Le mie tribolazioni

di

Luigi Boldrin


Luigi Boldrin  - Le mie tribolazioni
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 186 - Euro 12,50
ISBN 978-88-6587-6459

Libro esaurito

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In copertina: l’autore


…Allora partii angosciato con la Lambretta, dicendo tra me e me: “Cosa vado a fare a casa se poi non trovo niente? Sono rovinato, mi sento morire dentro, ho perso tutti i miei soldi, e in più quelli prestatimi da mia nipote, quelli di mia cognata, di mia madre!”
Percorrendo la strada con tutto questo rimuginare in testa arrivai in prossimità del ponte di Lugo che attraversa il Novissimo, cominciai a rallentare con l’intenzione di fermarmi e di buttarmici dentro, tanta era la disperazione…


Prefazione

La prima volta che incontrai Luigi Boldrin fu quando venne a casa mia a mostrarmi alcune sue poesie. Mi sentii a disagio: non era facile dare un giudizio spassionato, e poi temevo che quell’approccio fosse il primo di una lunga serie che avrebbe intaccato la mia libertà. Però lo vedevo entusiasta, fiero di ciò che aveva scritto, e dato il mio carattere pensai: perché non trascrivere le sue poesie al computer che così sarebbe stato ancor più soddisfatto? Glielo proposi, e lui non aspettava altro. Da lì è iniziato il nostro rapporto letterario. Trascrissi le poesie che aveva scritto; e lui me ne portò delle altre, poi delle altre ancora, poesie che mi dettava (ma che conosceva a memoria), sempre con l’entusiasmo di un bambino. Alcune mi colpirono in modo particolare, ed erano quelle in cui in pochi versi si calava nella profondità del concetto, e mi meravigliavo di come una persona di 78 anni, che aveva preso in mano la penna quando ne aveva 71, sapesse scrivere in quel modo. Pensai di farne un libretto, immaginandomi la sua soddisfazione, per questo mi dedicai con maggior passione a trascriverle, correggendole solamente nella punteggiatura.
Alla fine stampai il libriccino, e lui non seppe come ringraziarmi. Ma mi ringraziava continuamente sprigionando l’eccitazione per quel che aveva scritto e per quel che lo aiutavo io. Poi, spinto da questo fervore, mi chiese se poteva scrivere la sua biografia, che poi gli avrei trascritta al computer anche questa, quindi pubblicata. Pensai che sarebbe stato un progetto troppo arduo per lui; ma avevo già trascritto alcuni racconti che riguardavano la sua vita, perché non sistemarli in ordine cronologico per farne un opuscolo? Invece, una volta copiati, lui mi portò altri aneddoti, sempre scritti su un quaderno, sempre in stampatello. Erano fatti curiosi, tragici, talvolta sottilmente ironici, qualcuno addirittura incredibile, che mi appassionavano. Li trascrissi subito sotto sua dettatura, e più me ne portava più ero contento perché non sarebbe più stato un opuscolo quello che ne sarebbe sortito, ma un libro, anche se corto; ma con dentro tutte le sue stravaganze, tanto da rendere il testo qualcosa di particolarmente accattivante.
Luigi Boldrin ha vissuto e sta vivendo una vita sfortunata per i molti acciacchi che lo tormentano fin da giovane, si può dire che assomigli al Candido di Voltaire. Infatti le sue malattie e disavventure sono il tema principale della sua biografia, e anche per questo mi sono dedicato addirittura con frenesia a sistemare il testo, sia ordinando gli eventi in ordine cronologico, che revisionandolo. E mi ci impegnavo tutti i giorni e talvolta tutto il giorno, perché i fatti narrati mi stupivano, e correggerlo significava anche leggerlo e dilettarmi. Poi non vedevo l’ora di finirlo per pubblicarlo, per vedere la sua faccia quando gli sarebbero arrivati a casa pacchi di libri con il suo nome sulla copertina.
Luigi Boldrin ne ha passate tante, e quella della scrittura penso sia una delle poche soddisfazioni che lo rallegrino durante il giorno e la notte. È una persona che si merita il successo che avrà con questo libro, perché nonostante la sua età ha dimostrato una qualità inimmaginabile nello scrivere, e con il suo carattere focoso è pure una persona sincera, sostanzialmente buona, che si emoziona facilmente, ma soprattutto è uno scrittore.

