A piedi nudi nel surreale… (raccolta di racconti)

di

Lucia Corso


Lucia Corso - A piedi nudi nel surreale… (raccolta di racconti)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 102 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-4127

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In copertina: «Vision of walk into the light» © Mangojuicy – Fotolia.com


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il riconoscimento ottenuto nel concorso letterario «O. Nipoti 2012»


Prefazione

Non v’è dubbio che la dimensione surreale sia intensamente seducente per Lucia Corso e la presente raccolta di racconti ne è la più vivida testimonianza confermando una sorta di attrazione magnetica per tutto ciò che è celato ed enigmaticamente miscelato o nascosto nella visione onirica-surrealista.
L’aspetto interessante è che questo processo narrativo non si presenta come una dicotomia ma come una precisa volontà di catapultarsi in quel mondo visionario che nasce da coinvolgenti e criptici racconti, cercando di operare un tuffo nell’immaginario, che sia dimensione parallela nella quale viaggiare con la mente.
Si assiste, seguendo il filo conduttore dei racconti, ad un desiderio di far intersecare i due piani, la struttura esistenziale e la dimensione irreale, fino a giungere ad un approdo che possa “aprire gli occhi” oltre il visibile, oltre la mera realtà.
Lucia Corso si avventura in questo percorso con discrezione, con onestà e, come a sottolineare questo approccio, vi entra in “punta di piedi”, anzi, “a piedi nudi”: potente è la sua forza emozionale, che esalta la sfera irreale, a volte, immergendosi nella vertigine immane nella quale alimenta e coltiva il suo processo narrativo.
Nella lettura dei racconti emerge prepotente la necessità vitale di Lucia Corso di voler navigare nell’immaginifico, oltrepassando il confine della quotidianità e della monotonia, superando le limitazioni di regole precostituite e di pastoie che limiterebbero la sua espansione creativa.
La capacità inventiva e la propensione a muoversi nell’ambito del fantastico nascono dall’esigenza di capovolgere la realtà che è davanti ai nostri occhi, viverla da “un’altra prospettiva”, raccontarla dopo essersi posizionata oltre la linea di confine: evocare presenze dal passato, immergersi in altre dimensioni, far vivere ai protagonisti condizioni surreali e farli stritolare dalla contrapposizione tra il mondo fantastico e la limitante realtà quotidiana, fino a condurli, in alcuni casi, ad una follia salvifica.
Si assiste ad un superamento della razionalità, al dissolvimento della materialità, quasi a gettarsi a capofitto nella dimensione onirica, simbolicamente rappresentante la concezione di una conquistata “libertà mentale”, che sia totalizzante e avvolgente compagna nel viaggio nel regno misterioso dell’invisibile.
Lucia Corso utilizza, come humus fertile sul quale innestare le sue visioni, il campo della creatività dell’essere umano, la “sfera della manifestazione artistica”: la pittura, la musica, il teatro, la scultura, la poesia, la danza e il cinema, senza disdegnare qualche salto narrativo nel campo della spiritualità, nella filosofica concezione del Tempo e nella storia, con riferimento alla follia della guerra; al campo dell’archeologia con la vicenda di alcuni ladri nella Valle dei Re; penetrando nel mistero che accompagna l’Uomo ed, infine, avvicinandosi al fascino dell’Universo con un’improbabile linea telefonica interstellare che offre previsioni planetarie.
Tutto viene creato e ricreato, plasmato e modificato da Lucia Corso, per rendere i racconti visionari la sostanza stessa della meta da raggiungere: la sua scrittura è avvolgente ed ammaliante, sempre attenta a gettare sul piatto ciò che non ci si aspetta.
Eppure, alla fine del percorso, la volontà di evasione nel surreale, riconduce Lucia Corso, quasi paradossalmente, alla vita reale, alla mera realtà di tutti i giorni dell’esistenza: d’altronde, come afferma anche Lei, osservando la realtà odierna pare ormai di essere in un mondo virtuale, in una sorta di follia generalizzata, in un mondo paradossale che supera la visione più fantascientifica e bizzarra.
V’è, infine, da sottolineare con evidenza e merito, la passione autentica di Lucia Corso che accompagna la sua scrittura, delicata e forte al contempo, sempre attenta a creare storie che possano stupire e generare immagini capaci di lasciare senza fiato.

