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L’albero delle arance amare
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In copertina e all’interno illustrazioni di Raffaele Gerardi
Prefazione
Se scrivere è per molti un’urgenza, e se leggere è un gesto istintivo per chiunque ami guardare la realtà attraverso occhi sempre nuovi, capiamo che non è necessario conoscere L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, o il Viaggio dell’eroe di Chris Vogler, né è doveroso sprofondare tra le teorie sulla fiaba di Propp o padroneggiare le tecniche narratologiche compendiate da Robert McKee nel suo Story, per rendersi conto, e prima ancora intuire, che gli snodi cruciali dell’esperienza umana sono tali da ripetersi in ogni storia, di ogni tempo e a ogni latitudine, in un perenne rincorrersi di evoluzioni che non perdono mai di vista i propri modelli archetipici.
Di questi archetipi, L’albero delle arance amare pare a tratti riproporci l’impronta vera e profonda, un patrimonio di suggestioni che affondano in un’ancestralità narrativa che sa di focolare, e parole affidate al buio di notti lontane. A metà strada tra poemi omerici, epopea cavalleresca, profondità psicologiche e intrighi shakespeariani, dipanandosi in un arcipelago affollato di figure sospese tra realtà e fantasia, il romanzo di Lidia Maggioli ha in sé la forza ipnotica del racconto orale e le malizie del romanzo che non si lascia accantonare, facendo della densità di trama il suo tratto principale. È una sorta di Comédie humaine “mediterranea” sfranta di sole e salsedine, quella che si consuma su queste isole – in realtà collocate nel cuore del Pacifico – con i loro protagonisti impegnati a sciogliere i nodi (è proprio il caso di dirlo!) e le catene, a volte anche invisibili, che li tengono legati al di qua dell’agognata libertà.
È questo, nonostante l’ambientazione insolita, un romanzo “d’azione”? Senz’altro, se s’intende con ciò non certo una mera, generica categoria narrativa o nicchia di mercato editoriale, spesso a torto annusati con diffidenza dai lettori cosiddetti “impegnati”, ma l’“istinto” stesso del racconto, la forza cinetica che lo anima dal profondo.
All’interno di un setting tratteggiato con maestria, che sa farci respirare l’aria salmastra, osservare lo spettacolo delle nubi gravide di pioggia, e immaginare talvolta di trovarsi distesi sul fondo d’una barca a studiare il cielo notturno, la densità di trama incombe: qualcosa sta per accadere; sempre. C’è sempre un pericolo che si fa presentire, un piano da ordire. C’è sempre una storia importante da raccontare.
Ed eccola, dunque, l’anima di questo romanzo: la forza del buon narrare che sa trascendere stili e veicoli. A un immaginario come il nostro, in cui il cinema e il linguaggio della tv si scavano invadenti il loro spazio, le prime battute dell’ Albero delle arance amare, con lo sguardo che si sposta lento e attonito sull’Isola Sovrana di Marmor, sugli ingenui regnanti, sulla principessa Eliana, penetrando i gustosi snodi dell’intreccio a partire dal matrimonio combinato tra questa e il Primo consigliere, non possono non ricordare Il nuovo mondo, la splendida pellicola di Terrence Malick.
È un procedere quasi meditabondo, che esalta l’atmosfera del romanzo e che, via via, si dà a un’accelerazione insieme di forma e contenuto: dal tema principale, l’incontro tra Elmo ed Eliana, simbolo di riscatto e libertà, emanano numerosi altri rivoli narrativi che nella seconda parte del romanzo si inseguono e rimandano l’un l’altro, tanto che al solenne passo iniziale sembra rispondere presto una composizione in cui storie e situazioni si alternano, si congiungono, si separano, si anticipano, in una sorta di “struttura ad anello” o “a incastro”.
Contaminazione di riferimenti, moltiplicarsi delle chiavi di lettura, permeabilità a media e linguaggi differenti: come a dire che leggere – e scrivere –, oggi, è un’esperienza che si presta ad acrobazie ancor più varie e sorprendenti che in passato. E, senza osare scomodare Calvino e la sua celebre definizione di “classico”, questo vale al di là delle intenzioni dell’autore: le storie ci parlano, continuano a parlarci; a noi ascoltarle con sensibilità sempre nuova.
Ma se pure abbiamo richiamato l’inesauribile serbatoio omerico, c’è da dire che questo romanzo sa ricreare un ecosistema mitico autonomo, con le sue norme etiche, politiche, cosmologiche. Un Mito incastonato nell’età dell’oro dell’Isola degli schiavi prima della loro sottomissione a Marmor, esempio di hybris punita, nel caso specifico, non dagli dèi ma dagli uomini stessi.
Ogni romanzo è un sistema a sé, e Tout se tient in questo sistema. La costruzione e successiva gestione della pur ricca trama non sfuggono mai di mano all’autrice, a dimostrazione di una tecnica solida. Ma la parola “trama” racchiude in sé anche i significati di ordito, macchinazione, intrigo. I romanzi dell’Ottocento intendevano il plot anche come complot: il propellente che li smuoveva era spesso una macchinazione costruita per conseguire un qualche obiettivo. Nell’ Albero delle arance amare, la maligna figura del Primo consigliere Marmor, il piano ideato da Elmo e Miro e dalla stessa Eliana sono la risposta coerente a questo schema.
La vicenda si articola intorno a due grandi blocchi: da una parte l’amore tra lo schiavo e la principessa, dall’altra l’anelito alla libertà di un intero popolo. E il grande affresco dei destini particolari non appanna, bensì arricchisce e dà senso al movimento della collettività che abita le due isole, quella del re e quella degli schiavi. Dai nuclei tematici principali si diramano poi altre correnti, storie sottilmente e abilmente intessute, come quella dell’unica abitante dell’Isola dei vermi, che compendia in sé il vissuto della sua terra.
