Il riscatto di Martino

di

Lorena Castellani


Lorena Castellani - Il riscatto di Martino
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 98 - Euro 10,50
ISBN 978-88-6587-4967

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In copertina: “whimsy garden” © dip – Fotolia.com

All’interno disegni di Alessandra Boldrini


Il giovane gufo Martino riesce a coronare il suo sogno: diventare maestro e insegnare alla scuola del ginepro dove i suoi piccoli alunni impareranno ad apprendere dall’esperienza diretta della natura circostante. Martino però dovrà scontrarsi con la dura realtà della dipendenza alcolica che lo costringerà a ripensarsi come un essere fragile e insicuro. Nel suo viaggio iniziatico incontrerà la cerbiatta Arianna e l’orso Manzù indispensabili in quel percorso di malattia che lo porterà, dopo tante peripezie, a riconoscersi come “gufo alcolista” fino a sconfiggere la dipendenza riscattandosi come animale libero da ogni condizionamento.

“Un’ascesa per la conquista dell’indipendenza”

“In volo verso la felicità”


Il riscatto di Martino



Un abbraccio a Domenico, Aurelio, Marcella, Presede, Bortolo, Franca. A Vanni e Angela che purtroppo non sono più fra noi. Le loro vicende umane sono state per me fonte d’ispirazione. Un particolare e affettuoso saluto va a Martino che con la sua tenacia e voglia di vivere ha lottato a lungo per il suo riscatto e proprio alla fine della stesura del libro è venuto a mancare.

A mio padre che ha sempre sostenuto e incoraggiato i miei progetti.

Ad Antonio che con la sua pazienza e il suo amore mi ha regalato momenti d’intense emozioni.

A mia figlia Alessandra che ha creduto in me ancora quando il romanzo era in fase di elaborazione e mi ha incoraggiato alla pubblicazione.


