La pioggia sul Tronto

di

Lucio Postacchini


Lucio Postacchini - La pioggia sul Tronto
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 116 - Euro 11,00
ISBN 978-8831336789

eBook: pp. 102 - Euro 5,99 -  ISBN 979-1259511232

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In copertina: La foto ritrae una bianca capretta in apparente difficoltà sulla riva del fiume Tronto – fotografia dell’autore

All’interno: fotografie dell’autore


Premessa dell’autore

La pioggia sul Tronto è un libretto costituito essenzialmente da una piccola e variegata raccolta di mie lettere e poesie inviate a diversi quotidiani sia cartacei che online, e da questi nella maggior parte pubblicate. Ho dato questo titolo per delle ragioni profonde che legano i miei pensieri ispiratori alla lontana infanzia, quando il vicino fiume Tronto costituiva un’attrattiva, un desiderio di conoscenza e d’incanto. Il tutto, grazie a quelle volte in cui venivo accompagnato al fiume: da mio padre, per la pesca o la caccia; e da mia madre, che nelle belle stagioni approfittava di quelle acque limpidissime per lavare i panni. Lei stessa li trasportava, come tantissime donne di quel periodo, con una bagnarola (a quel tempo di zinco) posata sulla testa, oppure con un cesto fatto di vimini e canne.
La pioggia, invece, era argomento di cui i contadini di quel tempo erano soliti parlare: talvolta con preoccupazione quando le precipitazioni erano eccessive e potevano compromettere il raccolto; altre volte la pioggia veniva invece auspicata, quando il perdurare della siccità poteva parimenti far danni impedendo la germinazione dei semi e la crescita regolare delle piante.
Da anziano ripercorro le strade e i sentieri del Tronto; spesso con un taccuino in mano per annotare pensieri e ricordi. La pioggia, che talvolta mi sorprende durante le escursioni, mi aiuta ancor di più a rammentare quei tempi remoti, grazie all’ovattato isolamento pur temporaneo che essa produce dai rumori, dalle costruzioni e dai paesaggi fortemente mutati rispetto a quelli serbati nel cuore e nell’anima.
E la capretta della copertina? Per quanto sopra descritto, e visto anche il titolo di questo libretto, potrebbe sembrare una presenza estemporanea, addirittura surreale; ma si tratta semplicemente di un piacevole incontro che feci sulla riva del Tronto, uno dei tanti con gli animali. A lei, al mansueto e simpatico piccolo quadrupede, tra l’altro protagonista di fiabe, subito dedicai la poesia Una capretta sulla riva del Tronto, che scrissi di getto, e che qui riporto a conclusione di questa piccola raccolta di lettere, poesie e immagini.
Inoltre, in questo libretto apparirà verosimilmente eccessiva, financo invadente, la presenza delle mie due galline Titina e Trottolina, ispiratrici unitamente ad altro della mia piccola filosofia. E peraltro, è dall’osservazione degli animali e di altri fenomeni non mediati dall’intelletto, e forse di quelli più semplici, che possiamo intuire la forza generatrice che li sottende. Ossia, a mio parere, lo spirito del mondo. Non a caso, quindi, il filosofo Arthur Schopenhauer ebbe per inseparabile compagno delle sue passeggiate il barboncino Atma. Scelse appunto tal nome, che significa, in sanscrito, “anima del mondo”.
Le parole in dialetto si riferiscono alle varie zone della Valle del Tronto e prospicienti colline. Le “e” di tali parole dialettali se poste alla fine non vanno solitamente pronunciate, ma può succedere talvolta ugual cosa anche per quelle interne. Quindi nel dialetto ascolano e non solo, la “e” somiglia molto e in molti casi alla “e” muta (“e” muet ou caduc) francese. Ci possono essere però delle eccezioni, ma i lettori locali sapranno certamente discernere; agli altri, certamente ancor meno numerosi dei primi, chiedo venia.

Monsampolo del Tronto (Ascoli Piceno) – luglio 2020.