L’incessante moto di personaggi e racconti e sogni e flashback è pur disciplinato da un disegno tracciato con rigidi canoni geometrici. Ci si potrà disperdere nel gioco di onda e risacca, tra le pieghe del passato mitico dell’Isola di Marcos e il presente, ma tutto torna alla fine, e l’autrice è abile a condurre il lettore passo dopo passo all’interno del suo mondo fantastico. L’andamento verso un epilogo dalle molte sfaccettature è garantito da una linea narrativa principale che obbedisce al tempo, a una sequenzialità classica che riposa sul “prima” e sul “poi”, sulle cause e sugli effetti. Quest’organizzazione piana del filo narrativo principale è sì rotta dall’intersezione con le linee secondarie, con piani temporali maneggiati disinvoltamente, con vicende sospese e riprese a distanza, ma il lettore ne è avvinto, risultandone un intreccio che è una creazione pulsante, un continuo divenire, in cui è la mutevolezza a essere ordinatrice degli eventi, incatenati in un sottile gioco di rimandi e richiami.
Ciò è particolarmente evidente quando, nel romanzo, ci si spinge indietro fino all’età dell’oro della fondazione dell’Isola di Marcos, poiché il tempo del mito è sempre dilatato, “primitivo”, visto come di riflesso, e il riflesso attraverso cui lo vediamo si chiama presente: eco di ciò che, gloriosamente, è stato. Gli eventi stessi del presente, pur talora nefasti, assumono altro aspetto e altra forma se visti attraverso le lenti di questo passato.
Un tale dispiegamento di avvenimenti ha il suo specchio in una galleria di psicologie assai varia e di shakespeariana emblematicità: l’arrivismo e la perfidia di Marmor, l’astuzia di Elmo, l’amicizia tra Elmo e Miro, l’altruismo e l’audacia di Tim, il senso di smarrimento dei sovrani, lo spirito di sacrificio di Eliana, la fedeltà di Anik, la pazienza di Ebe eccetera. Ognuno dei personaggi è una pennellata essenziale all’affresco d’insieme, tecnicamente efficace: si pensi a Marmor, figura di antagonista ineccepibile nell’espletamento delle sue funzioni drammaturgiche.
È un romanzo, questo, che dà quanto chiede; generoso col lettore quanto esigente di quell’attitudine, di quell’approccio all’esercizio stesso della lettura che ha a che fare con qualcosa che va al di là del tenere un libro tra le mani: la disposizione fanciulla – dov’è finita ora? – che ci spingeva a sfogliare fiabe e ad ascoltare storie, il desiderio di perdersi per ritrovarsi in un altrove che sembrava a portata di mano, quell’ingenuo, inestimabile vibrare di personaggi ed emozioni. Tendiamo l’orecchio, e sentiremo un respiro lontano, un moto ribelle, un’ansia che non è di sola libertà. Così i personaggi dell’ Albero delle arance amare, nel loro brigare, arrivano a noi attraverso la notte del tempo, come parole, suoni, echi, crepitar di scintille sprigionate da remoti fuochi accesi al centro di un villaggio. Tutt’intorno solo il buio stretto e curioso, la nostra fantasia notturna, che aspetta sempre nuovi fuochi e parole che la illuminino.
Cristian Soddu
L’albero delle arance amare
…le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita… il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza. Dalla nascita, che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano.
Italo Calvino
A Davide, Dario e Matteo
PARTE PRIMA
Capitolo I
Mostri
L’Isola Sovrana distava dall’Isola di Marcos, o degli schiavi come la chiamavano i suoi padroni, quattro ore di navigazione con buoni remi e vento propizio, e ogni settimana veniva servita di tutto punto: botticelle di acqua sorgiva, fragili uova, teneri legumi, succosi frutti, pesci vivi e, quando possibile, galletti giovani. L’ordinaria amministrazione includeva pezze di lino da tingere a piacimento della corte e, la straordinaria, veli così impalpabili che non servivano a niente, se non a tenere occupati i primitivi che potevano sempre covare qualche idea balzana. Dando credito a quanti li dipingevano come selvaggi dall’aspetto ripugnante, avidi di sangue e incapaci di provare rispetto per i loro padroni, i sovrani non li avevano mai visti, né ci tenevano a incontrarli. Al re e alla regina bastava sapere che ai bifolchi era proibito navigare ed era altresì proibito sottrarsi all’obbligo della consegna di alimenti freschi. Non per niente erano schiavi. E se agli schiavi non era permesso di mettersi in mare, tanto meno era consentito di avvicinarsi al palazzo reale. Così era il sovrano a incontrarli sul posto, o meglio a mandare il Primo consigliere assistito dalle guardie armate.
Questo avveniva puntualmente nel giorno della consegna. Marmor era solito indossare panciotti luccicanti come le lame dei lancieri mentre se ne stava sulla zattera reale a impartire gli ordini e a controllare i servi-marinai che imbarcavano la merce sull’altro legno, quello più modesto adibito al carico. Se non fosse stato presente ad ogni rifornimento, seppure a debita distanza dai primitivi, chissà quante buone cose sarebbero finite nella pancia dei selvaggi. Le urla terrificanti di cui era capace infierivano soprattutto su chi gli stava più vicino e a stargli vicino, praticamente incollato, era Tor, la fida guardia del corpo, costretto a vivere in uno stato di perenne eccitazione. «Chi va là?» «Cosa faccio, padrone, tiro?» «Se vuoi li stendo.» Era tutto un urlare, spintonare, dimenare le braccia e alzare l’arma al cielo, un cielo di porcellana nelle due stagioni asciutte, funestato da nuvole ribelli nelle restanti due.
E non c’era di che lamentarsi.