Rino Gobbi


Premessa

Non avevo preso in mano la penna fin dal tempo della scuola. Ma il 7 dicembre 2008 andai da un fiorista e mi feci confezionare tre rose di rara bellezza, ognuna di colore diverso, di così belle non ne avevo mai viste. Erano per Maria, la mia adorata moglie, che il giorno dopo avrebbe compiuto 70 anni. La fiorista mi chiese se volevo allegare un bigliettino, e io mi scusai per la dimenticanza: certo che volevo metterci il bigliettino! Però le parole le avrei scritte io. Le buttai giù seduta stante, poi la signora le volle leggere, e quando le lesse le scesero delle lacrimucce e così a sua sorella che le era vicino.
Il giorno dopo eravamo alla festa dei “Reduci e combattenti” al Frassino, l’agriturismo di Campolongo Maggiore, e a metà del pranzo feci leggere il bigliettino da Mario Matterazzo, un amico della compagnia, di fronte a 110 persone. Fu un successo, per la ricorrenza particolare di mia moglie, ma soprattutto per le parole recitate.
Alcune mattine dopo, svegliandomi di buonora (giacché mi sveglio sempre presto) mi venne in mente una cosa strana: se per caso un giorno mia moglie fuggisse di casa senza un motivo, cosa penserei? Cosa farei? Cosa le potrei dire se lei non c’è più? Mi misi a scrivere su un pezzo di carta tutto quello che mi mulinava in testa e ne uscì una poesia in rima. La lessi e la giudicai splendida, perché le parole che avevo scritto venivano dal cuore, dalla passione dell’amore. Quando in seguito in qualche occasione particolare la leggevo, meglio dire la recitavo dato che la so tutta a memoria, la gente mi applaudiva e a me venivano le lacrime agli occhi. Ed è quello che mi succede tuttora.
Da quella volta ho sempre avuto voglia di scrivere, e ne ricavo delle soddisfazioni a dir poco lusinghiere. Scrissi alcuni racconti per lo più imperniati su fatti veri; ma sono le poesie il mio forte, perché sono scritte in modo semplice e sono perciò alla portata di tutti. Sono quasi tutte poesie d’amore, ma ce ne sono di divertenti, di introspettive o leggermente erotiche, talvolta sono preghiere alla Madonna o al Signore. Uso quasi sempre la rima (come del resto la usavano i grandi poeti) perché mi piace immensamente.
Da un po’ di tempo partecipo a dei concorsi con qualche poesia, e proprio in autunno una delle mie è stata giudicata tra le migliori: si pensi alla soddisfazione che ho avuto! Tutto questo lo devo a Rino, un mio carissimo amico scrittore, il quale si diletta a passare al computer tutto quello che scrivo sul quaderno. Lui dice che è bello ciò che scrivo. Mi vuole molto bene, e io gliene voglio altrettanto, perché se lo merita.
L’anno scorso mi sono messo in testa di scrivere la mia biografia, e in questo momento sto arrivando verso la fine del testo. L’amico Rino sta mettendo anche questo nel suo computer, poi correggerà il tutto e farà pubblicare il manoscritto. Non smetterò mai di ringraziarlo, perché tramite lui sto provando delle soddisfazioni incredibili: chi pensava che un giorno sarei arrivato a scrivere e a pubblicare? Sono stato intervistato durante una premiazione, mi hanno scattato delle foto, chiamato sul palco, tutto questo per merito suo, che mi porta a riunioni, concorsi, serate insieme alla gente, la quale apprezza i miei racconti e le mie poesie.