Massimo Barile


A piedi nudi nel surreale… (raccolta di racconti)


Alle mie figlie Raffaella e Flavia


La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. Fra le tante disgrazie di cui siamo eredi bisogna riconoscere che ci è concessa la “più grande libertà” di spirito. Tocca a noi non farne un pessimo uso.
André Breton, 1924


L’insieme aveva l’essenza degli incubi, senza esserlo, però. La sensazione d’irrealtà era reale. Solo l’irrealtà è reale. Se no, le cose sembrerebbero molto reali, ma anche assurde.
Paco Ignacio Taibo II


La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata.
William Shakespeare


CON LA PITTURA

IL DOTTORE

Il cappello era proprio lì, sulla sua scrivania. Nero, a tesa larga, leggermente floscia e rosa dalle tarme. Il Dottore lo prese fra le mani e lo rigirò più volte. Sembrava molto vecchio, di foggia antiquata, e non lasciava trapelare alcun indizio sulla sua provenienza. Come era arrivato lì, nel suo studio, dove nessuno poteva entrare senza il suo permesso? Chi lo aveva portato?
E poi, altra stranezza, quell’oggetto gli evocava qualcosa, qualcosa che aveva visto, anzi rivisto di recente nel corso di qualche manifestazione.
Mentre cercava di fissare il ricordo nella mente, la sua attenzione fu attratta da un altro oggetto: un colletto bianco, anzi ingiallito, probabilmente dal tempo. Un colletto ampio, rifinito da un elegante merletto, poggiato mollemente lì, su uno scaffale della libreria, tra i suoi volumi di anatomia umana.
Sempre più sorpreso, il Dottore cercava di darsi una spiegazione razionale e contemporaneamente continuava a sforzarsi di ricordare dove aveva visto quegli oggetti. Ma improvvisamente, il suo studio, prima illuminato dalla porta-finestra del terrazzo che dava sul giardino, si rivestì di un’ombra scura o, per meglio dire, di una patina nera, quasi un velario disceso dal nulla.
Impressionato, il Dottore uscì dallo studio e si inoltrò nel corridoio.
Quel lungo tunnel sempre illuminato e animato da un continuo andirivieni di medici, infermieri e pazienti, era straordinariamente deserto, nero e silenzioso. Dove prima erano collocate le potenti luci al neon, ora si trovavano delle strane fiaccole che emanavano una luce spettrale e sinistri crepitii, annegati in un baluginio di scintille.
Per cercare di capire, il Dottore scese le scale che portavano al primo piano. Le scale, sì, perché non vedeva più gli ascensori. Ma, non li vedeva più perché era tutto buio o perché non c’erano più? E perché mai sarebbero dovuti sparire?
Incapace di darsi una risposta, smarrito e ormai anche spaventato, frugando sempre nel ricordo per decodificare la strana sensazione che lo attanagliava, il Dottore arrivò in sala operatoria.
Sapeva di dover operare quella mattina (ma era poi mattina?) un paziente molto grave per una profonda infezione al braccio, degenerata in cancrena. Lo trovò infatti, disteso sul tavolo operatorio, nudo dalla cintola in su, attorniato dai medici suoi collaboratori e dagli infermieri che lo preparavano, dandosi da fare con i teli sterili e gli strumenti. L’anestesista era vicino al suo volto pallido e contratto e lo aveva quasi anestetizzato del tutto.
Ma… dov’era il complesso di illuminazione che doveva trovarsi sospeso sul tavolo operatorio? Perché anche lì, improvvisamente, c’erano solo fiaccole? Perché tutto ciò non sembrava turbare i suoi collaboratori? E perché tutti i presenti portavano camici neri?
La collera lo invase!
“Non è ammissibile operare con le fiaccole!” urlò. “Se c’è un guasto al sistema centrale, entrano in funzione i generatori alternativi! Qualcuno ha preso provvedimenti? E perché questi camici neri? Deprimono il paziente, smetteteli immediatamente!”
La sua voce rimbombò nell’eco spettrale dell’enorme sala in penombra.
Nessuno rispose alla sua sfuriata che si spense lentamente in una fuga di scintille.
Lo guardavano tutti silenziosi, con le loro facce stranamente bianche che sembravano ancora più bianche su quei camici neri.
Tutti aspettavano. Aspettavano lui. Il paziente era già pronto. Bisognava cominciare.
Il Dottore si sentiva come svuotato di volontà, come trascinato in un altro mondo.
Eseguì le operazioni di sterilizzazione su di sé automaticamente, senza quasi vedere quello che faceva. Tornò in sala operatoria. Aspettò ancora qualche minuto.
Poi, meccanicamente, prese il bisturi che l’assistente gli porgeva. Nello stendere il braccio si accorse che la sua manica era nera e che, non solo la manica, ma anche tutto il suo camice era nero. E, toccandosi per cercare di capire, si accorse che aveva al collo il colletto bianco ingiallito e in testa, invece della cuffia sterile, il cappello a tesa larga, floscio e roso dalla tarme, quegli oggetti, venuti dal nulla, che aveva visto nel suo studio.
Il Dottore stava entrando nel panico.
L’anestesista lo guardava fisso, intimandogli in silenzio di sbrigarsi.
Il Dottore incise.
Il bisturi gli sfuggì dalle mani e un grido strozzato gli partì dalla gola secca: alla prima incisione, la pelle del braccio del paziente si aprì a fondo, per tutta la lunghezza dell’arto, cadendo a terra senza vita, come uno straccio strappato, pesante, umido e molle, e scoprendo i muscoli e i nervi sottostanti, in un orribile ammasso sanguinolento.
Il Dottore, livido in volto, stremato e confuso, guardò i suoi collaboratori.
Tutti, ancora attorno a lui e al tavolo operatorio, fissavano il braccio, allibiti.
Nessuno parlava.
Il Dottore alzò lo sguardo, smarrito.
Lassù, nell’alone della fiaccola più luminosa, sornione, REMBRANDT sorrideva!


