Hybris - parte finale

di

Luigi Cancemi


Luigi Cancemi - Hybris - parte finale
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 138 - Euro 12,50
ISBN 978-88-6587-9009

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In copertina: «Seeking rescue» © Anton Sokolov – Fotolia.com


Hybris è una parola dell’antico greco che indica arroganza, eccesso, delirio di onnipotenza. Secondo gli antichi greci il peccato di hybris era uno di quelli più pericolosi, perché attirava l’invidia, l’ira e la punizione degli Dei: gli uomini che dimenticavano i loro limiti, tracimavano nella tracotanza e nella superbia, e cercavano di ribellarsi all’ordine naturale delle cose, sarebbero stati immancabilmente puniti e avrebbero patito grosse sofferenze. Questa concezione era alla base, per esempio, delle tragedie greche.
Al giorno d’oggi si tratta di un concetto ormai sorpassato, materia per storici ed archeologi della cultura, o è invece una legge imperitura, che gli uomini farebbero bene a ricordare?
Tanti sono stati nel corso della storia i casi di uomini che hanno pensato di essere invincibili, superiori, infallibili, e di non avere nessuna entità o legge superiore da rispettare; quando però hanno superato il limite e nell’ubriacatura del successo e del potere non hanno saputo frenare gli eccessi, l’ambizione e la vanagloria, sono sistematicamente finiti nella polvere.
La stessa specie umana ha saputo fare grandi cose, è riuscita ad evolversi come nessun altro essere vivente a noi conosciuto, e grazie alla scienza ed alla tecnologia l’uomo è diventato un creatore, un piccolo demiurgo, apparentemente capace perfino di controllare, alterare e manipolare a suo piacimento la natura e le sue leggi.
D’altra parte l’uomo continua a soffrire, ad ammalarsi, ad invecchiare, a morire; per non parlare dell’aspetto etico, dove non sono stati compiuti significativi progressi e l’uomo seguita ad essere corrotto, malvagio e cinico né più né meno come duemila, cinquemila o diecimila anni fa.
Dobbiamo pensare che è in corso un processo teso a fare dell’uomo il signore dell’Universo, in barba ai limiti ed agli scrupoli imposti dalle varie religioni, dalla filosofia, dall’etica? Dobbiamo pensare che Prometeo prenderà il posto di Dio, e che non c’è niente al di sopra di lui?
O dobbiamo credere che al contrario l’uomo è un essere limitato e molto imperfetto, soggetto a leggi e volontà molto più grandi di lui e contro cui nulla può?

L’autore


Hybris - parte finale


CAPITOLO I

Dir è disteso sulla nave, e sta dormendo. Non è facile dormire in quelle condizioni, senza letto né materasso, con i continui ondeggiamenti del barcone ed i costanti rumori inevitabilmente causati dalle migliaia di persone stipate come e peggio delle bestie; però più o meno tutti, vinti dalla stanchezza, alla fine si addormentano, anche se in genere non si tratta di un sonno lungo e profondo.
All’alba, quando l’oscurità della notte si ritira lasciando spazio alla luce del giorno, uno dei passeggeri, che dorme pochissimo e non fa che guardare attraverso il cannocchiale, si stropiccia gli occhi ed emette dei mormorii incomprensibili. Poi, convintosi che non ha preso un abbaglio, prende ad urlare:
“Terra! Terra!”.
Dir si sveglia di soprassalto, e senza indugiare si alza e strappa dalle mani del timoniere l’altro cannocchiale. Fra le grida eccitate e piene di speranza delle migliaia di persone, prende ad osservare davanti a sé nella stessa direzione dell’uomo che ha urlato l’avvistamento. Effettivamente all’orizzonte si intravede una catena montuosa, ed essendo il cielo sereno e limpido non dovrebbe trattarsi di un abbaglio come due giorni prima, quando delle nuvole viste in lontananza erano apparse promontori, facendo esultare tutti quanti senza fondamento.
La tempistica quadrerebbe: dopo quasi un mese di navigazione, come previsto e sperato approderebbero nella piana delle Cormuse, l’estremità orientale del Regno dell’Ovest, distante circa duemila chilometri da Amor e delimitata da montagne che potrebbero essere quelle che si profilano in lontananza.
“Dovrebbero essere i Monti Algidi, giusto?”, chiede il timoniere.