L’autore


Le mie tribolazioni

I

La casa di Campolongo Maggiore in cui nacqui il 30 luglio 1937 era piccolissima, c’erano solo la cucina di tre metri e mezzo per due e la camera di tre metri e mezzo per tre. E noi eravamo in tanti: i miei genitori, mia sorella Margherita, i miei fratelli Emidio, Sergio, Ferruccio, e io. In più c’era Marisa, una bambina presa agli esposti.
Io dormivo nel letto matrimoniale, in mezzo ai genitori; ai piedi di questo letto ce n’era un altro da una piazza e mezza, dove dormivano Emidio e Sergio; mentre la piccola Marisa dormiva assieme a Ferruccio, visto che avevano la stessa età, in una culla posta a fianco del letto matrimoniale. E Margherita, la sorella più grande, dormiva dalla zia Amelia, sorella di mia madre, che abitava poco lontano, dove adesso abito io. C’era tanta confusione di notte, e per andare a dormire si doveva passare sopra i letti dell’uno o dell’altro. Quando Margherita si sposò, andò Emidio a dormire dalla zia, anche perché lei era nubile, e suo padre, mio nonno, era vedovo e ormai vecchio.
Marisa, la trovatella di un anno, era stata presa dalla mamma agli esposti di Chioggia ancora prima che io nascessi, per accudirla e guadagnare qualche soldo per il sostentamento della famiglia. Questa bambina era figlia nientemeno che dell’ostetrica di Chioggia, che non voleva far sapere al compagno di avere avuto una figlia. Crescendo, Marisa era diventata come una sorella per noi. Un giorno che nostra madre si trovava ancor più in ristrettezze economiche chiese all’ostetrica di aumentarle un poco il contributo. Ma questa non volle sentir ragioni; allora nostra madre andò a Chioggia con me, e là fece una bella lite con la madre di Marisa per avere qualche soldo in più, o se non soldi, almeno dei vestitini per la bambina. Non so se mia madre riuscì a ottenere qualcosa. Dopo 13 anni l’ostetrica si portò via Marisa, e noi provammo un gran dolore perché era una di noi che se ne andava. Per due o tre anni Marisa visse a Chioggia, e poi non ne sapemmo più nulla.
Solo nel 1975, tramite un nostro compaesano carabiniere, venimmo a conoscenza del fatto che Marisa si era sposata a Verona con un fabbricante di lampadari; con l’aiuto dello stesso carabiniere ci mettemmo in contatto, e nel 1980 venne a trovarci. Quando s’incontrò con nostra madre l’abbracciò esclamando: «Mamma, mamma!» Fu una scena stupenda.
Da allora non ci vedemmo più: perché non poté venire nell’85 quando morì mia madre, neanche nel 2006 quando morì Ferruccio, e neppure nell’ottobre 2014 quando morì sua moglie. Diceva che era lontana e che aveva il marito da accudire.

Avevo circa sei anni quando andai da mia zia con mio fratello Ferruccio, che aveva cinque anni più di me, a prendere un pezzo di formaggio che lei ogni tanto ci regalava. Attraversando il cortile per tornare a casa vedemmo che il nonno aveva appena tagliato della legna con un maglio e un cuneo di ferro; allora mio fratello disse: «Luigi, vuoi che proviamo anche noi a spaccare la legna come il nonno finché lui non c’è?»
Io gli risposi: «Sì, però io tengo il cuneo e tu, che sei più grande, gli batti sopra.» Allora presi il cuneo, pesante per le mie manine, e a fatica lo posizionai sul ceppo da rompere; così facendo ci misi sopra l’indice sinistro, al che Ferruccio mi disse: «Tira via il dito altrimenti te lo schiaccio.»
Io gli risposi: «Il cuneo è pesante e faccio fatica a tenerlo senza dito; dai, batti dove non c’è il dito.»
Allora lui alzò il maglio e batté. Il dito fu schiacciato alla prima falange; urlai dal dolore, e quasi svenni vedendo il sangue che perdevo. Uscì la zia Amelia, che corse verso di me gridando con le mani sulla testa. Mi portò in casa e mi fasciò alla meno peggio con uno straccio bianco, e intanto sgridava mio fratello, inebetito e angosciato, che avrebbe dovuto avere più buon senso di me. Io piangevo, ero disperato. La zia chiamò poi a gran voce mia madre; lei venne e mi portò a casa gridando anche lei.
La fasciatura si era tutta intrisa di sangue, per cui si dovette cambiarla più volte. Però non mi portarono dal dottore, mi curarono con medicazioni e fasciature rigide in modo che il dito rimanesse composto.
Con il passare dei giorni il dolore a poco a poco scomparve; ma il dito rimase più corto e più grosso in punta. Dopo un po’ di tempo spuntò un’unghia con la punta rivolta all’ingiù, che se urtavo qualcosa mi faceva un male tremendo e mi usciva subito sangue. Però poi la ferita si rimarginò del tutto.
In seguito resi pan per focaccia a Ferruccio: successe quando intentammo una lotta tra noi due: io con una corta ascia e lui a mani nude. Andò a finire che gli mollai un fendente sulla fronte ferendolo. Il fatto fu che poi se ne risentì: ma era stato lui a volere sfidarmi… e a ricevere i rimproveri di nostra madre.