Le mire del Primo consigliere erano note a tutti, forse ad eccezione dei sovrani. Non gli bastava di vivere a corte e di togliersi ogni capriccio possibile come se fosse già re, no, lui puntava decisamente al trono. E se a trentacinque anni suonati non si era ancora sposato, la ragione stava tutta nel fatto che l’unica purissima erede dei reali era ahimè troppo giovane per affacciarsi al matrimonio. Ma il tempo non perdona. Eliana era giunta al traguardo dei quindici anni e lui era pronto al grande passo. Quali che fossero le qualità e la natura della fanciulla, era deciso a chiedere la sua mano. E ottenere così tutto il resto dalla testa ai piedi, oltre al titolo, al regno, al potere. Per la gioia degli avi, avvezzi a menarle le mani più che a domandarle.
La richiesta ufficiale, prudente e con qualche sottinteso, fu presentata a tavola in una bella giornata di primavera. Sulle prime il re non colse l’intenzione, preso com’era dalle battaglie nell’acquario. Sua figlia meno di lui. Per staccare i contatti col mondo quando serviva, bastava un po’ di allenamento. Restava la regina, sempre disposta a dire la sua anche quando non capiva fino in fondo di cosa si stesse parlando. “Il matrimonio non è uno scherzo”, osservò con un sospiro. “Lo so ben io che ho lasciato l’Isola del ferro venticinque anni fa. Su quella terra i miei erano qualcuno, sapete? Eh no, non è uno scherzo e mio marito può testimoniarlo.”
Il re si riscosse. Il matrimonio? Magari il Primo consigliere aveva messo gli occhi sulla loro Eliana. In tal caso le parole pronunciate dal sottoposto non erano una poesia. Le fanciulle sbocciano come fiori, i tempi maturano e i veri uomini conducono in porto la nave. Fanciulle e veri uomini, ma certo. Negli ultimi tempi si era accorto di qualcosa, il fatto era che non gli piaceva ciarlare a vanvera, c’era già Rena a riempire i vuoti nella conversazione.
Puntuale come il sole, lei stava per riprendere il discorso da dove l’aveva lasciato, la terra natia, croce e delizia del suo cuore. “Che pena andarsene per sempre dalla propria casa. A mia figlia non lo auguro di certo. Se lo sposo venisse dall’Isola del ferro si muoverebbe lui. Una fanciulla è così fragile, indifesa, come si può strapparla al suo nido? Caro, guardala, guarda nostra figlia, lei nemmeno ci sente.”
Prima doveva testimoniare, adesso doveva guardare, lo decideva sua maestà la regina. Di solito, per un vezzo affettuoso maturato con l’età, gli piaceva ripetere le ultime parole che sentiva pronunciare, in quel momento però voleva solo impedire un terzo riepilogo degli stessi ragionamenti. Il pretendente aveva quel testone, va bene, ma come non vedere che la bambina se lo sposava non se ne andava? E poi, quale miglior partito di un uomo che si accollava già le innumerevoli seccature del governo e faceva tutto quello che spetta a un re? Eccolo lì a bollire dal dispetto. Un granchio sul punto di soffocare sarebbe apparso meno rosso e assetato, tanto che le serve non la finivano di rimboccargli il bicchiere e dovevano ricominciare. Poco male, i possedimenti reali abbondavano di frutteti e di schiavi, i secondi malati di idiozia ma validi nel lavoro. Piuttosto, erano alla frutta, meglio chiudere subito la questione. “Ha qualcosa da aggiungere? Vuole dire qualcosa, Marmor?”
“Grazie, sire. Faccio notare che nel caso di un matrimonio combinato con l’Isola del ferro sorgerebbero gravi problemi…”
“…gravi problemi…”
“Direi di sì. Se dovesse arrivare dell’altro metallo pesante come dono di nozze, la nostra terra, già appesantita dalle montagne, potrebbe sprofondare.”
Un urlo di raccapriccio fece sobbalzare prima il petto delle serve, poi il tavolo, con la conseguenza di far riscuotere Eliana che alzò la testa. Qualcosa aveva spaventato sua madre, probabilmente un nonnulla, lei era fatta di paure. Suo padre infatti continuava a sorridere e l’ospite dei giorni festivi a sprizzare scintille. Per il resto, come sempre non succedeva un bel niente, se non che al re toccava calmare la regina. “Animo, mia cara, nessun dono pesante potrà indebolire questo saldo regno se i sovrani non lo vorranno. E chi sono i sovrani? Ora poi che si è perso ogni contatto con la tua famiglia, non abbiamo obblighi di sorta. Perché non pensare a soluzioni più semplici e vicine?”
Contatti, obblighi, soluzioni, su cosa stavano confabulando? Nessuno che parlasse in modo chiaro e diretto. Eliana non vedeva l’ora di andarsene per i fatti suoi, le restava appena un torsolo di mela. Mela profumata, mela stregata, mela avvelenata…
La chiusura del discorso e della partita, oltre che del pranzo, spettava al re e lui li chiuse entrambi con una domanda, sommessa e commossa: la data. La data? Il compleanno della sposa.
Bene, benissimo, mancavano undici mesi o poco più all’evento. Quel giorno la principessa reale avrebbe compiuto sedici anni, un’età perfetta per prendere marito, perfetta anche per il marito che di anni ne aveva più del doppio. Questo concordarono quando l’interessata non era più lì. Appena le posate del re erano state incrociate sul piatto, se n’era volata via come avrebbe tanto desiderato di poter fare il suo canarino.
La vita riprese tranquilla. Gli armati provvedevano alla difesa dei bastioni, i pescecani a ripulire le acque e i sottoposti vicini e lontani a rendere prospero il regno, il suo regno. Il sovrano non chiedeva nient’altro alle stelle, ormai era vecchio e stanco, ad agitarsi bastava la consorte. E bastava Marmor, un Primo consigliere che pensava davvero a tutto. Un paio di volte l’anno, dopo lunghi conciliaboli con la regina, si metteva in mare per tornare con quanto serviva o piaceva alle loro maestà. A dire il vero, gli ultimi viaggi erano stati alquanto deludenti. Niente di niente sulle zattere di ritorno, né per vestirsi né per passare il tempo o per abbellire il palazzo. Il fatto era che quell’uomo aveva messo in testa a sua moglie delle stupide ambizioni. L’acquisto della nave secondo lui avrebbe dato lustro al regno. Avrebbe, ma quando? Per ora stava succedendo quanto un povero re, non per vantarsi, aveva previsto fin dall’inizio, il pagamento a rate non finiva più.