“Così sembra…”, risponde Dir scuotendo il capo e senza smettere di guardare. “Ci sono stato solo una volta in tutta la mia vita, ma dovrebbero proprio essere loro… Cosa potrebbero essere, altrimenti?”.
Frattanto sopraggiungono Adrea ed Artimede, che sono faticosamente riusciti a farsi largo in mezzo alla moltitudine.
“È un altro miraggio?”, domanda Artimede.
“Dimmi che è vero…”, implora invece Adrea.
Dir rimane in silenzio ed aspetta a rispondere. Lascia passare alcuni minuti in cui non fa che osservare in tutte le direzioni con il cannocchiale, per trovare conferma alle speranze ed evitare che qualche nuvola si faccia nuovamente beffa di loro. Poi consegna il cannocchiale al timoniere ed urla di gioia anche lui:
“Terra! Terra!”.
Incontenibili grida di gioia si levano allora da tutti i passeggeri, accompagnate da simile esultanza nelle altre due navi, che solcano il mare molto vicino a loro.
“Cosa facciamo?”, chiede il timoniere a Dir. “Viriamo ad Ovest ed andiamo ad Amor, o tiriamo dritto e sbarchiamo? Se l’obiettivo finale è Amor, virando arriviamo prima…”.
“Le scorte stanno per finire, ed abbiamo già avuto due morti: dobbiamo sbarcare!”, suggerisce Adrea.
“Tiriamo dritto e sbarchiamo!”, approva Dir senza esitazioni, anche se muore dalla voglia di arrivare ad Amor e ritrovare la sua famiglia. Comprende che l’amica ha ragione, perché scegliendo l’altra alternativa comunque non riuscirebbero a proseguire fino alla fine data la scarsità di acqua e cibo, e conseguirebbero solamente un maggior numero di morti e di ammalati.
“Come vedi, le navi hanno retto…”, commenta soddisfatto Artimede.
“Grazie, amico!”, lo abbraccia Dir. “Senza il tuo ingegno, non avremmo mai potuto farcela!”.
Quando, dopo quasi quattro ore, le tre navi sono sul punto di approdare, trovano ad attenderle alcune centinaia di soldati schierati sulla spiaggia in assetto da guerra.
Dir, che si affanna da almeno un’ora a sventolare una bandiera bianca di fortuna, è il primo a sbarcare anche se la sua nave è la seconda ad approdare a riva:
“Siamo amici! Siamo amici!”, urla più volte a squarciagola. “Siamo scappati dal missionario!”.
L’ufficiale al comando delle truppe reali schierate sulla spiaggia, che da tempo li osserva attentamente con il suo cannocchiale e teme possano essere nemici, udite quelle parole ordina agli arcieri di riporre le frecce e si assume il rischio di controllare in prima persona: gli si avvicina in sella al suo cavallo, e dopo avere scrutato con curiosità lui e gli altri gli chiede:
“Da dove venite?”.
“Da Aloa, dal Regno dell’Est!”, risponde Dir.
“Vuole dire che avete attraversato il mare con quelle barchette?”, domanda incredulo l’ufficiale.
“Sì”, conferma lui. “Era l’unica cosa che potevamo fare, l’unica via di salvezza che ci era rimasta. È stata dura, ma per fortuna ce l’abbiamo fatta…”.
“La cosa ha del miracoloso…”, si sorprende l’ufficiale. “Si mormora qui che tutto il Regno dell’Est è nelle mani del missionario, a parte Miracusa. Lo conferma?”.
“Sì”, risponde Dir. “Purtroppo però anche Miracusa quasi certamente ormai è caduta. Noi siamo scappati proprio da là…”.
“Lei chi è?”, chiede ancora l’ufficiale.
“È una storia lunga…”, prova lui a spiegare. “Mi chiamo Dir Wode ed insegnavo Librologia all’Università di Amor. Sono stato rapito e portato nel Regno dell’Est… Sono riuscito a fuggire e mi sono unito alle forze reali a Miracusa, re Morf mi aveva anche nominato vicario…”.
“Accidenti che storia!”, lo interrompe l’ufficiale che si fida della sincerità che traspare dai suoi occhi. “Senta, adesso vi portiamo tutti in caserma e proviamo a trovarvi una sistemazione. Mi piacerebbe sentire la sua storia stasera a cena, se non è troppo stanco…”.
“Non lo sono. Grazie per l’invito”, risponde Dir. “Mi permetto di approfittarne per chiedere il suo aiuto: devo arrivare ad Amor quanto prima…”.