CAPITOLO 1

All’imbrunire, in una fredda giornata di gennaio, il gufo Martino stava rientrando a casa dopo una settimana trascorsa con i suoi cuccioli alla scuola del Ginepro. La sua vita d’insegnante a volte lo costringeva a lunghe riunioni scolastiche con le colleghe ed era scoraggiante passare ore e ore a cavillare sui metodi curricolari imposti dal Ministero dell’Istruzione.
Quella sera si sentiva spossato, privo di energie e di quell’entusiasmo “fanciullino” che solitamente provava quan­do era in classe con i suoi cuccioli. La vita era quella: scuola e programmi. Ma quello che lo faceva stare più male era che si sentiva esiliato in terra straniera, aveva lasciato i genitori nella radura del bosco per andare ad insegnare alla scuola del Ginepro che distava in linea d’aria parecchie miglia, viveva solo e non aveva amicizie se non con la natura selvaggia che lo avvolgeva.
L’aria pura, il profumo degli abeti, i colori del tramonto, soprattutto d’inverno avevano accese tonalità aranciate e sfumature indaco, quel giorno non gli trasmettevano alcunché: niente emozioni, niente moti dell’animo, calma piatta. Da piccolo, era figlio unico, i suoi genitori lo avevano allevato facendogli amare la natura e Martino era sempre con loro nelle escursioni nel bosco: amava osservare suo padre che riusciva sempre ad intuire il posto migliore dove sarebbero cresciuti i funghi e gli asparagi selvatici. Adorava volare sui nidi delle aquile con la madre e soffermarsi ad ammirare gli aquilotti che aspettavano speranzosi l’arrivo del tanto agognato cibo.
In estate scendevano fino alla cascata per fare grandi tuffi nella piccola laguna sottostante e beati si lisciavano le penne su un masso al caldo della luce solare.
Nel periodo delle piogge stavano accucciati al tepore della paglia deposta nell’albero cavo che era la loro abitazione e Martino ascoltava beato le leggende narrate dai genitori sugli abitanti del bosco.
In quei racconti, seppur ricchi di aneddoti e saggi propositi non venivano mai toccati i temi sull’amicizia fra animali. Ogni racconto aveva un alone di mistero e di titubanza nei confronti del prossimo. «Stai attento Martino», diceva il padre, «fuori occorre aguzzare la vista, devi stare attento, non ti devi fidare degli altri animali, spesso si prendono gioco di te fingendosi amici».
Martino crebbe con questa diffidenza verso gli altri, inoltre aveva sviluppato una timidezza che, soprattutto a scuola, quando la maestra lo interpellava, se ne stava in silenzio senza spiaccicare parola e i suoi compagni lo deridevano chiamandolo il muto. Martino soffriva in silenzio, quanto avrebbe voluto esprimere quello che pensava ma era come dover spostare un pesante macigno di granito che impediva il passaggio e il fluire delle parole.
All’intervallo nessuno voleva giocare con lui e tanto meno lui riusciva a proporsi. Se ne stava nascosto in un angolo a spiare gli amici che si divertivano un mondo. Arturo e Gianni, i due coniglietti amanti dei giochi sfrenati si rincorrevano nel cortile della scuola. Spanky, Marianna e Giacomina la volpe giocavano a nascondino. Le talpe: Filomena, Fulvio e Romeo giocavano con le biglie che facevano cadere nelle buche da loro prodotte sotto il castagno vicino alla fontana della scuola dove Sebastiano e Luigi, due galli cedroni, si godevano in piena beatitudine un bagno rinfrescante.
Gli anni passarono in fretta, Martino crebbe e finì le scuole dell’obbligo mantenendo sempre la sua diffidenza con il mondo intero; amava però leggere e fantasticare e si divertiva ad osservare i cuccioli che giocavano spensierati.
Decise di fare il maestro per sua vocazione e i genitori lo iscrissero alla scuola magistrale che distava parecchie miglia da casa sua. Tutte le mattine Martino si alzava di buon’ora, riempiva lo zainetto di libri e volava alla scuola magistrale seguito da altri gufi e gufette che frequentavano la sua stessa scuola e aveva con loro solo un rapporto di conoscenza anche se alcune volte si fermava a discutere sui compiti assegnati dai professori, sempre non andando oltre, preferiva studiare solo in completa solitudine. La sua missione era diventare un bravo maestro serio e volenteroso per poter un giorno trasmettere alle nuove generazioni tutte quelle cose imparate, non solo a scuola ma anche nella sua esperienza vissuta a stretto contatto con la natura che definiva come una buona educazione ambientale ed era l’essenza stessa della sua vita.