Per loro fortuna disponevano di una miniera a buon mercato a una distanza così breve da poterla considerare un prolungamento del regno stesso. In quella porzione di mare, appena sotto la superficie, fiorivano indisturbate silenziose colonie di ostriche, bestiole tanto ingenue da continuare a riprodursi per l’appetito insaziabile degli uomini e la folle vanità delle donne. Le insidie non mancavano, gli speroni sommersi e quelli che spuntavano appena dall’acqua potevano essere fatali per le zattere, bisognava saperci fare.
A ben guardare, le difficoltà del passaggio li favorivano. Chiunque si muovesse per avventura e senza cognizione trovava pane per i suoi denti. Ah, l’avventura! Al solo evocarla, il re avvertiva l’antico prurito. Quella breve stagione non era passata invano, qualcosa gli aveva lasciato, il suo tesoro. Perle rotonde e vellutate, grosse come ciliegie e così trasparenti da catturare i colori degli alberi, del cielo e del mare che le aveva generate. Mai le avrebbe affidate alle serve per farle pulire come avveniva con le ordinarie. Erano così svelte quelle donnette con le dita da farti scomparire una mela sotto gli occhi. E il corallo? Lo spezzavano davanti al sorvegliante e alla fine in tasca ne avevano per un bracciale. Con i frammenti era anche peggio, se li portavano nelle capanne per ridurli in polvere e farne medicamenti di ogni genere. Sapeva benissimo cosa accadeva nei magazzini reali con quelle mani sempre in movimento, ma ormai era vecchio e stanco, meglio lasciare che la vita andasse avanti senza scosse, che ogni cosa scivolasse via con il tempo. Tutto tranquillo come dentro un acquario.
Benché tanto tranquillo non fosse poi neppure quello. A volte la mattina, quando andava a controllare il suo, si accorgeva che un pesce, eh sì, un povero pesce andava sostituito. E il giorno dopo di nuovo, un’altra vittima inerme divorata da un suo simile. Tutto questo doveva avere un senso ma, se l’aveva, a lui non era stato rivelato.
Chiuse gli occhi. Le cose svanivano assieme al fumo dei camini. I rumori no, quelli del porto ricominciavano, la pausa del mezzogiorno doveva essere finita. Quanta gente giovane laggiù, ne nasceva in continuazione.
Proprio allora, l’ora assolata del primo pomeriggio ancora stretto in un mortale torpore, successe un fatto imprevisto. Due armati stavano conducendo alla grotta uno schiavo in catene, colpevole di aver lanciato un insulto alla volta di Tor, quando lo sentirono pronunciare parole da non credere. Il prigioniero aveva appena detto che il suo amico Elmo poteva liberarlo, visto che sapeva fare prodigi. Interrogato su quali prodigi potesse mai compiere un selvaggio, si era messo a raccontare fatti talmente straordinari che chi lo conduceva alla morte aveva perso di vista la ragione per la quale si trovava dove si trovava. Soltanto l’armigero di guardia alla porta, ormai completamente sordo per i colpi inferti ai chiavistelli quando la si apriva e la si chiudeva, non si lasciò incantare da quelle storie. Come faceva con tutti, lo liberò dai ferri, lo spinse dentro, accostò il battente e prese a infliggere impietose martellate sui catenacci.
Quel gran fracasso fece riscuotere i due piantoni dell’inizio che prontamente cambiarono gamba e si misero a ridere. Non era possibile, come si poteva credere a simili fandonie? Era passata un’ora e ancora ridevano, a quel punto per la fatica di smettere. Fu il caso a farli incontrare con un servo premuroso sul sentiero che portava al villaggio, e quando il brav’uomo domandò loro cosa avessero fatto, ben lieti di riprender fiato si misero a sedere sul ciglio. Un minuto dopo stavano già raccontando. Di certo con efficacia perché il giorno seguente la moglie del servo ne parlava con le altre lavandaie e una di queste si confidava con Anik, la cameriera personale della principessa. Per farla breve, Anik, che pure non era una credulona, non poté trattenersi dal riferirne a sua signoria, la quale si interrogò nei termini seguenti: “È possibile che un popolo di feroci assassini, di polpi tentacolari, di orrende testuggini abbia generato uno schiavo capace di tali portenti? Se questo è vero, si può incontrare il mostro? Perché non si organizza qualcosa?”
Il giorno festivo era prossimo, tanto prossimo che arrivò. Immersa nella vasca da bagno, Eliana stava combattendo la sua battaglia quotidiana contro la noia. L’aspettavano un pranzo estenuante e un ospite ingombrante, ma doveva pur esserci un qualche modo per animare il desco… Sì, era un’idea. Cominciò ad accarezzarla, a figurarsi le parole, le sospensioni, gli effetti, le esclamazioni, le battute. Li scriveva nell’acqua e li cancellava, cercando di vedere le diverse espressioni dei commensali: quella divertita di suo padre, quella spaventata di sua madre, quella falsa del Primo consigliere. Proprio così, quell’uomo rideva quando era furibondo e si mostrava contrito quando gongolava. Nel gioco delle parti, però, tutti i ruoli potevano saltare.
Era pronta, pronta esternamente, per quanto troppo carica di energia per andare a sedersi a tavola e restarci un’eternità. Non c’era che del buon movimento per spegnere l’ardore, anche se per questo doveva sgualcire senza pietà l’abito di lino che Anik continuava a stirarle col ferro rovente. Le guardie che stazionavano nei corridoi non giravano nemmeno il collo mentre lei avanzava facendo la ruota, per atterrare infine nel vestibolo parato di specchi e ricomporre le sembianze della brava principessa. Obbligare i commensali a qualche minuto di attesa era un’altra delle magre libertà che si prendeva, per quanto le serve, poverette, dietro al sorriso tipico da cameriera di sala faticassero a nascondere un piccolo fastidio, il calore della zuppiera. Per farsi perdonare si poteva strizzare l’occhio a quella più vicina, nella certezza che avrebbe ricambiato allo stesso modo. Era divertente.