Così quella sera Dir e l’ufficiale cenano insieme. Per più di due ore lui racconta le sue incredibili vicissitudini, ed il suo interlocutore non fa che stupirsi strabuzzando gli occhi e commentando:
“Non ci posso credere… Bisogna informare subito il principe Luvi…”.
Poi decidono il da farsi, e convengono che i compagni di viaggio di Dir restino accampati in villaggi nei pressi della piana delle Cormuse in attesa di una sistemazione definitiva, mentre lui proseguirà da solo verso Amor accompagnato da due soldati. L’ufficiale, vedendolo provato e debilitato, prova a convincerlo a restare un po’ prima di ripartire, giusto per riprendere forze, ma Dir è risoluto ed irremovibile: partirà l’indomani mattina all’alba. È troppo importante per lui ritrovare la sua famiglia dopo un anno di assenza, è troppo preoccupato ed al tempo stesso impaziente, e dopo quello che ha passato non crede che un viaggio a cavallo, sia pure lungo, possa essere un problema.
Così, la mattina seguente alle sei Dir comincia la grande cavalcata, e non pronuncia una sola parola con la sua scorta. È completamente assorto nei suoi pensieri, ed il suo stato d’animo ondeggia fra una profonda inquietudine ed una controllata euforia: quello che sembrava impossibile, ossia riabbracciare i suoi figlioletti e sua moglie, tra non molto potrebbe avverarsi; d’altra parte teme che possano esserci complicazioni, e non si sente sicuro che la sua famiglia stia ad Amor ad aspettarlo sana e salva.
Proprio il fatto di essere vicino all’obiettivo tanto sognato, paradossalmente, adesso lo rende nervoso ed agitato: qualcosa potrebbe essere andato storto, magari proprio in quel momento i suoi cari potrebbero avere bisogno di lui, e sarebbe una beffa arrivare appena troppo tardi…
Mosso da un’incontenibile impazienza, quando dopo quattro ore i soldati si fermano per una pausa lui protesta:
“Per favore, proseguiamo. Il cammino è ancora lungo…”.
“Si rilassi e si riposi”, risponde un po’ bruscamente uno dei soldati. “Proprio perché il cammino è ancora molto lungo dobbiamo conservare le nostre forze. Ed i cavalli stramazzerebbero al suolo se non si riposano”.
“E va bene…”, sbuffa lui rassegnato smontando da cavallo. Quindi, dopo avere bevuto un po’ d’acqua dalla sua borraccia, chiede: “in dieci giorni non ce la facciamo ad arrivare ad Amor?”.
“Non è opportuno nemmeno provarci”, risponde il secondo soldato. “Ammesso che noi possiamo farcela, ed ho molti dubbi al riguardo, i cavalli morirebbero”.
“Duecento chilometri al giorno è un’autentica follia. Possiamo farne al massimo cento, come era stato deciso”, spiega il primo soldato. Poi, vedendo il volto di Dir incupirsi e rattristarsi, aggiunge: “abbia pazienza, venti giorni e rivedrà i suoi cari e la sua città…”.
“Forse era meglio andare per mare…”, borbotta lui cui venti giorni sembrano un’eternità.
“Dipende dai venti…”, obietta uno dei soldati.
“Esatto”, concorda l’altro. “Con il vento a favore impiegherebbe forse meno, ma con vento contrario molto di più…”.
Ascoltando l’opinione dei soldati Dir si convince che ha preso la decisione giusta, e questo lo solleva. Poi, ripresa la marcia e tornato a torturarsi circa la situazione della sua famiglia, giunge alla conclusione che il fatto di arrivare qualche giorno prima difficilmente cambierebbe le cose: se i suoi cari stanno bene continueranno a starlo; se invece malauguratamente hanno avuto qualche problema, può solo sperare che lo abbiano superato nel migliore dei modi. Anche perché sia su di lui che sulla sua famiglia incombe la volontà di Victor, su cui lui non ha alcun potere.
Queste considerazioni non eliminano le sue preoccupazioni e la sua agitazione, ma lo aiutano a sopportare il tempo che ancora manca per arrivare ad Amor.
L’ufficiale che lo aveva accolto alla piana delle Cormuse però aveva ragione: sarebbe dovuto rimanere là qualche giorno, perché un lungo e difficile mese di navigazione, unito alle tante fatiche ed ai continui travagli anteriori, lo avevano seriamente debilitato fisicamente.