Nella primavera del 1943 mio padre tornò a casa dalla Germania fuggendo dalla fabbrica di armi in cui lavorava, vicino ad Auschwitz, il famoso campo di concentramento. Erano in tre che avevano progettato la fuga, ma all’ultimo momento uno non se la sentì di fuggire, e poco dopo che mio padre era tornato venne a sapere che quello era stato ammazzato. Papà e l’altro camerata erano riusciti a fuggire compiendo delle peripezie pazzesche, come mi raccontava lui. Una di queste era che al confine con l’Italia avevano una gran paura di essere scorti mentre cambiavano di treno, e furono aiutati da una famiglia che intrattenne le guardie mentre loro salivano sul convoglio che li avrebbe portati a casa. Come ricordo della sua prigionia si era portato a casa un cucchiaio e una forchetta di acciaio; la forchetta ce l’ho io, ancora in ottimo stato data l’alta qualità dell’acciaio, mentre il cucchiaio è andato perso.

Un anno dopo, una sera prima del calar del sole, io e Ferruccio andammo incontro a nostro padre che con Luigi Coccato aveva appena arato un campo di Pasquale Balasso, detto Nino, fattore dei Serravalle, proprietari di campagne e della fattoria dove ora sono i Marchiori. Stavano tornando con un biroccio trainato da due mucche, dove sopra stava un aratro dal vomere luccicante. L’incontrammo dove ora ci sono le scuole medie di Campolongo. All’improvviso due aerei da caccia, vedendo il luccichio del vomere si gettarono in picchiata e mitragliarono il carro. Ci gettammo immediatamente dentro il fosso e non fummo colpiti per puro caso, perché i proiettili sfiorarono la testa di mio padre e passarono rasenti le nostre spalle e in mezzo alle gambe. Le due mucche, sentendosi libere fuggirono con il carro in un cortile lì vicino e si nascosero sotto un mucchio di fascine. Poi io e Ferruccio, spaventati per ciò che sarebbe potuto accaderci, tornammo a casa tremanti per conto nostro.

In quel periodo papà uccideva di nascosto delle bestie per ricavare la carne, che poi la mamma con uno di noi figli andava a vendere di contrabbando a Venezia. Però una mattina in cui andai con lei successe un bel contrattempo. Arrivammo a Marghera, alla fermata del bar “Della Rana”, e fummo fermati da due guardie che c’imposero di seguirle in caserma. Come entrammo fecero spogliare mia madre per vedere cosa portava sotto i vestiti (infatti era troppo grossa per non destare il sospetto che sotto ci fosse nascosto qualcosa), e poi controllarono le due borse.
Scoprirono così la carne e le dissero: «Signora, così non va, non si fanno queste cose; adesso le portiamo via tutto e la mettiamo in prigione… Ci dica, dove stava andando con questa roba?»
Lei rispose: «A Venezia, dove ho dei clienti, e lo faccio per sfamare i miei figli, e questo è il più piccolo» rispose additando me. «A casa ne ho altri quattro; e mio marito lavora saltuariamente come bracciante. Se voi mi portate dentro cosa succede a questo piccolo che ha 7 anni? Fate voi, secondo coscienza.»
Loro risposero: «Signora, noi la comprendiamo, ma dobbiamo prendere provvedimenti perché è da un po’ di tempo che la teniamo d’occhio.»
Rispose ancora la mamma: «Ma se io resto qua, il bambino dove lo mettete? Cosa mandate a dire a quelli che ci aspettano a casa?»
Allora i due finanzieri si guardarono e dopo un po’ uno disse: «Guardi signora, abbiamo capito e la comprendiamo, si prenda tutto e vada via, e noi facciamo finta di non averla mai vista. Ma le consigliamo di prendere un’altra strada se deve venire ancora a Venezia. E adesso su, andate!»

