Con questo racconto è risultato 6° classificato – Sezione narrativa alla XVI Edizione del Concorso Città di Melegnano 2011
Questa la motivazione della Giuria: «L’autore sembra narrare una favola molto realistica, nella quale tutti gli elementi surreali acquistano però via via una connotazione esistenziale angosciosa e ineluttabile. Si può considerare quest’opera una piccola dissertazione filosofica sull’ego e i suoi danni. Il folletto saggio e malefico del racconto è il simbolo della scelta ardua di ogni essere senziente tra accettazione stoica della cruda realtà o aspirazione esaltante ma caduca alle ambizioni. Il protagonista, scrittore incompreso, desidera la fama, la fortuna, il talento, non sapendo però che tali mete portano necessariamente a deviazioni, rinunce e asperità della sorte. Perché ogni eccesso in tale senso si paga, per la legge dell’equità dell’universo, per la quale, ogni grande fortuna ha il suo prezzo, a volte altissimo. Il mito del talento riconosciuto, rovina irrimediabilmente questo artista, e non solo lui: questo scritto è una sorta di parabola che denuda il culto della personalità e il concetto di merito, attualmente inesistente in questa società.
Ed è bellissima la frase di apertura: “La fortuna di avere talento non è sufficiente: bisogna avere anche il talento di avere fortuna” (Hector Berlioz)».
Alessandra Crabbia
Talento o fortuna
La fortuna di avere talento non è sufficiente;
bisogna avere anche il talento di avere fortuna.
Hector Berlioz
Felice Palmieri, in arte Felix, non aveva un buon rapporto con il sonno. Difficoltà nell’addormentarsi e continui risvegli. Per questo quando avvertì un movimento strano al suo fianco, aprì subito gli occhi.
Ma per capire cosa stesse accadendo fu costretto ad accendere il lumino. La moglie dormiva beata su di un lato. Per sua fortuna aveva un sonno profondo, altrimenti anche lei si sarebbe accorta che in quella stanza stava avvenendo qualcosa d’insolito. Qualcosa che lasciò il povero Felix senza parole.
Ai piedi del letto c’era un folletto – lo chiamo così perché è il termine che meglio descrive quell’esserino strampalato adagiato sulle pieghe del lenzuolo – che lo guardò per un attimo e poi si portò l’indice al naso come a indicare di fare silenzio. In realtà non ci sarebbe stato bisogno di quell’invito, perché le parole non sarebbero uscite a Felice neanche se lo avesse voluto. La lingua di fuori, gli occhi spalancati, esaminava il suo interlocutore come un bambino osserva un falso Babbo Natale in un grosso centro commerciale.
Il folletto fece tre saltelli e spense la luce. Ma anche così era possibile vederlo, l’omino, infatti, rifletteva di luce propria. Era alto circa trenta centimetri e vestito con una semplice canotta e dei bermuda. Felice pensò che si sarebbe aspettato di più da un folletto, almeno un cappello a punta.
Ma non c’era nessun cappello, né orecchie da elfo, né altre magie stravaganti. Solo un piccolo gnomo che emetteva un alone argentato e che gli fece segno di seguirlo in salotto. Qui si accomodò sul bordo della televisione accavallando le piccole gambe e iniziò a fissarlo con aria divertita.
Felice a quel punto pensò di star sognando. Si precipitò in bagno a sciacquarsi il viso e poi tornò. Ma lo gnomo era ancora lì e stava sbuffando. Allora si fece coraggio e gli domandò chi fosse e cosa volesse da lui. Il nanerottolo per risposta saltò giù dal televisore, si avvicinò a un quadro e lo scostò dal muro. Poi si girò verso il suo interlocutore e gli fece cenno di andare a vedere. Felice non capiva, sembrava che quel frugoletto volesse invitarlo a guardare sotto il dipinto. Lo fissò, indeciso su cosa fare, infine si curvò per accontentarlo.
E quel che vide lo lasciò esterrefatto.