Così, dopo quattro giorni di viaggio e quattrocento chilometri percorsi, complici anche le forti piogge che si riversano su di loro, Dir si ammala. Trovano ricovero presso una caserma lungo il cammino, dove lui giace sdraiato sul letto delirando e con la febbre altissima, oltre i quarantuno gradi.
Passati sei giorni in quello stato senza che il suo corpo sembri reagire, il dottore che lo sta curando perde le speranze e con rassegnazione avverte i soldati che lo accompagnano:
“Con le medicine che gli ho dato, stanotte sarà determinante. Se neanche in questo modo si riprende, temo non ci sia nulla da fare. Potrebbe morire subito, domani stesso…”.
Quella notte Dir, mentre il suo corpo è impegnato in uno scontro decisivo contro i batteri che cercano di togliergli la vita, fa uno strano sogno. Vede come un tunnel, alla cui entrata gli sembra di riconoscere suo padre, nell’aspetto che aveva quando lui era piccolo, poco prima di morire. Vi si dirige volando, ed avverte una sensazione di calore, di libertà e di sollievo, che aumentano quando seguendo suo padre entra nel tunnel: a quel punto gli sembra di raggiungere una pace assoluta, prova un sentimento ineffabile che non aveva mai sperimentato prima, come se si stesse liberando del suo io e fosse sul punto di diventare qualcos’altro.
Non fa però in tempo a completare quel processo e a diventare pienamente consapevole e cosciente di quel nuovo sentimento, perché una volta dentro il tunnel si sente chiamare da dietro, e riconosce la voce di Gongo:
“Papà! Papà!”.
A quel punto si ferma, incerto ed esitante. Nell’oscurità di quel luogo senza spazio e senza tempo, Dir da un lato vorrebbe proseguire e bearsi delle sensazioni liete e pacificatrici che sta provando; dall’altro si sente obbligato a ritornare indietro, per non lasciare sola ed indifesa quella piccola voce che lo invoca. Alla fine decide di invertire la rotta, e non appena comincia a percorrere il tunnel in direzione opposta, come per magia si ritrova nella sua casa di Amor, sdraiato sul letto con Seila ed i due figlioletti.
È allora che Dir apre gli occhi e si risveglia, cosciente anche se debole e confuso. È in un bagno di sudore e tossisce aspramente, senza riconoscere il letto e la stanza in cui si trova.
Quando dopo più di un’ora vede entrare il dottore, si fa serio in volto e gli chiede:
“Chi è lei? Dove mi trovo?”.
“Che sorpresa… Questo è un miracolo!”, esclama il dottore rallegrato nel vederlo in sé. “Io sono il dottor Feng, e lei è qui da una settimana. Ha avuto una polmonite con febbre altissima, ha perso conoscenza ed è stato in serio pericolo di vita…”.
“Una settimana…”, ripete lui contrariato. “Accidenti: devo andare ad Amor!”, dice poi alzandosi sul letto. Fa per scendere e mettersi in piedi, ma comincia a girargli tremendamente la testa, tanto che è sul punto di perdere nuovamente i sensi; così, si vede costretto a sdraiarsi di nuovo.
“È ancora molto debole. Non si affatichi: ha bisogno di molto riposo e di rientrare in forze!”, lo ammonisce il dottore.
Passano tre giorni prima che Dir migliori, e torni in grado di muoversi e camminare senza problemi. A quel punto esulta di gioia, e con frenesia si affretta a prepararsi per riprendere il cammino.
“Buongiorno… Ma cosa fa?”, si stupisce il dottore quando entra nella sua stanza e lo vede seduto sulla sedia, vestito e con la piccola borsa da viaggio accanto.
“Dottore, la prego di chiamare i soldati che mi hanno portato qui: devo ripartire immediatamente”, risponde lui.
“Ma non può partire adesso, in questo stato…”, protesta quello. “Ha dimenticato che solo tre giorni fa era più di là che di qua? Deve riprendersi, e rimanere a riposo almeno per altri quattro giorni!”.
“Dottore, io purtroppo non ho tutto questo tempo”, spiega Dir convinto. “Ho dei motivi personali importanti, molto importanti, che mi obbligano a mettermi subito in viaggio”.
“È una follia! Lei non è in grado di raggiungere la capitale in queste condizioni…”, insiste il dottore. “Il viaggio è lungo e faticoso, non può farcela!”.
“Dottore, glielo ripeto: io devo partire subito e così farò”, ripete lui irremovibile. “Mi fa la gentilezza di avvisare i soldati che erano con me?”.