Il piatto del re fu il primo ad essere scodellato, quello dell’ospite, l’ultimo. Fin qui niente di strano, ma la novità c’era eccome e non veniva da lei. Se fino a quel giorno Marmor era chiamato con il titolo di Primo consigliere, ora era stato promosso a promesso sposo, promesso a lei. Così disse sua madre quando la pregò di salutarlo. Dunque erano stati loro a farle la sorpresa. Mentre cercava di calmare il cuore sotto la veste, Eliana mise a fuoco il problema prima ancora del soggetto: chi aveva deciso che doveva sposarsi, sposarsi con quello? «Vediamo, a chi somigli? Direi a un gallinaccio con la pappagorgia, ma questo è il meno. Datemi un bastone. Lo sapevi che sei più largo che lungo? E perché non hai peli né capelli? Girala, gira quella mano. Dieci anelli alle dita, di più non ce ne stavano. Ti piace brillare, eh? Sicuramente quelle pietre non vengono dai tuoi forzieri e neppure la catena gialla che porti al collo. Il collo? Tu non ce l’hai il collo, è un tutt’uno con la faccia, il faccione a macchie fantasia. Sei carino quando fai così: strizzi gli occhi, stiracchi le labbra e fingi di ascoltare il re. No, tu non l’ascolti, tu stai puntando al pollo, non vedi l’ora che i sovrani siano serviti per ingozzarti di bocconi ben conditi. Ecco che spalanchi la caverna. Da come sbavi parrebbe di tuo gusto. Carne soda quella del pollo, la tua un po’ meno, sei flaccido tu, un pesce morto sei, un pesce squamoso dagli occhi incolori.»
I loro sguardi si incrociarono. Il fiato le si era calmato del tutto. Voleva parlare proprio a lui, a lui. Per farlo irritare un pochino, un pochino o anche tanto. “Dicono che sull’Isola degli schiavi ci sia un soggetto in grado di stare un giorno intero sott’acqua solo per inseguire un pesce. Cattura bestie più grosse di lui e se le mangia per colazione.”
Un lieve accenno di sorpresa. L’ospite continuò a masticare. La cosa doveva sembrargli troppo stupida.
“In altezza è il doppio di uno schiavo normale e il triplo di uno piccolo.”
Adesso inarcava le sopracciglia, mmh. Suo padre rideva di gusto, sua madre si premeva il petto. “Figlia mia!”
“Sostengono che sia stato inviato dagli antenati, pare infatti che anche gli schiavi ne abbiano. E se qualcuno gli torce un capello, gli avi si infuriano.”
“Strano, non abbiamo mai sentito parlare di questi spiriti, non è vero, caro?”
Il dolce sorrise del re includeva sia l’affermazione che la negazione.
Non aveva ancora finito… “Sapete, in un’ora può attraversare un’intera boscaglia saltando da un albero all’altro. E se gli alberi sono distanti, li sradica a mani nude e li pianta più vicini.”
L’animazione era in crescita, ma solo tra le donne. “Non riesco proprio a capacitarmi di quanto primitivi siano i primitivi”, osservò la regina.
“Ah, dicono che sappia tuffarsi da scogli altissimi. Una volta si è lanciato con il sole ed è arrivato in acqua con la luna.”
“La luna si vede anche di giorno, non te ne sei mai accorta, Eliana?”
“Sì, madre, me ne sono accorta.” E adesso il colpo mancino… “Aspetta. Lo schiavo, sì, dicono che se avesse una barra di ferro potrebbe spezzarla come un fuscello.”
La regina gridò senza ritegno facendo accorrere le serve e scomodare il re suo padre. “Cara, non agitarti, non gliel’abbiamo ancora data quella barra. Cosa ne dice, Marmor?”
Al consigliere spettava consigliare, per questo si stava pulendo la bocca, il mento e il collo, che era poco lontano. Il tasto del ferro era alquanto delicato, bisognava approfondire la faccenda. “Come si chiamerebbe questo portento, principessina?” le chiese con sussiego.
“Si chiamerebbe Elmo.”
Che soddisfazione. Per una volta era lei, inetta insignificante insipida fanciulla, a fornire alla corte una notizia di prima mano. Per di più, nell’evocare il mostro aveva provato una sensazione inaspettata, forse per le lettere iniziali che li accomunavano: Elmo, Eliana.
Ormai la macchina da guerra era partita e toccava agli uomini darle la spinta. “Maestà”, annunciò Marmor alzandosi in piedi, “domani stesso manderò in esplorazione la mia guardia del corpo.”
“…del corpo.”
“Lo staneremo, ne sia certo.”
Lo staneremo, urrà, all’attacco, fatti sotto! Che fantastica avventura. Qualche volta c’era da divertirsi anche a tavola.
Calma piatta, il mare era una lastra uniforme dai riflessi d’argento. In assenza di vento la vela non serviva, bastavano i rematori, e per la piccola zattera che avevano scelto, una coppia era più che sufficiente. Il terzo uomo fungeva da rimpiazzo e da moderatore, mentre a lui spettava di diritto la parte di capo spedizione. Non si chiamava forse Tor? Già una volta era sbarcato sull’isola degli schiavi con un gruppo di armati, ma si era limitato al controllo dei magazzini e a un giretto tra le capanne, giusto per mettere un po’ di paura alle donne. Loro invece li avevano guardati senza aprir bocca e senza interrompere le stupide faccende per le quali erano nate. In definitiva, Tor poteva dire di conoscere bene solo il porto, dove attraccava ogni settimana per sorvegliare le operazioni di carico. A dire il vero non si conosce mai abbastanza la malafede e quella dei selvaggi poteva essere perversa, ecco perché le ispezioni a terra venivano riservate alle situazioni di emergenza. Ora, benché non fosse in atto una vera minaccia, conveniva intervenire al più presto per far emergere ogni possibile notizia su quel certo Elmo, un selvaggio di cui prima di allora non si era mai sentito pronunciare il nome. Per quanto, era forse necessario distinguere i primitivi per nome? Cambiava qualcosa se i padroni ne conoscevano uno, due o addirittura tre? No di certo, quel nome però andava combinato con un preciso individuo, che fosse alto il doppio o il triplo di uno schiavo normale. Una volta stanato, il furbastro andava svergognato e tolto di mezzo.