Dietro il quadro c’era un buco, una piccola rientranza nel muro, illuminata come se ci fossero dei faretti. E poi c’erano due scatoline di diverso colore, una blu e l’altra gialla. Felice si strofinò gli occhi per vedere se quell’immagine svanisse, ma nulla, i due contenitori, simili a quelli che si usano per i fiammiferi, erano sempre lì, e i raggi di luce che provenivano da chissà dove erano direzionati proprio su di essi. Su una delle scatole c’era scritto “Talento” e sull’altra “Felicità”.
Il folletto si arrampicò sulla spalla di Felice e da lì s’infilò nella fessura. Quindi indicò le due scatole, prima l’una poi l’altra, come a dire di scegliere fra le due.
Nel mondo normale una persona non indugerebbe più di tanto a scegliere quale scatoletta prendersi da dietro un quadro. Ma il mondo normale per Felice non esisteva più, e in quest’altro gli sembrò del tutto naturale riflettere sulla scelta. Guardò il folletto che attendeva con un sorriso stampato sul volto e considerò che potesse trattarsi di una sorta di mago o di genio della lampada che gli stava proponendo di assicurarsi il talento o la felicità. Rifletté anche sul fatto che in fondo quel piccolo puffo non lo dovesse conoscere così bene, altrimenti avrebbe saputo che fra le due possibilità lui avrebbe optato sempre per il talento.
Era uno scrittore di storie per ragazzi, Felice Palmieri. O, almeno, avrebbe voluto esserlo. Aveva una sola pubblicazione alle spalle che non gli aveva portato nulla di buono e tanti rifiuti più o meno garbati. Per cinque anni era andato avanti imperterrito per la sua strada, alla ricerca di qualche editore onesto che si accorgesse di lui. Ma sembrava che i suoi testi non interessassero a nessuno, tantomeno ai ragazzini. In fondo, se nessuno lo voleva pubblicare, se non riusciva a imporsi in alcun concorso, forse voleva dire che il talento non c’era, che lo vedeva solo lui. Così era tornato alla sua occupazione, quella che lo aveva reso un infelice e che ogni giorno gli avvelenava un po’ di più l’esistenza. Niente di speciale in questo, sono tante le persone che la mattina si alzano per iniettarsi la loro dose giornaliera di fallimento e frustrazione. Lui era solo uno dei tanti.
Perciò fra talento e felicità non ebbe dubbi, scelse il primo. Perché se hai talento la felicità te la puoi conquistare. Aprì la scatolina ma all’interno non vi trovò nulla, quindi gettò uno sguardo al folletto che, nel frattempo, era svanito. Rimaneva solo il buco nella parete a dimostrargli che non si era trattato di un sogno.
Felice restò immobile a guardare quella cavità per un tempo indefinito poi si infilò il piccolo contenitore nella tasca della vestaglia e si adagiò sul divano. Doveva riflettere, ciò che era successo era inverosimile. Ma non ebbe modo di pensare più di tanto all’accaduto perché non appena seduto gli apparve davanti agli occhi, come d’incanto, una storia, una fiaba davvero speciale. In pochi secondi l’intera vicenda si era ramificata nella sua testa, in una sorta di folgorazione. Accese il portatile e iniziò a scrivere. E continuò per tutta la notte, fino a quando la moglie Mara non lo interruppe la mattina seguente. Lei lo guardò come fosse pazzo e, in effetti, lo sguardo di Felice non era del tutto normale, con quel sogghigno stampato sul volto. Era felice Felice, forse come mai nella sua vita. In sei ore aveva scritto più di quanto non avesse fatto negli ultimi cinque anni e adesso si trastullava davanti allo schermo con la storia migliore che avesse mai potuto sperare di elaborare.
Condivise con la moglie quella gioia così grande, ma non fece alcun accenno all’episodio del folletto. Lei sembrò contenta, anche se lì per lì non poteva capire la portata di quell’avvenimento. Quella fiaba scritta in poche ore avrebbe svoltato loro la vita.
Felix nascose la scatoletta in un cassetto e iniziò a prepararsi. Prima di uscire regalò un bacio alla moglie e poi senza farsi vedere diede una sbirciata dietro il quadro. Il buco c’era sempre, pur se vuoto. Afferrò la borsa e si preparò ad affrontare l’ultimo giorno di lavoro. Dall’indomani la sua vita sarebbe cambiata.