La pioggia sul Tronto


Passiflora

Oltre alla lingua italiana e non solo quella, dovremmo studiare il linguaggio delle piante e dei fiori, che giunsero al mondo per primi. I loro movimenti sono impercettibili; e coi loro silenzi, forme, colori e inclinazioni aulenti, forse vogliono dirci con l’esempio che noi parliamo troppo e pure strilliamo: spesso per dire niente, o, peggio, fesserie.
Quest’esemplare di passiflora, letteralmente “fiore della passione” (Passione di nostro Signore Gesù Cristo), lo fotografai in contrada Sant’Anna di Monteprandone (Ascoli Piceno), vicino alla chiesetta dell’omonima Santa protettrice delle donne incinte. La conformazione dello stupendo fiore richiama l’attenzione e incute rispetto: mi dà l’impressione che esso possa vedere e sentire; e/o lanciar messaggi, o riceverli dalle profondità dell’Universo. Altro che smartphone, giacché questo fiore ha luce intensa e arcana; e impronte sapienti. Comportiamoci bene: c’è chi ci osserva e ci ascolta da chissà qual sito.


Premessa alla poesia Rimpianti

È plausibile, e comunque logica vuole, che i giovani guardino al futuro con la speranza del verificarsi di eventi per loro favorevoli. È facile, invece, che i vecchi rimpiangano il passato, pur esso portatore di gioie effimere e di delusioni talvolta anche intense. Però, chi è nella tarda età, e non ha più tanto futuro davanti a sé, è portato a vedere con una luce diversa e pure a razionalizzare i periodi anche sfortunati e brutti della giovinezza. Perché fu proprio la giovinezza che produsse l’incanto di molti avvenimenti e che, nel contempo, essa giovinezza non volle far vedere la realtà; mentre tutto, in vecchiezza, è visto con disincanto. Inoltre, la maturità può portare alla rassegnazione non disgiunta peraltro dalla tranquillità dell’animo. E quando l’animo s’acqueta mai tradisce, come fecero invece le passioni della giovinezza, che pur benevolmente ora comprendiamo e perdoniamo. Anzi, forse vorremmo pure rivivere quei periodi con l’acquisita consapevolezza della fugacità di ogni cosa terrena.
Di seguito alla poesia e al breve commento della stessa, il ricordo della mia prima auto, una Simca 1000 LS nuova fiammante del 1972. La foto risale alla primavera dello stesso anno durante una sosta sulla strada da Milano per Appiano Gentile. Che nostalgia, che rimpianti della mia prima auto e della giovinezza perdute.

Rimpianti

Oh che rimpianto
Del tempo trascorso,
Delle cose finite,
Distrutte, smarrite.
Lo sguardo ricerca
Il vissuto, non vuole
Il futuro che avanza;
Nulla val più d’un ricordo,
D’un sogno d’infanzia.

Già, i sogni, oltre ai rimpianti, perché i nostri sogni non vagano invano. Infatti i sogni, pur facendo parte dei misteri del mondo, sono forti desideri, sono nostre volontà che emergono dal profondo dell’animo e non meritano di morire per sempre, perché da sempre, forse, sono nello spirito del mondo. O almeno questo è il nostro sogno.


La “fessora” al posto della “fessa”

Premetto che questa lettera è assolutamente scherzosa perché io sto decisamente per la parità dei diritti e opportunità per tutte le persone del mondo, indipendentemente, tra l’altro, dai sessi. E ciò anche al costo di martoriare il linguaggio come peraltro faccio da sempre, vuoi per ignoranza e ora anche per equità.
Dunque c’è chi, per eliminare ingiustizie sui generi delle parole, giudica inadeguati i suffissi “-essa” e “-ice”. E così ci viene proposto, in cambio della professoressa e dell’ambasciatrice, la “professora” e l’“ambasciatora”. È però ovvio che le cose non si possono lasciare a metà, e pertanto dovremo rinunciare, tra l’altro, alla nostra amata dottoressa per rivolgerci alla “dottora” quando stiamo male; anzi, ci vada subito di corsa (dalla dottora) chi già a sentir questa parola avverte il mal di pancia. Inoltre, per far pari col medico, ci avvarremo della “medica”.
Per fortuna, per far compagnia al fesso c’è già la fessa, anche se quest’ultima parola, a mio parere, andrebbe modificata immediatamente visto l’ulteriore significato mica tanto simpatico che essa ha. Ma solo in qualche parte e/o regione ove è spesso pure seguita da “’e soreta”. Propongo pertanto, assieme a professora, ambasciatora e dottora, la… “fessora”. Al posto della fessa.