Erano stati istruiti a dovere e avrebbero riferito con scrupolo, seppure con minore efficacia rispetto al Primo consigliere. Marmor sapeva parlare, questo era indubbio, parlare e comandare. Quanto all’agire, il discorso sarebbe stato un po’ lungo. Prima di tutto si rifiutava di mettere piede sull’isola dei selvaggi. Sicurezza del regno, diceva, ma la verità era un’altra, anzi, sempre la stessa. Come guardia del corpo lo affiancava da una vita, da quando il proprio padre, modesto brigante marittimo, l’aveva presentato alla madre del padrone, la grande Aira. A undici anni un ragazzo può essere svelto sia di mano che di mente e Tor lo era più di tutti i compagni messi insieme. Le parole pronunciate per l’occasione gli risuonavano ancora dentro. «Mia moglie è morta», esordì il suo genitore, «nostro figlio deve iniziare a camminare con le sue gambe. È una testa dura, sempre pronto a colpire. Al vostro ragazzo può essere utile per crescere.» Il petto gli si era gonfiato d’orgoglio. L’altro lo fissava con sprezzo, la madre con caparbia ferocia. Gli occhi in fuori di quella donna, grossi e lampeggianti che pareva volessero incendiarlo, l’avevano squadrato dalla testa ai piedi prima di farlo passare all’esame. Eh sì, infine si era convinta, le conveniva accettare. Bastava che il novizio affrontasse tutti i pericoli al posto del suo pavido rampollo, che gli desse sempre ragione e picchiasse in sua vece chi c’era da picchiare.
L’Isola di Marcos si annunciava in lontananza, un profilo di basse colline e una cima solitaria in grado di far precipitare a valle acqua sufficiente per dissetare due popoli. Si diceva che la montagna fosse fatta di fuoco e pure di cenere, pertanto non c’era nulla da temere. La condizione dei selvaggi era fin troppo felice e propizia per il lavoro: terreno fertile e mare tranquillo. Sull’isola del re gli squali la facevano da padroni, mentre là circolavano solo pesci innocui, oltre che freschi e saporiti. Ecco perché i piccoli degli schiavi sguazzavano tutto il giorno con le ceste appese al collo e va a finire che si divertivano più di lui alla loro età. Per quel che ricordava, Tor da piccolo passava le ore a catturare uccelli per strappar loro le ali e infilzarli negli spiedi. Gli pareva ancora di sentirli quei lamenti sottili, acuti come spilli, oscure sensazioni che andavano scacciate. In fondo, l’infanzia è un tempo così breve che quasi non esiste.
Il sole si era alzato e l’aria vibrava per il gran calore. Dov’era dunque il portentoso Elmo? In quel momento poteva essere al largo a spassarsela tra i pesci e a prendersi gioco di loro che lo braccavano a terra. Era possibile, il padrone però aveva detto di cercarlo al villaggio e bisognava obbedire. Andava controllata persino la collina dell’albero sacro, quella con gli schiavi ormai morti e sepolti. Grazie ai magistrali interrogatori del Primo consigliere, l’isola dei primitivi era conosciuta per filo e per segno. Non che i condannati amassero conversare o fossero disposti a svelare i loro segreti a chi li stava torturando, era solo che nei momenti estremi, ripensando alla terra natia dove mai più sarebbero tornati, si lasciavano sfuggire più di quanto volessero. Sicuramente a nessuno interessava sapere che i fiori di loto tappezzano la palude o che i pulcini si nascondono tra l’erba. Al contrario, la storia di una pianta spettrale in grado di dare la morte poteva tornare utile prima o poi.
La zattera era a secco da più di due ore quando Tor aveva raggiunto la collina dei trapassati. Si era già occupato dei magazzini del porto, delle baracche da lavoro, delle capanne, dei pollai e degli orti. E ne aveva sputati di ossi di ciliegia in quel giardino rigoglioso dove l’acqua affiorava dal suolo in limpidi zampilli! I frutti risultavano così succosi per la ricchezza del terreno, non certo per l’abilità dei coloni. Loro sicuramente passavano più tempo a fabbricare punte di conchiglia che a coltivare. Di scarti taglienti ce n’erano dappertutto, mentre i quattro arnesi di metallo forniti dal re e destinati ai lavori più impegnativi erano assicurati ai blocchi di pietra, e nessuno poteva permettersi di staccarli dalle catene. I bifolchi dell’Isola di Marcos dovevano accontentarsi delle loro pinne e dei loro polli, mai al mondo che arrivassero a disporre liberamente del ferro.
Fino ad allora tutto era filato liscio, a parte le bestiacce puzzolenti che si erano messe a seguirli solo per il gusto di beccarli alle caviglie, starnazzargli tra le gambe e scacazzare sui loro piedi. Le maledette galline li tallonavano imperterrite come i selvaggi. Eccoli lì a muso duro, in piedi, in silenzio e mezzi nudi, con l’odiosa conchiglia appesa in vita. Alle loro spalle incombeva un mucchio di pietre che pareva una montagna. Forse le tenevano a portata di mano per allestire le nuove tombe e non per lanciarle contro qualcuno, se lo augurava. I tumuli erano ricoperti di quella materia pesante per tutta la lunghezza, bisognava ricordarsi di riferirlo al padrone, poteva essere un particolare importante.