A casa sua quando ricevette il diploma venne allestita in suo onore una festicciola dove all’occasione parteciparono alcuni compagni di scuola e furono chiamati a banchetto anche gli animali dello stretto vicinato, quelli di cui i genitori si fidavano. Martino era impacciato ma felice del risultato e passò una bella giornata, forse l’unica giornata dove per una volta poteva essere al centro dell’attenzione e non nelle retrovie.
Passarono alcuni mesi prima che gli venisse proposto un posto di lavoro in una scuola, dopo alcuni concorsi al nostro gufetto venne assegnata una cattedra lontana da casa dove purtroppo non poteva rincasare ogni sera, la strada era troppo lunga. La scuola del Ginepro stava alle pendici del monte e lui abitava oltre il crinale, avrebbe perso ore e non si sarebbe riposato abbastanza nel dover riaffrontare il viaggio il giorno seguente. Era da tempo che voleva diventare autonomo, prese dunque l’occasione per alloggiare in una pensione vicino alla scuola decidendo di ritornare a casa solo nei fine settimana. Abbandonare quel nido protettivo dove aveva sempre vissuto gli costò calde lacrime spese in silenzio facendo bene attenzione a non farsi notare dai genitori, soprattutto da suo padre che lo aveva sempre educato ad essere forte e a trattenere le emozioni, sinonimo di debolezza. «Ricordati Martino, per diventare un gufo adulto occorre temperamento e raziocinio, i sentimentalismi li lasciamo alle femmine».
Mentre il padre sosteneva la sua idea Martino pensava a sua madre e si chiedeva come mai lo abbracciava e lo baciava solo in assenza del padre, forse voleva apparire coerente per non andare contro le teorie del marito.
Alla scuola del Ginepro gli venne assegnata la prima classe. Gli animaletti che la frequentavano erano teneri cuccioli di sei anni e se ne contavano quindici: otto maschi e sette femmine. Tutti con un temperamento vivace e desiderosi di apprendere.
Martino amava insegnare: si dedicava alla loro educazione con dedizione spinto da quel senso del dovere tanto appreso in famiglia. Inspirandosi alla grecità “mens sana in corpore sano” oltre a insegnar loro a scrivere e far di conto, nelle belle giornate soleggiate amava portarli all’aperto per fargli assaporare, dopo lunghe camminate, i doni della natura. Faceva toccare loro tutti i tipi di alberi insegnandogli a riconoscere lo spessore, la ruvidità, la consistenza.
Quando era il periodo degli accoppiamenti si appostavano presso la radura cangiante dai mille colori autunnali e stando fermi e zitti ascoltavano i bramiti dei cervi in amore. A primavera i profumi del bosco trionfavano: i caprifogli emanavano un’essenza inebriante, i ranuncoli, i lillà e le ginestre con i loro colori multiformi erano una gioia per gli occhi.
Martino trasmise ai suoi alunni l’amore e il rispetto per la natura, quella natura che tanto gli aveva tenuto compagnia nei momenti di solitudine. La natura era buona, mandava messaggi di serenità e di quiete, lo faceva sentire parte integrante dell’universo e allo stesso tempo pago di se stesso da non poter chiedere altro. Eppure qualcosa di oscuro, nell’angolo più recondito di se stesso, emergeva, ancora non sapeva dargli un nome, si traduceva in un leggero malessere esistenziale e a volte lo inquietava.
Era l’unico maestro maschio della scuola, nelle altre classi erano presenti altre quattro maestre, Oca Guenda se la tirava un po’ con quell’aria da pallone gonfiato e le penne tutte cotonate con un grande fiocco in testa a pois rossi e bianchi abbinato alla borsetta millerighe dello stesso colore. Quando camminava metteva in mostra le penne del fondo schiena come dovessero essere un trofeo, era alquanto ridicola. In classe pretendeva ordine e disciplina dagli alunni della seconda, questi se ne stavano sconsolati a guardare dalla finestra gli scolari di Martino che in fila indiana s’incamminavano a perlustrare il bosco.
La seconda maestra era un’altra oca di nome Clarabella, non se la tirava come Guenda ma aveva il brutto vizio di apparire la maestra saputella della scuola: «Dobbiamo dimostrare al Provveditore che siamo la scuola migliore del Plesso. Il tuo metodo d’insegnamento Martino non è consono, portare gli alunni nel bosco significa non rispettare i programmi curricolari, dobbiamo dimostrare che i nostri alunni finiranno il programma scolastico prima degli altri, dobbiamo essere i primi bla bla bla.» Meno male che Martino non si lasciava condizionare, credeva nel suo metodo di studio.