Il mistero del tempo e il paradosso dei gemelli

Del tempo ci dicono, e ci mostrano con filmati, tante di quelle cose da rimanere stupefatti. E così, se uno di due giovani gemelli puntasse verso lo spazio siderale alla velocità prossima a quella della luce pari a circa 300.000 km al secondo, per lui il tempo rallenterebbe fin quasi a fermarsi. E se alfine invertisse rotta per tornare sulla Terra, giungendovi dopo sessant’anni (misurati sulla Terra) troverebbe il fratello gemello ovviamente vecchio, mente lui sarebbe ancor giovane quasi come quando partì.
Per convincerci, durante quel viaggio immaginario ci fanno vedere una miriade di orologi, anch’essi gemelli, e che però hanno lancette che girano a velocità diverse, ma non per impostazioni intrinseche, bensì per misteriosi effetti relativistici e ambientali. Ovvie ragioni permettono di fare qui solo (due) brevi osservazioni. La prima è che basta correre a velocità moderata, per mezz’ora al giorno però con le nostre gambe, anziché alla velocità della luce, per vedere invecchiare più velocemente e forse non ritrovare affatto a casa il nostro fratello gemello sedentario. La seconda è che gli orologi li abbiamo inventati noi per misurare quella sorta di aria fritta qual è il tempo, che esiste solo nella nostra immaginazione perché esso è fatto di niente; un po’ come lo spazio, peraltro. E infatti, noi possiamo mettere le cose dove c’è il nulla, che è lo spazio, appunto; e l’aria da lì, se c’è, tosto si scansa. Per esser fatta fritta dai fautori del nulla “in saecula saeculorum”.


La nonna che amava ascoltare A Silvia

La mia nonna Caterina era bassina; come appare anche qui nel giorno del matrimonio di mia sorella Serafina nel 1964.
Nonna Caterina partì per gli USA da giovinetta, perché ad attenderla a Carnegie in Pennsylvania c’era il promesso sposo Serafino, e nacquero quattro figli di cui un maschio, mio padre, che visse lì l’infanzia. Nonna Caterina fece la cuoca e la lavandaia per gli immigrati che lavoravano nelle miniere, ove purtroppo si respiravano polveri nocive che fecero ammalare gravemente mio nonno Serafino. Per tal motivo, tutta la famiglia fu costretta a rientrare in Italia ove mia nonna rimase prestissimo vedova quando il figlio più grande, mio padre, aveva appena undici anni. Nonna Caterina non visse tanto nemmeno lei, forse anche per le privazioni di quei tempi in campagna. Infatti, ricordo che nelle sere d’inverno, prima di andare a letto, nonna Caterina metteva in apposito contenitore la brace prelevata dal focolare per scaldare un po’ le fredde lenzuola. Però le finestre non chiudevano bene, si sentiva fischiare il vento, e i vetri erano così sottili che talvolta si rompevano e non potevano essere sostituiti subito.
Mia nonna Caterina amava le poesie belle e significative: tale nonna, tale nipote. Eppure lei era analfabeta, ma ecco quel che successe. Quando mio padre acquistò, nei primi anni ’60, il giradischi, io acquistai con i miei scarsi risparmi di adolescente qualche disco in vinile. Allora imperversavano i Beatles, ma diedi la precedenza a un 33 giri con poesie di Giacomo Leopardi recitate da Vittorio Gassman. Ebbene, mia nonna mi chiese chissà quante volte di farle riascoltare A Silvia, e l’accontentai sempre volentieri, pur voltando talvolta quel disco perché dall’altra parte c’era il Cantico del gallo silvestre. Anzi, c’è, perché conservo quegli affetti, oggetti e ricordi; e d’estate all’aperto in quei luoghi riascolto con gli strumenti di allora. E allora e sempre, dal mio cuore, dolci sentimenti per la nonna che amava ascoltare A Silvia.