Gli schiavi intanto lo fissavano torvi. Cosa temevano, che intendesse violare il recinto abitato dai morti? «Non me lo sogno neppure di scavalcare la staccionata. Buoni, bifolchi dei miei stivali.» Sicuro, gli bastava osservare le sepolture di sottecchi in attesa che i suoi uomini si decidessero a uscire da quei cespugli. Fingevano di cercare qualcosa o qualcuno, ma Tor sapeva benissimo cosa stavano facendo, scommesse su scommesse. Su quanto era alto, sui poteri di cui disponeva e sui prodigi che avrebbe compiuto. Che ci provassero a farsi sentire dal capo spedizione!
Col cimitero non aveva più niente da spartire e se ne venne via prima che i commilitoni vi salissero. Era rimasta da visitare la grande capanna, uno stanzone apparentemente vuoto. In realtà alle pareti era appeso di tutto, oggetti di nessun valore realizzati con materiale di scarto. Maschere, mantelli, gran giri di collane, cortecce dipinte, sculture di legno e strani riquadri, un vero campionario di cose primitive. Uno di quei pannelli era complicato e curioso, tanto che si stava chiedendo come l’avrebbero presa gli schiavi se si fosse avvicinato. Anziché andarsene a lavorare, quelli l’avevano seguito anche lì e se ne stavano ammassati alle sue spalle.
Pensando di apparire più discreto, Tor si inginocchiò sulle stuoie per procedere a quattro mani, senza considerare che stava mettendo a dura prova da parte loro la tentazione di prenderlo a pedate, effetto identico a quello che le chiocce avevano fatto su di lui poco prima. Eh sì, dentro quei bassi capanni dove nessuno poteva vederlo, era andato a segno con un paio di calci ben mirati.
Finalmente i suoi l’avevano raggiunto e imitato. Erano lì tutti e quattro, inginocchiati davanti a decine di cordicelle infilate in altrettante conchiglie forate, quando sentirono dei passi e delle voci alle loro spalle. Le tre piccole femmine dai capelli gocciolanti che si erano portate in prima fila sulla soglia, avrebbero dato un’accelerata agli eventi. “Vi piace il nostro calendario?” “Per caso lo state invocando?” “Perché vi parlate nelle orecchie?”
Come si permettevano quelle mocciose spudorate? Tor aveva reagito a quella raffica di domande brandendo la lancia, subito fermata dall’armigero dai riflessi rallentati che il padrone gli affiancava regolarmente. Quel colpetto di spalla suggeriva una mossa più astuta. “Sentite un po’, bambine, avvicinatevi.” Loro si erano accostate senza timore e lui poté abbassare la voce. “Per caso, conoscete un certo Elmo?”
“Non lo conosciamo”, rispose la maggiore. “Non conosciamo nessun Elmo”, ribadirono con tutto il fiato le altre due, sicuramente gemelle e più piccole di un paio d’anni.
Perché urlavano a quel modo, volevano prenderlo in giro? Di nuovo Tor brandì la lancia e di nuovo il moderatore gliela bloccò a mezz’aria. “Coraggio”, propose allora cambiando strategia. “Portateci alla vostra casetta”.
In quel mentre una voce emergeva dal fianco della capanna. “Cercavate me?”
Per vedere chi aveva parlato uscirono all’aperto… E lo videro eccome! Per un lungo istante rimasero senza fiato e senza capacità di reazione. Da dove saltava fuori quella specie di monumento alla virilità? Un idolo di pietra, ecco cosa sembrava. Dunque era vero, il mostro dell’Isola di Marcos esisteva sul serio, Eliana non se l’era sognato. “Tu devi essere…”
“Elmo, in persona.”
“Queste bambine le conosci?”
“Purtroppo per me”, sospirò, mentre con un’occhiataccia le invitava ad allontanarsi. “Dunque, se cercavate Elmo ce l’avete davanti.”
“Sei temerario!”
“Me lo dicono tutti.”
Con chi credeva di parlare, non lo vedeva che erano armati? Tor era furioso, ma una furia opportunamente trattenuta dà modo di riflettere. Non è forse meglio procedere secondo il piano? Primo, assumere il comando. Mamma mia quant’è bello… Secondo, rassicurare la folla: “Si tratta solo di una prova di abilità”. Terzo, circondare il maledetto insolente provocatore e metterlo sotto tiro: “Fermo, ascolta quello che abbiamo da dirti.” Quarto e ultimo, sfidarlo sotto gli occhi dei suoi: “Vediamo se riesci a spezzare questo palo a mani nude. E non fare scherzi se non vuoi che ci arrabbiamo.”
Lo schiavo non reagiva, si lisciava i capelli e sospirava. Evviva, questo se la fa sotto… Ma ecco che agguanta la pertica – grossa e pesante, chi l’ha portata fin lì ne sa qualcosa – la fa danzare davanti a sé per soppesarla, saggia la presa, regola la distanza dei pugni e, incamerata tutta l’aria che può entrare nei polmoni, la ributta fuori indirizzando la potenza dei muscoli nel punto esatto destinato a spezzarsi. Incredibile! “I cocci ce li lasciate?” chiede infine, mostrando due monconi alla sua gente.
Un’esplosione di esultanza, seguita dallo stridore acuto delle conchiglie, aveva schiaffeggiato gli armati del re. E pareva che il mondo vegetale rispondesse con un secondo magico sussurro al vento sibilante prodotto da quelle rosee volute. Rosee volute, sveglia, bando agli incantamenti! Un esercito di pescecani, ecco cos’erano, pescecani pronti a sbranare chiunque osasse mettere un dito sul loro eroe. Non era il caso di trattenersi un minuto di più. “Presto, corriamo, al porto!” Infine il drappello si ricompose e iniziò a marciare compatto, così compatto da non riuscire neppure a girare il collo verso i lunghi piedi dei primitivi, avvertiti a un solo passo dalle loro calcagna. Giunti alla zattera, che sonnecchiava beata quasi fosse in vacanza, gli armati del re le diedero la spinta e saltarono su come un sol uomo.
