In viaggio con l’angelo

di

Luca Tamburrino


Luca Tamburrino - In viaggio con l’angelo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
12x17 - pp. 48 - Euro 7,50
ISBN 978-88-6587-7524

eBook: pp. 27 - 4,99 -  ISBN 978-88-6587-7784

Libro esaurito

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In copertina e all’interno illustrazioni di Elisabetta Tamburrino


Un temporale estivo tinge di nero il bel cielo azzurro di un pomeriggio di maggio. La forte pioggia, la scarsa visibilità, la strada scivolosa e un Suv nero che corre contromano, segnano il destino di Filippo che quel giorno perde la vita in un incidente stradale. Passando per il tunnel della morte che lui chiama utero cosmico, paragonandolo all’utero della nascita, inizia il suo viaggio nel mondo ultraterreno, una splendida avventura nella vita oltre la vita. Viaggiando in compagnia dell’angelo Nathaniel, Filippo passa attraverso le grotte purganti per arrivare finalmente nel paradiso. La sua permanenza nel regno dei beati però non dura molto ed è costretto a ritornare sulla Terra, perché il cuore nel suo corpo riprende improvvisamente a battere. Uno straordinario viaggio ai confini della morte che insegnerà a Filippo dei segreti importanti che segneranno per sempre la sua nuova vita terrena.


In viaggio con l’angelo


Erano le quattro del pomeriggio quando cominciai a sentire i primi tuoni. Dalla finestra del mio ufficio avevo visto avanzare, lentamente, una distesa di nuvole nere e ricciolute che brontolavano in lontananza e accendevano continui lampi che parevano tanti flash fotografici. In poco meno di un’ora, gli ultimi lembi azzurri del bel cielo di maggio, che c’era poco prima, furono completamente oscurati dai nembi, e improvvisamente il giorno si era fatto più nero di un’anima dannata. All’improvviso scoppiò un tuono così forte che fece tremare i vetri delle finestre, e un lungo ramo di corrente elettrica guizzò tra le nuvole, rischiarando tutto il cielo per qualche secondo. Subito dopo quel rombo spaventoso, cominciarono a cadere le prime poche gocce grosse che subito divennero cento, poi mille e iniziò una tempesta di pioggia che precipitava scrosciando sui vetri delle finestre e accresceva i rivoli per le strade. Intanto si era fatta ora di tornare a casa e per fortuna avevo in un cassetto della mia scrivania uno di quegli ombrellini che si chiudono e diventano piccoli piccoli. Alle 17,00 in punto mi diressi verso l’uscita, aprii l’ombrellino e mi avviai verso la mia auto, ma non feci in tempo ad arrivare che una folata di vento, mista a spruzzi d’acqua, ripiegò l’ombrellino verso l’alto e arrivai in macchina completamente inzuppato. Salii a bordo, mi tolsi un poco d’acqua dalla faccia e dai capelli con un fazzolettino di carta, accesi il motore e mi diressi verso casa. La pioggia si abbatteva in rovesci così violenti sul parabrezza che i tergicristalli non riuscivano nemmeno a spazzolare via tutta l’acqua. La visibilità si era fatta scarsa, rallentai e mi accostai un po’ di più sulla destra, preso quasi dal desiderio di fermarmi e aspettare che spiovesse, ma non lo feci e proseguii verso casa, seppure lentamente e con molta cautela. Mentre guidavo, vidi da lontano due grandi fari accesi, che parevano due occhi di gatto al buio, venire verso di me. Suonai il clacson e lampeggiai con i miei fari per segnalare la mia presenza, ma quella macchina correva contromano e non accennava a rientrare sulla sua corsia. «Maledetto idiota, cosa fai? Così ci ammazziamo!», gridai. Non riuscii a dire altro, sentii solo un gran botto e poi niente. Per un attimo ci fu un gran silenzio, riuscii ad aprire gli occhi per qualche secondo e a vedere i vetri frantumati della mia vettura, e davanti a me un SUV nero con i vetri scuri. Provai ad alzarmi, ma non vi riuscii e cascai con la testa sul volante. Mi risollevai di nuovo, facendo un maggiore sforzo di volontà, avrei voluto gridare aiuto, ma riuscii ad emettere solo un mugugno disarticolato e ricaddi nuovamente con la testa sul volante. Non sentivo più nulla. I miei sensi, dapprima solo intontiti, si erano completamente spenti, anche se avevo ancora coscienza di me stesso. Cominciai a sentire un gran vociare di gente intorno a me, «correte! Presto, chiamate un’ambulanza!», gridavano. Mi ritrovai in mezzo a una folla di persone e riuscii a vedere anche la mia macchina schiantata contro l’auto nera. Mi avvicinai e vidi me stesso, con la testa poggiata sul volante. Quando presi coscienza dell’accaduto, non credevo ai miei occhi, lo scoramento si impadronì della mia anima e proprio mentre i sensi mi stavano abbandonando e il mio corpo spirituale stava per venire meno, mi sentii sollevare in alto, da una forza sconosciuta, verso quel cielo nero e piovigginoso, leggero come un tremulo palloncino volante. Dall’alto vedevo tanti ombrelli che si avvicinavano sul luogo dell’incidente, e macchine che si fermavano, mentre da lontano si sentiva il suono di una sirena. Forse era l’ambulanza o forse la polizia, non saprei dirlo, ma a mano a mano che salivo verso il cielo, quel suono si faceva sempre più fioco.