Riflessioni con Leopardi e Einstein

Se volessimo confrontare il sapere sia di ieri sia di oggi con quello perenne di Giacomo Leopardi, ci accorgeremmo che la modestia va spesso di pari passo alla conoscenza. Infatti, quando il giovane poeta e filosofo recanatese capì che la nostra limitata mente non è assolutamente strutturata per comprendere l’infinito, si abbandonò a esso con infinita modestia lasciandosi trasportare da soavi sentimenti.
Altri (me compreso, ovviamente) tendono invece a superare le barriere invalicabili del sapere terreno, e lo fanno talvolta con parole ed esempi sfuggiti a Giovanni Boccaccio per quella che sarebbe stata la miglior novella da inserire nel suo Decamerone. E così, a titolo meramente esemplificativo, per comprendere il mondo e svelarne i misteri ci viene talvolta detto o pensiamo direttamente che, in realtà, l’universo potrebbe non essere infinito, ma finito, o meglio essere un “uovo cosmico”, o che addirittura da un uovo cosmico nacque la vita. Forse quell’uovo è sì grande e buono per dare abbondanza infinita al mondo così come nella contrada di Bengodi si “legano le vigne con le salsicce” e, lì, “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato” (dal Decamerone).
Però gli arguti pensatori non hanno detto, né, penso, diranno, cosa ci sta a fare l’infinito rimasto fuori dall’uovo, se non per essere riempito dall’infinita stupidità umana della quale si dichiarò certo nientemeno che Albert Einstein. Lui, in verità, aggiunse di non essere certo dell’infinità dell’universo. In entrambi i casi, tuttavia, non ci rivelò il perché, dimostrandosi oltre che insigne scienziato anche ottimo diplomatico. Chi, infatti, più di lui, poteva sapere, tra l’altro, il perché dell’infinita stupidità umana? Forse lasciò il compito di parlar di ciò agli stupidi come me. Ma fino a un certo punto però, perché io più di così non vado, se non per menzionare Titina, la mia gallina oserei dire cosmica, il cui primo uovo venne fuori dopo tribolazioni e con evidenti macchie di sangue. E in esse chi non vede i segni di dolore cosmico?


Anche noi siamo animali

Una premessa essenziale: il razzismo è sempre da condannare decisamente. Per il resto mi chiedo cosa emergerebbe se, dopo le tante opinioni a sostegno dell’unicità della razza umana, gli stessi studiosi e sostenitori provassero a verificare, ovviamente con gli stessi criteri e in maniera equanime, pure la ragion d’essere di quel che sappiamo per cavalli, cani, conigli, galline, topi, elefanti, mucche, pappagalli, zanzare, ecc. In merito, tutto fa pensare che la natura non ponga limiti alla molteplicità e variabilità di tutte le sue creature e cose. E ciò vale anche per le piante e i vegetali in genere. Anzi, poiché Giordano Bruno sostenne pure l’esistenza di “infiniti mondi”, forse tutti quei mondi dovrebbero essere necessariamente uguali al nostro? Chi può saperlo? Sappiamo invece la fine che fece il Filosofo nolano, a causa dei puri “infiniti” atteggiamenti delle umane menti.
Siccome qui, invece, lo spazio non è infinito, urge una conclusione semplificata. Delle due l’una: o tutti gli animali sopra elencati e anche gli altri restano come ora distinguibili, oppure no. La morale di tutto questo discorso, nel caso fosse esatta la prima ipotesi? Sta nella possibile apparizione di un colossale uovo di Colombo teso a dimostrare nientemeno che l’esistenza di Dio. Perché credo che, fra tutti i generi e/o specie possibili, le probabilità che solo l’umanità abbia caratteri straordinariamente omogenei tra tutti i suoi individui sarebbero scarsissime. Fatta salva ovviamente la volontà di Dio. Altro che uovo di Colombo, quindi, e l’uomo si collocherebbe idealmente per importanza al centro del mondo, ov’egli pure credette che stesse fisicamente la Terra. In quell’occasione sbagliò clamorosamente, con effetti tra l’altro nefasti per le migliori menti che vedevano il vero.

[continua]


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