Sempre nel 1944, quando calava la sera non si dovevano tenere le luci accese, altrimenti Pippo, l’aereo di ronda, sarebbe sceso in picchiata e avrebbe mitragliato là dove c’era anche un solo lumicino, per cui il grido ricorrente era: «Spegnete le luci!» Mi ricordo che in questi casi correvamo a nasconderci dentro un fosso o sotto una quercia, a una cinquantina di metri da casa, presso la fattoria dei Serravalle. Emidio, assieme ad altre persone aveva scavato dei nascondigli sotterranei, e ci nascondevamo anche là, come gli adulti del resto, che durante le retate si nascondevano per non essere portati via dai tedeschi.

Però nel periodo della guerra non tutto fu tragico. Era il 1945 e per la prima volta sentii un rumore assordante provenire dalla strada. Uscii di casa e vidi mio padre che con altri uomini stava passando con una delle prime trebbie in circolazione. Era trainata da due buoi e c’era pure una macchina a vapore a cingoli che sembrava una delle vecchie motrici dei treni, che serviva a mettere in moto la trebbia tramite una lunga cinghia.
In strada c’era diversa gente ad osservarla, perché era una novità, e per me un orgoglio vedere papà che era il responsabile del funzionamento della macchina e di tutto il lavoro. Tanta di questa gente si era messa a seguire la trebbia lungo la strada per vedere in quale casa fosse diretta per osservarla poi in funzione. Questa trebbia veniva da Sant’Angelo di Piove di Sacco ed era del signor Tonello, che andò a postarsi sull’aia dei gemelli Primo e Secondo Milani, poco lontano da casa mia.