La terza maestra oca era abbastanza anziana indossava occhiali spessi come fondi di bottiglia, si chiamava Génevievre, sosteneva di essersi laureata in filosofia alla Sorbona e di non aver intrapreso carriera a Parigi perché la troppa creatività dei parigini la sconvolgeva. Preferiva fare la maestra nel paesello piuttosto che confrontarsi con l’art nouveau. Il marito dopo due anni di convivenza l’aveva lasciata dalla disperazione ed aveva instaurato una relazione con una pittrice parigina. Sicuramente non era tagliata ad insegnare a dei frugoletti che per loro natura amavano apprendere con spontaneità, senza doversi sforzare ad esprimersi sillogisticamente dovendo speculare in ogni frase di senso compiuto
L’ultima insegnante era una cerbiatta di nome Arianna con due enormi occhioni grandi da sognatrice; era l’unica insegnante a non essere sposata. Anche lei come Martino amava la natura e la solitudine anche se a volte si concedeva qualche serata in allegra compagnia di amici e amiche.
Quando tutti gli insegnanti si ritrovavano con il preside, il sig. Cornacchia, un corvo tutto impettito e incravattato per discutere sui piani di studio, Martino e Arianna si trovavano spesso d’accordo nel proporre e nel sostenere l’apprendimento all’aperto perché i veri strumenti erano proprio nell’ambiente. Il sig. Cornacchia sbuffava abbastanza recalcitrante sostenuto dalle altre tre insegnanti che privilegiavano lo studio teorico e i nostri due ambientalisti il più delle volte dovevano sottostare alle regole cattedratiche.
A Martino piaceva Arianna, aveva un corpo sinuoso, un bel mantello maculato, folto e lucido, ai raggi del sole brillava lasciando trasparire tutta la sua bellezza, ma ciò che amava di più erano i suoi occhi espressivi e autentici di un bel colore marrone fondente che facevano pensare a bon bon di cioccolato puro. Gli piaceva anche il suo carattere così spontaneo e gioioso, tante volte si trovava ad ammirarla mentre non si lasciava condizionare dalle colleghe dicendo sempre quello che pensava senza ipocrisie: appariva semplicemente se stessa. Questo interesse per la collega crebbe di giorno in giorno e, nonostante la timidezza si sforzava di non arrossire quando lei lo guardava con quei suoi occhi di cerbiatta. Mentre la osservava sentiva uno strano brivido percorrergli tutta la schiena, le sue penne si arruffavano sul capo e gli ingrossavano il muso facendolo assomigliare ad un mammalucco. Un giorno, dopo la scuola, si armò di coraggio e la invitò al bar della pensione dove soggiornava per bere un aperitivo in compagnia. Arianna abitava vicino alla scuola e non aveva l’urgenza come le sue colleghe di correre a casa dai figli e dai mariti, anche lei come Martino era sola e poteva gestire il suo tempo come meglio credeva. Condividevano l’amore per la natura e per l’insegnamento e passavano momenti interminabili a scambiarsi riflessioni sui mutamenti delle stagioni, sulle piogge acide, sul buco dell’ozono e sul colore dubbio del giglio rosso che cresceva spontaneamente vicino alla scuola e non pareva poi così rosso ma tendente all’arancio. Si trovavano a ridere del preside, che non solo era bigotto ed impettito ma mentre parlava emanava un’alitosi pesante e puzzolente che riu­sciva a stendere morta e stecchita anche la mosca più invadente. Ma i momenti più belli passati assieme era quando parlavano dei loro alunni e dei loro progressi. I loro musi s’illuminavano soddisfatti, si sentivano all’unisono legati fra loro da una sintonia perfetta e il loro era un volersi bene platonico, un amore che andava ben oltre il lato fisico ma toccava quella parte spirituale che pochi raggiungono.
Arianna era molto più di così, era socievole, amava stare in compagnia con gli amici e trascorrere veri momenti di divertimento come passare le serate al Karaoke dei Fringuelli, grazioso locale frequentato da simpatizzanti della musica evergreen, le canzoni più amate erano indubbiamente quelle di Baglioni e Battisti, il massimo poi era ballare in discoteca ritmi sfrenati pop e blues anni ’70. Quando c’era da combattere per i diritti sociali era la prima che scendeva in piazza o meglio nella radura armata di striscioni contro i padri padroni e le imposizioni dettate dall’alto ossia da quella fetta di popolazione che tanto predicava bene ma razzolava male, cioè i politici. Aveva invitato anche Martino più volte ad unirsi alla sua compagnia sovversiva ma lui aveva sempre rifiutato a causa della sua timidezza e paura di esporsi anche se ne condivideva le idee liberali, troppo forti erano le influenze e i condizionamenti genitoriali. La diffidenza verso l’altro lo portava purtroppo ad isolarsi sempre più. La classe e gli alunni erano l’unica via di scampo. I cuccioli lo vedevano come il maestro, l’autorità, la persona saggia da rispettare e lui si guadagnava il loro rispetto perché i suoi metodi pedagogici erano infallibili. Riusciva ad essere empatico ed autorevole, non alzava mai la voce, i cuccioli obbedivano perché nulla veniva loro imposto, insomma insegnare per lui era come respirare.