Il romanzo fu pubblicato da una delle maggiori case editrici ed ebbe un enorme successo, vincendo numerosi premi. In breve tempo la sua vita cambiò, così come aveva sempre desiderato. Passava le giornate fra una presentazione e l’altra, tra convegni, cerimonie, premi, concorsi e quant’altro. Ma erano contenti così lui e Mara, perché quel poco tempo che Felice trascorreva in famiglia, lo passava con il sorriso sulle labbra. Era un uomo soddisfatto Felice Palmieri e la sua felicità era contagiosa.
Poi una notte tornò a trovarlo il suo amico folletto, circa un anno dopo la prima visita. Lo svegliò e lo portò ancora davanti al quadro. E lì c’erano di nuovo due scatole. Su una di queste c’era sempre la scritta “Talento”, ma l’altra riportava la parola “Affetti”.
Felice fissò l’ometto in cerca di una spiegazione, ma questi non poteva parlare, non lo aveva mai fatto. Sembrava in attesa che lui, come la volta precedente, scegliesse fra le due possibilità. Anzi, questa volta sembrava anche un po’ seccato, come se stesse perdendo del tempo prezioso per compiere quest’adempimento. Mentre Felix indugiava di fronte a quella scelta così complicata, lui attendeva con le braccia conserte, battendo un piede a terra con ritmo regolare. Era nervoso il puffo, ma mai quanto Felice. Perché quest’ultimo non sapeva cosa volesse significare la parola “affetti”, non sapeva se prediligendo quella scatola avrebbe potuto avere tante donne, oppure l’amore duraturo di chi gli voleva bene o, ancora, se grazie a quella scelta sarebbe riuscito infine ad avere un figlio cui poter leggere le proprie storie la sera nel letto. Non poteva sapere cosa gli avrebbe portato quella scatola, così decise di andare sul sicuro, di prendere ancora il contenitore con scritto “Talento”. Almeno si sarebbe assicurato un nuovo romanzo di successo e altre entrate economiche. Si infilò la scatola in tasca e se ne andò a letto.
Ma prima dell’alba si svegliò, perché doveva scrivere, annotare quello che aveva sognato. Una nuova incredibile storia, che lo avrebbe portato alla fama internazionale. Terminò il testo in poco meno di tre ore e stava per farsi una doccia quando squillò il telefono. La moglie era già al lavoro per cui toccò a lui rispondere. Era una cara amica di Mara che lo chiamava per comunicargli una brutta notizia, la peggiore delle notizie. Sua moglie aveva avuto un incidente con la macchina e non ce l’aveva fatta, era morta in sala di rianimazione.
E fu in quell’istante, un attimo prima di svenire, che il povero Felice Palmieri si rese conto del significato di quella maledetta scritta “Affetti”.
Aveva barattato la sua dolce metà per un altro successo editoriale.
L’affermazione fu ancora maggiore della precedente, ma questa volta Felice non poté gioire, perché la sera quando tornava a casa non trovava più la moglie ad aspettarlo. Si sentiva in qualche modo colpevole per non aver compreso, per essere stato avido di successo e aver anteposto la felicità personale a Mara. Ma non poteva sapere, non avrebbe mai potuto immaginare.
Si trascinò stancamente fra una presentazione e una cerimonia per tutto l’anno successivo finché una notte, d’improvviso, gli riapparve il folletto che lo fissava e rideva di gusto, quasi a volerlo prendere in giro. Felice si alzò di scatto per afferrarlo, intenzionato a strozzarlo. Ma questi era troppo veloce per lui e con un balzo gli fu sulla nuca, iniziando a ridere in modo sguaiato. Poi si avviò al solito posto, dietro il quadro. Felice rimase nel letto, non avendo intenzione di seguirlo. Nei mesi precedenti aveva più volte pensato al momento in cui quell’essere spregevole si sarebbe ripresentato e aveva deciso che se non fosse riuscito a ucciderlo lo avrebbe ignorato. Così si stese di nuovo. Ma dopo pochi secondi il piccoletto era sul letto e aveva con sé le due scatoline, ognuna in una mano. Lo fissava con le braccia aperte e un’espressione di sfottò sul viso. Felice ebbe modo di leggere le scritte. Un contenitore riportava la solita parola “Talento”, ma l’altro, di colore arancio, recitava: “Salute”. Nel leggere quel vocabolo Felice avvertì un battito mancargli nel petto e non ci mise molto a capire. Se avesse optato per il talento, con ogni probabilità non sarebbe arrivato all’indomani. Per questo strappò di mano al folletto la scatolina arancio e se la infilò di fretta e furia in tasca. Per risposta lo gnomo gli fece un inchino e si polverizzò all’istante.