Per via della guerra cominciai la scuola elementare con due anni di ritardo. Il primo anno, 1945, lo frequentai con la maestra Melato, così come il secondo e il terzo. Quel che ricordo del terzo anno fu che in classe ci passavamo sottobanco dei bigliettini per dichiarare l’amore a una compagna di scuola. Una volta ne diedi uno a Esterina Bucchia perché glielo desse a Silvana Biolo, sorella di Mario, l’impresario edile. Ricordo inoltre che durante le vacanze, con papà e Sergio andammo a far legna per la maestra, e lei mi diede la mancia da quanto bene l’avevo accatastata dentro al suo magazzino.
Le scuole elementari erano di fronte al municipio, al di là della strada, all’angolo di queste scuole una volta c’era un pozzo artesiano, che poi è stato sostituito da una pompa. Ma quel che più mi è rimasto impresso era il forno di Zatti accanto al municipio (che poi è stato rilevato per un certo tempo dai fratelli Livieri), e al mattino, quando la maestra poco prima della ricreazione faceva aprire le finestre, si sentiva la fragranza del pane che ci faceva annebbiare le idee. Quando poi uscivamo per la ricreazione sentivamo come un buco allo stomaco. C’era chi poteva permettersi di comprare un pezzo di pane nero o con i fichi, e poi si correva sotto la fontana per bere.
La quarta elementare invece la frequentai con un maestro che era un mostro, una bestia, una carogna. Per come si comportò con noi se succedesse ora verrebbe subito licenziato. Ogni scusa era buona per picchiarti o metterti in castigo, o chiuderti dentro al cesso, o metterti in ginocchio dietro alla lavagna fino alla fine della lezione, magari con dei sassolini appuntiti sotto le ginocchia, o di chiamarti alla cattedra e percuoterti sulle mani con un bastone, o a prenderti a calci nel sedere. Una bambina, a cui lui non credeva che occorresse andare in bagno, dovette rimanere al banco e con la sua pipì bagnò anche la compagna. Se poi per caso un alunno fosse arrivato un paio di minuti in ritardo, il maestro cattivo lo spediva a casa.
Un giorno, quando un alunno s’interruppe per un attimo mentre leggeva, questo signor maestro, che si chiamava Fassina e veniva da Venezia, gli diede una manata da dietro facendogli sbattere la faccia sul banco, rompendogli il setto nasale. I genitori di questo alunno, e gli altri, anche per le continue lamentele dei figli decisero di andare in classe per rendere conto al maestro del suo comportamento verso i loro figli. Ma lui con la sua dialettica se la cavò, adducendo varie giustificazioni al suo modo di agire. Co­munque i genitori decisero lo stesso di rivolgersi al preside. Il preside, che era di Campagna Lupia, capì le loro rimostranze e mandò via quel maestro. Lo sostituì con Narciso Trolese, un vero maestro, e ben più comprensivo.
La quinta elementare la frequentai con il maestro Ordan Redentore. Quell’anno è stato caratterizzato da un bellissimo ricordo. Proprio quando stavamo per prepararci agli esami il maestro ci disse: «Oggi faremo un tema parlando della campagna in primavera, poi i migliori li spedirò a un concorso nazionale.»
Dopo un certo tempo che avevamo iniziato a scrivere, il maestro Ordan passò per i banchi per sbirciare i compiti, e tornato alla cattedra disse: «Finora ne sto vedendo due di buoni.» E dopo aver fatto un altro giro, soffermandosi da me soggiunse: «Luigi, controlla l’ultima parte che stai andando fuori tema.»
Allora aggiustai il tema e lo portai a termine.
Consegnammo i compiti, e il maestro ci comunicò: «Adesso li correggo e poi i migliori li mando via, come promesso.»
Dopo qualche tempo, forse erano già terminate le scuole, una sera per caso stavo ascoltando alla radio una trasmissione per ragazzi, quando la conduttrice s’interruppe per fare un importante annuncio, e disse: «Mi viene dato mandato in questa trasmissione di riferire i risultati dei migliori temi delle scuole elementari riconosciuti in campo nazionale.»
Incuriosito mi fermai ad ascoltare. La presentatrice cominciò enunciando i vincitori della prima elementare, poi della seconda, poi della terza, poi della quarta e arrivò alla quinta, enunciando il nome del primo classificato (uno studente di Perugia, di cui non ricordo il nome), che vinse una vacanza premio di una settimana in Francia, in una località di suo piacimento. Poi passò al secondo, che era uno studente di Ravenna, premiato con una grossa enciclopedia. Poi soggiunse: «Voglio ricordare anche un terzo studente classificato, senza premio, però degno di nota, questo ragazzo si chiama Boldrin Luigi, della quinta elementare di Campolongo Maggiore, provincia di Venezia, il cui insegnante è il sig. Ordan Redentore.»
Si pensi alla gioia che provai! Non mi sembrava vero! E, mi si creda, ne sono emozionato anche adesso, dopo sessantacinque anni.
La signora che conduceva la trasmissione si chiamava Bordon, l’ho rivista il primo gennaio del 2012 alle 3,30 di notte, al “Costanzo show”.

Ricordo che un giorno stavamo a casa del maestro Ordan per prepararci agli esami di ammissione per le scuole medie, e in un momento di relax, mentre si discuteva del più o del meno, successe che il maestro ci chiese chi sarebbe riu­scito a far stare in piedi un uovo crudo. Tutti provarono, ma nessuno ci riuscì. Invece io ci riuscii, e non con uno, ma con ben cinque uova, di fronte al maestro e ai miei compagni increduli, che erano: Franco Fontana, Ruggero Canova e Florio Meneghetti.