Quello lo guarda con disapprovazione per alcuni secondi, e poi gli risponde contrariato:
“E va bene. Ma io l’ho avvisata e lo spiegherò anche ai soldati: lei va via per sua decisione, in contrasto con la prognosi medica”.
Anche i soldati provano a dissuaderlo dai suoi propositi, ma invano. Quando, dopo una lunga discussione, vedono Dir uscire dalla stanza con la sua borsa da viaggio, comprendono che è inutile insistere: lui andrà via anche senza di loro, per cui è meglio accompagnarlo come da ordini ricevuti.
Ripreso il cammino, i soldati provano molta curiosità per le sue vicissitudini e si fanno raccontare la sua storia. Lui ne farebbe volentieri a meno, perché ricordare i suoi travagli lo fa soffrire e perché lo ha già dovuto fare altre volte; però gli sembra scortese ed ingrato rifiutarsi, e così li accontenta.
Varie volte gli chiedono di esprimere un giudizio sul missionario e su Victor, ma lui è sempre molto evasivo. La cosa li stupisce e li porta ad insistere sull’argomento, ma Dir non si sbilancia mai.
“C’è una cosa in tutta questa incredibile storia che proprio non riesco a capire”, gli dice ad un certo punto Nib, giovane, alto, magro e biondo. “Sembra che non provi odio nei confronti del missionario e di Victor, ma rispetto… Come è possibile, dopo tutto quello che ti hanno fatto?”.
“Paura. Ha paura di essere controllato dall’alto e di esporsi a vendette per quello che dice…”, intuisce Ford, l’altro soldato, con i capelli canuti e la saggezza derivante dagli anni e dall’esperienza.
“Non so chi abbia davvero ragione in tutto questo dramma…”, commenta Dir enigmatico. “Io però ho ben chiara una cosa: ho una famiglia cui tengo molto, voglio ritrovarla e provare a trascorrere in pace il resto dei miei giorni”.
“È come ti dicevo…”, strizza allora l’occhio Ford a Nib.
Il giorno successivo a quello in cui hanno ripreso la marcia attraversano un altopiano a più di mille metri sul livello del mare, dove fa molto freddo e tira vento. Sull’imbrunire Dir ha un malore, e per sua fortuna fa in tempo a fermarsi e sdraiarsi per terra, evitando di svenire e cadere da cavallo.
“Ha la febbre. E pure alta”, osserva Nib poggiandogli la mano sulla fronte.
“Accidenti, il dottore aveva ragione…”, si preoccupa Ford.
“Non preoccupatevi, non è grave come l’altra volta!”, dice però lui con ottimismo, rialzandosi e salendo in groppa al cavallo grazie alla sua grande forza di volontà.
“Ma… Sei sicuro che puoi continuare?”, gli chiede perplesso Ford.
“Sì. Se no ve lo dico”, annuisce Dir col capo.
I tre riprendono così il cammino, e fortunatamente manca poco più di mezzora per arrivare alla caserma di Luzny, dove avevano programmato di passare la notte: in questo modo, Dir riesce a giungere al suo letto in piedi. Durante la notte, però, gli sale la febbre; non perde conoscenza come l’altra volta, ma si sente scoppiare la testa ed il petto, ed avverte dolori dappertutto, finanche nei piedi. Riuscitosi ad addormentare grazie a due tisane, la mattina seguente si sveglia nuovamente in un bagno di sudore. Prova ad alzarsi dal letto, ma si sente svenire e deve precipitosamente tornare a sdraiarsi, cominciando a tossire fortemente e ripetutamente.
Poco dopo entra nella sua stanza un uomo, che lo guarda severamente e si presenta:
“Buongiorno, il mio nome è Sulf. Sulf Batista, per la precisione, e sono il dottore di questa caserma. Sono stato informato della sua storia e dei suoi recenti problemi di salute, e devo darle una brutta notizia”.
“Sarebbe?”, domanda Dir preoccupato.
“Lei ha una ricaduta, cosa molto pericolosa e di difficile guarigione. È ridotto ad una larva umana, il suo corpo è debole e fa fatica a sconfiggere i batteri: ammesso che riesca a riprendersi, un’altra ricaduta le sarebbe certamente fatale”.
Dir ha un forte attacco di tosse. Poi, senza scomporsi, chiede:
“Cosa posso fare?”.
“Ha bisogno di un lungo riposo, di mangiare bene e di tranquillità assoluta. Per almeno un mese”, spiega il dottore. “Solo così può sperare di riprendersi e sconfiggere la malattia”.