Genevièvre, Guenda e Clarabella erano gelose di lui e, all’intervallo mentre Martino giocava con i cuccioli se ne stavano appartate a spettegolare cercando di trovare appigli per mettergli il bastone tra le ruote. Nei consigli di classe riuscivano quasi sempre a porlo in cattiva luce con il preside diventando autoreferenziali mettendo ben in evidenza le loro aderenze ai programmi curricolari e la loro saccenza. Il preside non poteva far altro che esaltare la loro onnipotenza.
Martino se ne stava sempre zitto, a lui non piaceva mettersi in mostra, era sicuro che se avesse anche detto una sola parola si sarebbe sentito giudicato e disapprovato, quindi preferiva non esprimersi. Ad Arianna, invece, piaceva lottare per le proprie idee, in quella sede manteneva un atteggiamento composto ma schietto. Non veniva vista di buon occhio soprattutto dalle colleghe. Un giorno non aveva mancato di dir loro tutto quello che pensava senza mezzi termini: «Genevièvre non ti sembra di esagerare un po’ con quelle tue idee aristoteliche, e tu Guenda smettila di tirartela tanto e bada un po’ di più ai contenuti ecc.». Non mancava mai di dire ciò che pensava ma accettava le critiche che secondo lei erano sempre costruttive e ti permettevano di migliorare.
Dopo la consueta passeggiata metafisica nel bosco, terminate le ore di lezione, Martino passava una parte del suo tempo libero alla “Taverna” gestita da un tasso di nome Gigi che svolgeva l’antico mestiere di oste tramandatogli dai suoi avi. Gigi era anziano oramai e si faceva aiutare dai figli grandi a gestire la taverna, una specie di trattoria alla buona dove si serviva, oltre a piatti succulenti, anche del buon vinello che Gigi stesso produceva. Da quando aveva conosciuto Martino spesso gli chiedeva un suo parere: «A Martì il vino è maturato abbastanza per essere servito? Assaggia Martì che dici si può servire?». Da neofita Mar­tino non se ne intendeva tanto di vino anche perché a casa sua lo beveva solo il padre. Alla Taverna di Gigi invece quel liquido color rubino, dapprima indifferente, con il tempo divenne una parte di sé, un compagno, nei momenti di solitudine. Gli piaceva il sapore fruttato, quando scendeva in gola gli lasciava quel gradevole retrogusto. All’inizio era solo un sorseggiare, un degustare e poi via via divenne un’abitudine quotidiana bere e non poté più farne a meno. Tutti i giorni, verso sera Martino aveva l’appuntamento fisso alla Taverna di Gigi e alcune volte si fermava anche a cena. Dopo aver ben mangiato e ben bevuto se ne tornava alla pensione ebbro e stordito al punto giusto da addormentarsi come un sasso, a volte non faceva in tempo a lavarsi il becco e a spazzolarsi le piume. Aveva l’impressione che più passava il tempo e più quel liquido miracoloso aveva su di lui un effetto medicamentoso: gli leniva gli stati d’animo spesso tormentati con cui era difficile convivere, si sentiva più frivolo, sembrava che i suoi disagi quali la grande timidezza e la paura dei giudizi degli altri si affievolissero e lo facessero sentire più sereno.
Tutte le mattine a scuola tornava il Martino di sempre, la notte serviva per cancellarne il torpore; puntuale e preciso nelle lezioni, contento di vedere i suoi alunni, meno le colleghe e pago nel condividere con loro gli entusiasmi. Con Arianna il rapporto tendeva a sfaldarsi, Martino era a di­sagio, forse non si sentiva alla sua altezza o forse era solo incapace di amare? Questa risposta non riusciva ancora a darsela, sta di fatto che Arianna un giorno, visto Martino che tendeva a darsela a gambe lo rincorse e lo bloccò nell’aula insegnanti: «Cosa ti succede Martino, è da giorni che ti rincorro e continui a scappare, ti telefono e non mi rispondi, negli orari di compresenza non ti fai vedere, cosa ti ho fatto?» «Tu non mi hai fatto niente, ce l’ho solo con me stesso, lasciami in pace, non ho voglia di parlarne e nemmeno di vederti» rispose Martino con aria truce e batté i tacchi in ritirata ossia le zampe togliendo il disturbo. Arianna rimase sconcertata da quel comportamento; dove era finita la dolcezza e l’empatia che Martino dimostrava nei suoi confronti? Cosa lo aveva cambiato?