Dopo l’ora di Dottrina Cristiana di solito andavamo da Antonio Pengo, marito della levatrice del paese (dove ora c’è l’officina di Giannello Livieri). La sua era una casa privata dove però c’era la televisione e un bigliardino. Là, specialmente di sera, si giocava a calcio balilla e si guardava alla televisione i primi telefilm che davano, come Rin Tin Tin e Penna di falco. Quando uscivamo ne combinavamo di tutti i colori, andavamo a rubare i finocchi e le carote nell’orto dei Mozzato, e poi scappavamo via sghignazzando. Oppure tagliavamo dei pezzi di legno dalla siepe spinosa di Fasolato (situata lungo la strada dove ora si trova il panificio Livieri) e con questi andavamo a battere sulle imposte chiuse partendo dai Mozzato, e poi sempre più avanti fino ad arrivare al municipio. Battevamo e scappavamo come lepri per non essere presi. Una sera andammo a picchiare sugli scuri della casa di Mario Lorato, che abitava all’inizio dell’attuale via Veneto; la sera dopo rifacemmo la bravata. La terza volta lui ci aspettava nascosto, ci prese e ci fece una bella ramanzina. Da quel momento ci calmammo. Ma non per molto, perché poi riprendemmo la stessa storia e ritornammo ancora da lui. E la seconda sera lui era là che ci attendeva ancora dietro l’angolo della casa, e ci sparò una schioppettata; noi fuggimmo tra gli alberi lungo il fosso. Da quella volta non siamo più andati a battere sulle imposte di nessuna casa.

Un giorno sistemai in mezzo alla strada un vecchio portafoglio legato a uno spago, che potevo ritirare di colpo quando una persona si fosse fermata per raccoglierlo, e mi nascosi al di là del fosso, dietro a una siepe (era il classico trucco del portafoglio). Passò di lì un pezzo d’uomo, che si fermò e quando vide il portafoglio scivolare via intuì subito il perché. Lasciò cadere a terra la bicicletta e fece due salti per attraversare la siepe e venirmi ad acchiappare. Ma giacché lo avevo previsto, ed ero come un gatto, mollai tutto e corsi a nascondermi nel campo di grano vicino. Lui, arrabbiato, tornò indietro brontolando, prese la bici e se ne andò.

Una domenica, dopo la lezione di Dottrina Cristiana, andammo a prendere in giro delle inferme di mente che erano state prelevate da una casa di cura di Padova (visto che là infuriavano ancora i bombardamenti) e ospitate presso il nostro asilo parrocchiale. Affacciandoci alla rete metallica, posta sopra la mura di recinzione, facevamo a queste donne le linguacce, e loro ci guardavano stupite. Poi una corse ad avvisare la suora e quando questa uscì noi ci nascondemmo al riparo della mura. Senonché il cappellano, che stava proprio venendo verso l’asilo, se ne accorse; scappammo a gambe levate, e lui si mise a inseguirci. Io attraversai la strada, saltai il fosso e mi buttai sull’erba del campo di Trincanato, non accorgendomi di un fondo di bottiglia, che mi tagliò il polpaccio fin quasi all’osso. Stranamente non sentii dolore, anche se una volta in piedi mi accorsi che perdevo sangue da far paura. Facendomi forza mi trascinai fino a casa, dove mi presi una bella sgridata dalla mamma, che poi mi curò e fasciò per bene.
Il lunedì mattina, mentre stavo seduto su una sedia con la gamba infortunata poggiata su un’altra, mi venne a trovare il cappellano (forse non mi aveva riconosciuto, ma sicuramente aveva dei sospetti su di me) e quando mi vide in quelle condizioni capì. Dovetti ammettere la mia colpa e mi presi una sgridata anche da lui, mi disse che non era giusto prendere in giro delle donne malate, che in fin dei conti erano delle persone anche loro, seppur indifese.
Mi vergognai, gli chiesi scusa e dissi di avere compreso, e lui andandosene mi fece gli auguri di pronta guarigione.