«Dove sto andando?», domandai alla mia anima immortale. Dall’alto vedevo le campagne circostanti ricoperte di grano dorato, e tra le spighe fiammeggiavano tanti papaveri rossi. Era maggio ed io stavo abbandonando il mondo nel mese più bello. Continuavo a salire in alto e ad un certo punto mi ritrovai davanti a un vortice d’aria e nuvole che girava a spirale, come l’acqua quando è risucchiata dal buco di un lavandino. Fui assorbito all’interno di quel vortice e mi ritrovai in un tunnel buio e stretto nel quale fluttuavo sereno. Mentre viaggiavo verso chissà quale dimensione ignota, ad un certo punto cominciai a vedere da lontano un barbaglio di luce come un puntino luminoso che illuminava anche se di poco il buio iniziale del tunnel. Con quella luce fioca che entrava dal fondo del tunnel, riuscivo a guardare le mie gambe, i miei piedi e il mio corpo e mi resi conto di essere completamente nudo. Compresi allora che la morte non è altro che lo specchio della nascita, come il tramonto lo è del sorgere del sole. Si nasce nudi da un utero di donna e si ritorna nudi in un utero cosmico, per rinascere in un altro mondo. Mi sentivo leggero e cullato come un bambino, e mi lasciai trasportare da quella forza misteriosa verso la luce. A mano a mano che mi avvicinavo verso l’uscita, quel puntino luminoso cresceva sempre di più, finché lo vidi diventare un disco di luce e, come in un nuovo parto, fui finalmente espulso da quel grembo cosmico, ritrovandomi in un nuovo mondo sconosciuto.
Mi guardai intorno e non vidi nessuno. In realtà non c’erano case e nemmeno alberi, ma solo prati. Un’immensa prateria verde che si stendeva a perdita d’occhio, con l’erba pettinata dal vento. Provai a camminare per un po’, ma quando capii che mi trovavo in un mondo sconfinato e solitario, mi fermai, m’inginocchiai e cominciai a pregare. Chiedevo a Dio di liberarmi dallo sconforto di quel momento, ma soprattutto di assistere i miei bambini che avrebbero dovuto affrontare il mondo senza un padre, e mia moglie che avrebbe dovuto affrontare tutto da sola. Mentre pregavo non mi ero avveduto di una figura d’uomo proprio davanti a me, vestito con una tunica di lino, bianca come la neve e un manto drappeggiato di colore verde sulla spalla sinistra. Aveva i capelli neri fino al collo e un volto giovane che emanava una strana luce. Mi alzai e rimasi a guardarlo senza parole. Prima che io riuscissi a fargli qualche domanda, mi porse dei sandali e una tunica da indossare. Era una tunica bianca, con una cintura fatta di corde intrecciate. Afferrai la tunica e la indossai. Infilai i calzari ai piedi e mentre annodavo la corda al fianco, finalmente trovai il coraggio di parlare, «chi sei?», gli domandai.
«Sono Nathaniel, uno degli angeli accompagnatori degli spiriti dei morti», disse con voce amica. Le mie ginocchia si piegarono e m’inginocchiai davanti a lui, ma mi rimproverò, «alzati!», mi disse, «t’inginocchierai solo davanti a Dio e a suo figlio Yeshua. Tu ed io siamo entrambi servi».


[continua]


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