Felice rimase seduto nel letto, fissando il punto dove prima c’era il suo diavolo, colui che gli aveva fatto vendere l’anima e dopo essersi preso Mara ora voleva avere anche lui. Ma questo non glielo avrebbe permesso. Si può sbagliare una volta, non due, pensò, rigirandosi fra le mani la scatolina arancione. Aveva scelto la salute e non avrebbe avuto più nulla da temere.
E a farsi fottere il talento.
Per circa un anno non riuscì a scrivere nemmeno una riga. Aveva un blocco totale, come se la sua fantasia si fosse all’improvviso prosciugata. L’editore lo pressava e lui era costretto a mentire, dicendo di aver quasi terminato il romanzo. In realtà non aveva nemmeno iniziato. Il suo talento letterario se n’era andato di punto in bianco, così com’era arrivato. Trascorreva le giornate in casa, non si lavava, non si radeva, si lasciò andare e cadde ben presto in depressione. Non aveva più sua moglie al fianco e aveva anche smesso di essere un grande autore. La sua vita era allo sbando e non c’era giorno in cui non malediceva quel dannato folletto e il suo ghigno della malora. Qualche volta andava dietro il quadro per controllare se per caso ci fossero altre scatolette ma nulla, l’incavo rimaneva vuoto.
In realtà la sua avidità, il bisogno morboso di scrivere, di essere qualcuno, di farsi apprezzare, lo stava facendo impazzire e qualche sera nel letto lo portava anche a pentirsi della scelta fatta, aver rinunciato al talento per non morire. Perché di quella vita Felice Palmieri non sapeva che farsene. Per questo iniziò a balenargli l’idea di farla finita. Non fu un pensiero immediato, piuttosto un tarlo che lentamente iniziò a perforargli il cervello, fino a quando non gli fu chiaro quello che doveva fare. Si sarebbe ucciso, così da fregare anche quello gnomo bastardo. L’unica cosa che gli dispiaceva era che non avrebbe potuto vedere la sua faccia quando si fosse ripresentato.
Ma il destino volle diversamente. Una notte, mentre era nel letto a fissare il soffitto, ebbe un’idea fantastica. Raccontare la sua storia, l’avventura delle scatole e del folletto. Come aveva fatto a non pensarci prima. D’altronde, sembrava una fiaba bella e pronta scaturita dalla mente di un abile narratore. Non avrebbe dovuto far altro che descrivere quanto gli era successo e alla fine avrebbe avuto il suo bel romanzo.
Però non fu come quando lo guidava il talento, quando le mani danzavano da sole sulla tastiera senza che lui dovesse fare alcuna fatica. Ci mise sei mesi per terminare il lavoro, ben oltre il termine prefissato dalla casa editrice. Ma alla fine venne fuori una storia fantastica, ironica, fiabesca e con uno spruzzo di noir. Aveva tutti gli ingredienti per avere successo. L’indomani sarebbe andato dall’editore, gli avrebbe consegnato l’opera e poi se ne sarebbe andato a festeggiare in qualche locale. Doveva riprendersi la sua vita, il successo, la celebrazione e il rispetto. Lui viveva di questo, ne aveva bisogno come un tossico necessita della droga.
Quella sera andò a dormire soddisfatto e nel ripensare al suo odiato nemico quasi provò un po’ di gratitudine. In fondo gli aveva sì tolto la moglie, ma gli aveva anche donato il successo e la salute. E non era poco.