Decisa a non mollare pensò di seguirlo. Dopo lo scoccar della campanella di fine lezione lo vide dirigersi alla Taverna di Gigi, era l’ora di pranzo. Si appostò in un cantuccio tra la porta d’entrata e la finestrella che dava sulla sala da pranzo ma non riuscì a vedere nulla. La finestra era alta, decise allora di prendere una scala appostata nel retro della casa e posarla pian piano facendo attenzione a non scivolare e salì. Martino stava accomodato sullo sgabello del bar con un bicchiere di vino che teneva stretto con la zampa e sorseggiava discutendo animatamente con Gigi il quale non mancava di riempirgli il bicchiere ogni volta che Martino glielo tendeva. Arianna contò un numero smisurato di bicchieri di vino bevuti in poco tempo: erano 12, 14, aveva perso il conto! Aveva visto abbastanza per giustificare il comportamento anomalo di Martino. Non era possibile che quel gufo che aveva tanto ammirato si “svendesse” così a buon mercato in un’osteria davanti a un bicchiere di vino in compagnia di un vecchio mammalucco con la demenza senile. Lui così giovane, amante della natura e dei buoni propositi si ritrovava a passare il suo tempo in un’osteria umida e maleodorante. Cosa poteva essergli successo, si era bevuto il cervello? Qualcuno lo aveva talmente offeso da perdere tutti i suoi interessi? Si sentiva solo?
Quante congetture saltarono alla mente della povera Arianna consapevole di essere arrivata al punto di perdere una grande amicizia. Era disperata non sapeva come fare ad aiutare Martino, ma avrebbe voluto Martino farsi aiutare? Quella mattina le aveva risposto con tale freddezza e durezza che poco dava a sperare a una riconciliazione.
Era una tiepida mattina di maggio, Martino si svegliò con gli occhi annacquati ed un insolito mal di testa, le meningi gli martellavano come nacchere unite al suono rimbombante del bongo e per un attimo gli sembrò di svenire, cercò di pensare a cosa gli fosse successo ma non se lo ricordava.
In bagno mise il capo sotto il rubinetto dell’acqua fredda e poi si diede un colpo di penne quasi per forzarsi a ricordare ma niente. Si guardò allo specchio e vide riflessa la sua immagine: appariva simile a un gallo spennato, un look orrendo. Aveva anche gli occhi arrossati e incavati, uno sguardo inespressivo quasi da ebete. Non si riconosceva, la sua immagine appariva sciatta e insignificante. Nel tentativo di ricordare scivolò sul sapone e picchiò violentemente il capo contro il rubinetto del lavandino, rimase a lungo tempo in una condizione semi-comatosa, ma poi gli tornò tutto in mente.
La sera precedente dopo aver fatto il pieno di vino alla Taverna di Gigi, si stava incamminando alla pensione. Era sabato e aveva deciso di non rientrare a casa, oramai era raro che lo facesse, nei fine settimana preferiva stare alla taverna quando incontrò Arianna accompagnata dalle sue amiche cerbiatte che stavano andando a divertirsi alla sala da ballo denominata “La vecchia Lanterna”.
Brillo ebbe il coraggio di sbilanciarsi e salutò con fare disinibito tutto il gruppo agitando animatamente testa e zampe fino a quasi perdere l’equilibrio rendendosi ridicolo, ma sentendosi simpatico, elargì un maestoso «Ciao pupe, dove andate a scorrazzare di bello?» «Andiamo a ballare bel cavaliere dal grande piumaggio, vuoi unirti a noi?» Rispose la più svampita del gruppo. «Mi aggiungo a voi fate lunari» rispose Martino e unendosi al gruppo s’incamminarono fra risate e sberleffi fino al locale, Arianna rimase di ghiaccio. Martino era diventato tutto un altro animale, appariva un buffone privo di personalità, una marionetta che si lasciava manovrare come un burattino, completamente privo di struttura. Il suo corpo appariva molliccio, gonfio, dinoccolato, il suo becco poteva essere paragonato ad un alambicco ed emanava un odore nauseabondo di alcol, solo a stargli vicino ti sentivi ubriaco!
All’entrata del locale una massa pelosa informe sovrastava l’ingresso: era l’orso Manzù il buttafuori che godeva di una particolare sensibilità animalesca e, viste le condizioni psicofisiche alterate di Martino non voleva farlo entrare. Dispiacendosi delle disgrazie altrui, con fare compassionevole gli disse: «Vuoi che ti accompagni a casa e stia un po’ con te finché ti passa la sbornia?» «Ma che dici gorillone» rispose di tutto punto Martino «stasera mi voglio divertire, guarda quante damigelle ho ai miei piedi, le voglio fare impazzire».

[continua]


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