Una volta andai a trovare mio nonno materno Pasquale, stavo seduto vicino al focolare quando lui mi disse: «Gigetto, fammi un favore, accendimi la pipa, ma non metterti in testa di fumarla!»
Gli risposi di sì, ma essendo lui seduto su una grande sedia che mi girava le spalle, prima di dargli la pipa feci in tempo a tirare tre boccate. Non lo avessi mai fatto! Cominciò a girarmi la testa e la stanza mi ruotava tutto intorno. Feci appena in tempo a consegnare la pipa al nonno e sedermi su una sedia per non cadere, poi cercai di stare calmo perché mi passasse lo stordimento. Dopo una decina di minuti salutai il nonno e tornai a casa. Ma mi sembrò che lui avesse intuito che ero un po’ strano.

Intanto mio fratello Emidio nel 1945 era andato a imparare a fare il falegname a Piove di Sacco, dal nonno di Marisa Sacchetto, la cantante della città. Però dopo un po’ fece domanda per entrare nel corpo della Polizia, che venne accolta. Per tre anni fece il poliziotto, quindi divenne carabiniere. Ma dopo un poco di tempo, aiutato dall’amico maresciallo Forchito, andò a lavorare come guardiano e portinaio nello stabilimento elettrochimico Caffaro a Marghera.

Eravamo molto poveri, avevamo qualche gallina e si mangiava qualche uovo. Un giorno mia madre mi raccontò un fatto per il quale non saprei se sorridere o irritarmi. “A quei tempi i preti andavano per la questua presso le famiglie” diceva mia madre, “a Pasqua per le uova, in estate per il frumento e a settembre per l’uva. Una mattina mi vidi entrare in casa il parroco don Giovanni Rinaldo, che mi salutò e mi chiese se avessi qualcosa da dargli. Data la nostra povertà avrebbe dovuto essere stato lui a darci qualcosa. Io, poverina, gli risposi: «Cosa posso darle signor parroco, non abbiamo niente neanche per noi, pensi che ho un solo uovo, che sono appena andata a prendere». Lo avevo messo sopra la credenza, lui se lo prese e se lo mise in tasca dicendo: «Buono anche questo, Gioconda, ciao!» E se ne andò. Rimasi di stucco, perché stentavo a credere a una cosa del genere.”
D’estate, quando il parroco andava per la questua del frumento, lo riceveva in “spigoloni” (piccoli mazzi di spighe). Ma in base al numero dei campi il prete pretendeva anche delle “faie” (grandi mazzi di “spigoloni”). Alla fine della questua, tutto il grano raccolto veniva accatastato presso l’Asilo vecchio, così tanto da formare il “cavaiòn” (un mucchio enorme di grano) grande come quello delle famiglie dei contadini più abbienti. Un giorno che mi trovavo lì per caso mentre stavano trebbiando il grano, con mio padre che dirigeva i lavori, vidi il parroco portare una caraffa di vino ai lavoranti. Ma lo faceva in modo così veloce che, vuoi per la celerità che per il timore che si aveva del prete, pochi riuscivano a rispondere sì alla sua richiesta di bere, richiesta che lui proferiva con: «Ne vuoi tu, no vero?» E si precipitava da un altro operaio, tutto questo per risparmiare il vino. Sicché con un litro di vino dava da bere a tutta la moltitudine di collaboratori, e ne avanzava.
Per quanto riguardava la questua dell’uva, il prete passava con due aiutanti, un carretto con sopra il mesòto (un grande tino rettangolare), con una cavalla che lo trainava. Un giorno lo vidi venire dalla zia e prendersi l’uva più bella, anche se lei possedeva solo due corte file di viti. A sera non rientrava se il “mesòto” non era pieno, e a fine stagione si può dire che produceva più vino lui che la cantina.
A proposito di offerte, Celeste Grinzato, che aveva istituito l’associazione paesana San Vincenzo di Paoli, mi regalò una volta un paio di scarpe, ma erano di numero 45; le calzai ugualmente e dopo poco tempo, per il camminare irregolare rimasi senza suola, camminavo così con le dita dei piedi fuori.

[continua]


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