CON LA MUSICA


LA PIANISTA

Le sue mani volavano lievi sulla tastiera. Le dita agili e sottili sfioravano i tasti bianchi e neri con la velocità e la delicatezza delle ali di un uccello che plana, maestoso e leggero, sulle acque chiare di un fiume. E, come perle di fiume, sgranate lentamente da un vezzo prezioso e trasparente, i suoni delicati dei Notturni di Chopin, i suoi brani preferiti, sembravano rimbalzare dolcemente, dai tasti verso l’aria sfumata delle sale da concerto, per raccogliersi, come in uno scrigno, nelle coscienze degli ascoltatori.
Lei suonava spaziando nel suo universo musicale con la sicurezza consapevole dell’artista completa e la capacità di penetrazione di una sensibilità superiore.
E, in questa sua tendenza a donarsi senza riserve, trovava contemporaneamente la gioia di ricevere un bene prezioso anche per se stessa.
Non aveva nome e non aveva identità, in quei momenti. Lei era la Musica e la Musica era nella sua essenza. Era un interscambio fondamentale, continuo, quasi come un fenomeno di osmosi. Così perfetto, che era facile e spontaneo, per lei, attribuire alle alterne vicende della vita, le forme e le sfumature di colore e di andamento che ritrovava nei suoi spartiti musicali. L’Amore diventava la sua “Sinfonia” e il dolore il suo “Lento” in tono minore. La passione era un “Crescendo” e la malinconia un delicato “Adagio”.
La sua concentrazione non aveva sbavature, il raccoglimento degli accordi fissati nella memoria era totale e, quindi, le sue esecuzioni erano sempre profondamente ispirate e perfette.
Terminato il concerto, però, si ritraeva subito, si allontanava dal palco, dagli applausi, dagli inchini, dalla gente. Rientrava nella vita.
Ma non aveva una vera vita, non aveva una vera casa. Si spostava sempre. Non riusciva a dare una dimensione concreta alla sua arte, non poteva circoscrivere, fra le pareti, l’immensità della sua ispirazione. Doveva lasciarla vivere libera, nella sua sfera infinita e immateriale.
Perciò gli amori che aveva avuto erano stati brevi e fugaci, le sue amicizie erano labili, le relazioni umane quasi inesistenti. Amava veramente soltanto una villa sperduta in campagna, in cui, appena le era possibile, si ritirava. Era una villa dell’Ottocento, solitaria, in mezzo ad una grande distesa di verde percorsa da un piccolo ruscello che scendeva dalle vicine montagne.
Era l’unica voce che sfiorava quel grande silenzio esterno e il suo raccoglimento interiore.
In quella villa era se stessa. Quelle pareti potevano contenere la sua arte perché esse stesse erano Arte. Racchiudevano quadri preziosi, affreschi del ‘500 che le sorridevano dal soffitto, mobili antichi di raffinata lavorazione artigianale.
E i suoi strumenti: due pianoforti, uno verticale e l’altro a coda che le riempivano le giornate di ritiro, in cui preparava, scrupolosamente e con passione, i suoi concerti.
Tutto questo le bastava. Ma, nello stesso tempo, da questa ritrosia, da questa tendenza quasi maniacale all’isolamento, nasceva il suo dramma di donna.
Il suo ultimo amore, un violinista, non riusciva a vederla come lei voleva essere considerata, un tutt’uno con la musica. Lui, naturalmente, separava la sua persona dall’arte. In lei vedeva soprattutto la donna, da cui pretendeva l’amore, la consistenza, la corporeità. Non riusciva a comprendere questo suo esasperato bisogno di isolarsi dalla realtà.