Spesso e volentieri le relazioni delle guardie del corpo fanno saltare i nervi. Tor si ostinava a insistere stupidamente sullo stesso tasto. “Al posto delle mani, lo schiavo ha due morse di ferro, se vuole può stritolarti tra pollice e indice.” E allora? Chi ci pensava ad accostarsi al mostro? La missione aveva dato i suoi frutti, il gigante era uscito allo scoperto e loro quattro erano rientrati tranquillamente alla base. Magari non del tutto tranquillamente, se era vero che i bifolchi fischiavano e rumoreggiavano, ma che volevi aspettarti da un’orda di primitivi? Piuttosto, a indurre un qual certo turbamento era il rapporto sul corpo di quell’uomo. Non bastava la forza fisica eccezionale? Non bastavano la lingua sciolta e l’attrattiva che esercitava sul popolo intero? No, c’era dell’altro, pelle dorata come una zucca, dentatura smagliante e chioma copiosa. Dunque, Elmo non legava i capelli sulla nuca come tutti i maschi del suo popolo, lui li portava sciolti come una signorina. Era evidente che l’avevano tenuto nascosto, altrimenti qualcuno l’avrebbe notato durante il carico settimanale, forse lui stesso per quanto come Primo consigliere fosse tenuto a mantenersi a distanza di sicurezza. Basti dire che il primitivo superava di due teste, o forse tre, l’uomo più alto della spedizione. Teste, non individui interi, ma pure doveva essere vergognosamente alto.
Non c’erano più dubbi, sull’Isola di Marcos si stava tramando contro il re. Tra i selvaggi covava una rivolta, la peggiore di tutta la storia che, a quanto si mormorava, ne aveva viste di cotte e di crude. Bisognava conferire al più presto con sua maestà. “Lo scrivano, si chiami immediatamente lo scrivano di corte! Cosa fate, dormite?”
Mai una volta che i servi fossero pronti a scattare.
Quando più tardi lasciò le sue stanze, in cielo si vedeva già la prima stella. Purché quell’inetto esemplare di regnante non fosse già addormentato.
Un incontro imprevisto doveva rallentare la sua marcia lungo la galleria interminabile che conduceva agli appartamenti reali. Là in fondo, un losco individuo, anziché farsi da parte come avveniva con le sentinelle man mano che avanzava, gli veniva addosso, puntava dritto verso di lui. “Come vi permet…” Maledetto specchio, ci cascava sempre. Già che c’era poteva fermarsi un momento ad ammirare il portento. «Sì, una roccia, ecco cosa sono. Forse un po’ basso di statura ma dal netto profilo, profilo leggermente pronunciato sul davanti e tuttavia dall’effetto d’insieme di incredibile potenza, di irresistibile vigore. Non parliamo dell’immagine frontale, lo sguardo è micidiale. Peccato queste pustole squamose. Quante oggi? Quattro. No, cinque. Che importa, senti qua l’avambraccio. E le cosce? Ma dove sono le cosce?» Nonostante i risucchi e le contrazioni, l’ammasso indistinto che andava dal petto all’attaccatura degli arti inferiori non rientrava neppure di un centimetro, ai piani bassi non si arrivava.
L’ira gli annebbiò la vista. Scansando malamente le guardie armate, si rimise in moto. Tutta colpa di sua madre, era lei che lo voleva grosso. Il figlio non arrivava alla sedia e si sentiva chiedere: «Allora, lo capisci perché mi rispettano? Guarda qua». Intanto quelle mani gonfie battevano ritmicamente su una pancia enorme e ballonzolante. Impossibile raccogliere la provocazione. Quando era schiattata non si sapeva come fare. Da loro le tombe venivano ricoperte di soffice terra per consentire ai trapassati di tornare tra i vivi e di vendicarsi dei torti subiti. Aira lo faceva regolarmente, nel suo caso per banali motivi di spazio. Cos’altro potevi aspettarti da una donna che era stata sepolta con tutta la sua carne addosso dentro una buca che a malapena la conteneva? Gli effetti ricadevano per intero su di lui, unico figlio. Forse andava copiato il metodo degli schiavi: gettare pietre sulle sepolture. Eh no, non è piacevole avere una madre che ti tormenta da sotto le finestre anche da morta.
Vivaddio era giunto a destinazione. Tre colpi di nocca, il segnale convenuto per le visite segrete, e una porta tempestata di borchie rompeva un silenzio brulicante di polveri secolari.
Benché molto rilassato, il sovrano mise a fuoco il problema. Il regno era in pericolo. Ebbene, che si poteva fare a quell’ora della sera?
Marmor respirò forte. “Maestà, purtroppo la soluzione più semplice, tagliare la testa al mostro, non è praticabile, sorgerebbero tumulti e lo sa il cielo cosa ne sarebbe di tutti noi.” Il cielo, sì, se era vero che quell’uomo godeva del favore degli spiriti… “Dirò di più, in queste condizioni la sua stessa cattura equivarrebbe al sacrificio dei nostri uomini.”
“…nostri uomini.”
“Dunque, bisogna giocare sul suo terreno per farlo cadere nella rete senza dar adito a proteste. La condanna dovrà apparire assolutamente regolare e meritata. Mi spiego, a quanto pare lo schiavo è giudicato un eroe e non è facile togliere certe idee dalla testa dei primitivi. Metterò a punto il piano d’azione questa notte stessa, basta che lei mi firmi la liberatoria.”
“La liberatoria, appunto, metta a punto.”
Una porta si chiudeva e un’altra si apriva. Il mondo fitto di presenze e di possibilità perdute che attendeva il sovrano al calar del sole poteva essere consolante, se non gioioso come la vita di un tempo.
[continua]
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