per un istante sembrò perfino che dondolassero assieme nell’aria. Per un istante che sembrò un eternità, come la porta che dietro alle sue spalle lentamente si chiudeva.
Leonidas Michelis