E da lì nascevano i loro profondi contrasti, i continui battibecchi. All’ossessiva richiesta della donna: “Ho bisogno di studiare, devo preparare il concerto, lasciami lavorare!”, la risposta del suo compagno era sempre la stessa: “Tu non ragioni! Non esisti solo per la musica! Sei una donna, la mia donna, e io ho bisogno di te!”
In quei momenti, lei cedeva. Ma erano momenti fugaci, frettolosi in cui manifestava quasi insofferenza verso un rapporto che cercava di ridurre al minimo e di cui tentava di liberarsi. Andavano avanti così, tra litigi e riappacificazioni, tra viaggi di lavoro che li separavano, e ricongiungimenti mai sereni, in quella villa solitaria.
Fino all’ultima sera. Quando, dopo una delle loro più disastrose scenate di incomunicabilità, dopo l’ultimo tentativo dell’uomo di strapparla da quell’isolamento che rasentava l’alienazione, per portarla verso la vita, la rabbia ebbe in lui il sopravvento. Invece di andarsene sbattendo la porta, come faceva sempre a conclusione delle loro scenate, se ne andò lasciando cadere il pesante coperchio del pianoforte verticale sulle mani di lei che, quasi ignara della sua persona e delle sue parole, si era seduta allo strumento e aveva cominciato a suonare.
Ed era stata la fine.
Una pianista con fratture multiple alle mani non può più suonare. Tutte gli interventi chirurgici effettuati presso le cliniche migliori, tutte le cure fisioterapiche, seguite nei centri riabilitativi all’avanguardia, non avevano potuto restituirle le sue mani, le sue dita veloci, l’elasticità dell’insieme.
E non aveva più suonato.
Aveva abbandonato il violinista e il mondo. Aveva steso una cortina nera sul suo cielo di luce. Aveva detto addio al suo universo di suoni. Si era chiusa più di prima nel suo isolamento.
Che ora era assoluto. Non c’erano più le sue note a popolarlo di vita. Lei non era più la Musica e la Musica non era più in lei. Si era come asciugata, aveva perso la vitalità interiore che dava linfa a tutto il suo essere.
E, a poco a poco, si era identificata con quella villa in cui si era chiusa, sbarrandone porte e finestre al mondo intero.
Parlava ai quadri, agli affreschi, agli oggetti che la circondavano. Ritrovava, nelle cose, una vita che non era più dentro di lei. La Musica era ora nelle pareti ricoperte di sofisticata carta da parati, nei soffitti preziosi, nei mobili intarsiati, nelle porcellane di Sèvres, nei vasi di cristallo di Boemia, nei magnifici lampadari di Murano. Era nei fiori del giardino, nella voce del ruscello che continuava a scendere dalla montagna.
Ma non era più nei pianoforti che rimanevano chiusi, non era più nella sua essenza che su quei pianoforti si era tante volte liberamente espressa. Li guardava stralunata, sembrava non vederli nemmeno, come non vedeva nemmeno gli spartiti che non aveva più neanche sfogliato.
Mozart Beethoven Liszt Chopin, il suo più grande ispiratore, rimanevano lì, inerti, incapaci di trasmetterle, con i suoni, parole di vita.
Nel suo quotidiano, incessante peregrinare inattivo e solitario fra le grandi, silenziose sale della villa, nel suo riempire quei silenzi con stralunati soliloqui, si era smarrita la sua essenza. In quel groviglio informe era finito ciò che rimaneva della sua anima.