Ma la stessa notte si ripresentò il folletto. Sempre con quel risolino stampato in volto, lo fissò per un istante e poi gli fece cenno di seguirlo al solito posto. Questa volta Felice gli andò dietro senza fiatare. Nell’incavo c’erano come sempre due scatole, una con la scritta “Salute” e un’altra di color viola che diceva “Fortuna”.
Se ci fosse stata un’altra parola al posto di Fortuna, se si fosse trattato della felicità o degli affetti, lui avrebbe optato per la salute. Ma quella piccola parolina, Fortuna, gli fece perdere la ragione. Perché per Felice Palmieri la buona sorte era tutto nella vita. Aveva sempre pensato di essere un uomo sfortunato, che i suoi racconti non fossero pubblicati per sfortuna, che non riuscisse a diventare scrittore per sfortuna, che non fosse ricco per sfortuna. La dea bendata lo aveva sempre ignorato. Così, quando se la ritrovò lì, a portata di mano, ne fu irrimediabilmente attratto.
Indugiò alcuni secondi, puntando gli occhi ora sull’una ora sull’altra scatola, indeciso su quale afferrare. Poi, con un movimento repentino della mano, si impossessò di quella viola. Un attimo dopo che se la fu infilata in tasca, il folletto sparì. Felice allora ebbe un sussulto e un fremito gli attraversò la schiena. Capì che si trattava di pentimento per la scelta fatta. Aveva smerciato la sua vita per un po’ di fortuna. Guardò all’interno del buco alla ricerca del folletto o anche della scatola della salute ma nulla, lì dentro non c’era più niente. La paura lo assalì e maledisse ancora una volta quel malvagio folletto. Poi piano piano si calmò, riflettendo che sì, aveva rinunciato alla buona salute, ma in fin dei conti adesso era assistito dalla sorte e quest’ultima non avrebbe mai permesso che gli accadesse qualcosa. Sì, non c’era dubbio, aveva fatto la scelta giusta. La fortuna lo avrebbe aiutato con questo nuova opera, gli avrebbe donato il giusto riconoscimento.
Si preparò con calma, mentre la sensazione di angoscia andava svanendo. Quando ebbe terminato, infilò il romanzo nella borsa e scese. Durante il tragitto ripensò al testo, ai vari capitoli, alla storia intera. Cercava di riflettere se ci fosse qualche punto oscuro o se invece filasse tutto liscio. Non pensò più al folletto e alla storia delle scatole, ormai era proiettato al suo prossimo successo.
Fu per questo che non si accorse di quel maledetto ferro che fuoriusciva dal selciato. Inciampò senza rendersene conto e sfortuna volle che finisse ruzzoloni in mezzo alla strada proprio nel preciso istante in cui passava un Tram.
Credeva di aver stretto un patto d’acciaio con la dea bendata, per questo camminava senza guardare dove metteva i piedi. Ma, in realtà, aveva fatto male i conti, lo sventurato Felice, perché per assicurarsi la buona sorte aveva dovuto rinunciare alla salute. E senza di questa, lo sanno tutti, c’è ben poco da fare. E, infatti, nemmeno la fortuna poté niente. E fu un gran peccato, perché da par suo era già pronta a far diventare quella storia strampalata del folletto un best seller mondiale. E invece, quel sicuro successo rimase chiuso nella borsetta che terminò la sua corsa con Felice sotto le rotaie di un filobus.
Non si salvò nulla né del povero Palmieri né della sua valigia. L’unica cosa che rimase intatta fu una scatoletta viola che riportava la scritta “Fortuna”. La ritrovò lo stesso conducente ai piedi delle rotaie. Si dice che dopo il processo, l’uomo si licenziò dal lavoro e sparì. Di lui non si seppe più nulla. Qualcuno malignò che avesse fatto una grossa vincita alla lotteria e fosse partito per luoghi lontani, ma non tutti ci credettero. Perché per trionfare al gioco ci vuole una gran fortuna e quell’uomo non ne aveva mai avuta tanta.
Lorenzo Marone