Troppo lontana dalla realtà, troppo vicina all’irrazionalità.
E fu in una di quelle sere che “lo” vide. Seduto al pianoforte verticale.
Il coperchio era sollevato, la striscia di velluto che copriva la tastiera, abbandonata per terra, gli spartiti sparpagliati dappertutto in grande disordine.
E lui era lì.
Lei non poteva sapere da dove venisse, non poteva sapere come fosse entrato, ma sapeva chi era, lo aveva quasi aspettato. Era lui, con la sua solita redingote scura, dal sapore ottocentesco, il suo solito fiocco nero annodato al colletto della camicia candida, i suoi capelli lunghi intorno al viso, come quelli di una giovinetta.
E suonava i suoi Notturni per lei che ora non poteva più viverli ed esprimerli. Le sue splendide mani di compositore e pianista scivolavano docili sulla tastiera, creavano e nutrivano accordi che le ridavano la vita, che la ricongiungevano alla Musica, nella perfetta simbiosi di un tempo. Ora lei era di nuovo la Musica e lo era attraverso di lui che ne aveva ricostituito l’essenza.
Lo ascoltava.
Seduta in un angolo del salone, muta e immobile, lasciava che le note del Maestro si librassero nell’aria e la nutrissero, che le ridessero il cibo, il sonno, la quiete, la spiritualità che erano spariti, usciti da lei quando aveva perso le sue mani.
Lo aspettava.
Il Maestro veniva da lei tutte le sere, quando il silenzio era ancora più profondo, quando le ombre della sua vita si facevano più cupe, quando il suo corpo, sfibrato dal continuo errare per la casa, tutto il giorno senza scopo e senza attività, sentiva in maniera assillante il bisogno di quel nutrimento.
Non c’erano parole, fra loro. Non c’erano sguardi, non c’erano lievi contatti. Erano due ombre che si davano senza mai darsi, che si rincorrevano nell’incorporeità di un tempo senza confini, nell’assurdo di un’atmosfera che nessuno aveva creato, che era nata da una irrealtà senza orizzonti.
Fra quelle due entità, solo note. Erano loro a parlare: di sentimenti e di paure, di aspirazioni e delusioni, di vite vissute e non vissute. Erano le Polacche e i Notturni, i Preludi e le Sonate, che creavano quei valori e poi li accumulavano, li nascondevano, quasi a proteggerli dalla dispersione, nella totalità inconsistente di quella stanza, come dentro ad una torre d’avorio.
Ed era così tutte le sere.
Lei non seppe mai come tutto fosse cominciato e non si chiese mai quanto tempo durarono quegli incontri. Non aveva cognizione del tempo, né della realtà di altre esistenze, perché nessuno veniva a trovarla.
Solo il Maestro. Tutte le sere.
Fino a quella sera.
La sera di una giornata in cui si era sentita particolarmente lacerata dalla sua inettitudine, dalla sua incapacità di accettare ed accettarsi, dal suo essere un nulla senza futuro. La sera in cui aveva cercato la corporeità, tentando di afferrare, senza riuscirci, le mani del Maestro così vive e, contemporaneamente, così immateriali, quasi a volerle sostituire ai suoi inutili, disperati moncherini.
Quella sera, il Maestro smise di suonare e finalmente la guardò.
E le sorrise.
Poi prese fra le sue quelle mani ferite e inutili, gliele strinse e l’attirò verso il suo petto.
Lentamente, dolcemente, con amore, Chopin la condusse con sé.

[continua]


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