“Un mese… Accidenti…”, si lamenta lui.
Quello, che conosce i motivi per cui il paziente non crede di avere tutto questo tempo, lo guarda con comprensione e cerca di consolarlo:
“Professore, la capisco e probabilmente anche io al posto suo avrei cercato di fare la stessa cosa. Però adesso è davvero messo male: se non si cura seriamente e non si rimette in sesto, non potrà affrontare un lungo viaggio. Al massimo due o tre giorni di cammino ed avrà una nuova ricaduta, che stavolta quasi sicuramente sarebbe mortale. Tante volte ha avuto fortuna, pur nelle sue travagliate vicende, ma la fortuna non è infinita…”.
“Ma io devo ritrovare la mia famiglia!”, protesta Dir. “Non so come stanno, forse hanno urgente bisogno di aiuto, e loro per me sono tutto…”.
“Ci Pensi bene, professore. Lei è una persona intelligente, valuti razionalmente quello che le succederà se non si cura…”, ammonisce il dottore. “Se lei muore, crede che potrà essere di aiuto alla sua famiglia? Immaginiamo pure che per qualche imprevisto e benedetto miracolo lei riesce a non morire, le garantisco che avrà una ricaduta e dovrà fermarsi di nuovo; il processo di guarigione sarà ancora più lungo e complicato, e il risultato sarà che arriverà più tardi a destinazione. Ha senso?”.
Quelle parole lo convincono, e così Dir si rassegna ad aspettare che il suo corpo guarisca e si riprenda, prima di ricominciare il viaggio. Si propone però di non aspettare un mese, sibbene una sola settimana, al massimo quindici giorni: in questo periodo di tempo seguirà alla lettera le prescrizioni mediche, restando a letto e procurando di riposare e non fare sforzi, e così facendo confida di ridurre la convalescenza, anche perché crede che i dottori esagerino sempre i rischi e le cautele da adottare.
In quei giorni che non passano mai, a parte qualche parola scambiata con il dottore ed i suoi compagni di viaggio, resta solo con i suoi pensieri. Che non vanno solo alla sua famiglia, ma anche a Victor: nella sua mente prendono spesso vita, contro la sua volontà, i ricordi delle sue apparizioni. Di quando ad Aloa era sceso giù dal cielo devastando l’esercito reale, di quando a Miracusa aveva sorprendentemente sospeso tutti nel vuoto scendendo poi a salvare Artimede, e soprattutto di quando gli era apparso di notte, terribile, nella sua stanza. Ma chi è Victor? È mai possibile che quell’essere dall’apparenza mostruosa possa davvero essere Dio?
Se così fosse sarebbe terribile, perché niente avrebbe senso: il mondo, l’universo sarebbero dominati da un demone malvagio, intento ad imporre con violenza, crudeltà e sadismo la sua volontà.
Questa ipotesi però non lo convince: le sue solide basi teoretiche e la sua capacità di pensiero lo portano ad essere sicuro del fatto che Victor sia un essere imperfetto, per quanto dotato di poteri superiori agli esseri umani. Deve piuttosto trattarsi di una creatura extra-ecilefiana che sta cercando di prendere il controllo del pianeta, e contro cui, purtroppo, ben poco lui e gli altri uomini possono fare.
Ma se Victor non è Dio, che fine ha fatto il Dio vero? Esiste da qualche parte? Se esiste, come può consentire che qualcuno gli usurpi attributi e funzioni, devastando in suo nome tutto il pianeta e uccidendo, tormentando ed opprimendo milioni di innocenti?
Collegando queste domande a riflessioni più ampie sul senso della vita e dell’universo, arriva a concepire una teoria metafisica e filosofica che non lo rallegra: evidentemente l’energia spirituale originaria e divina, al cui rallentamento e solidificazione per Dir si deve la materia, deve essere un’entità imperfetta ed in divenire, che cerca di migliorarsi e dare un senso a se stessa. In altre parole, un Dio vero e proprio come siamo abituati a concepirlo, ossia come realtà assoluta, perfetta, onnipotente, consapevolmente creatrice di un mondo dove alla fine il Bene e la Giustizia trionfano, in realtà non esiste.
Ecco perché il mondo è imperfetto, ecco perché accanto ad evidenti tracce di spiritualità e ad un ordine naturale e cosmico, ci sono ingiustizie, dolori, sofferenze, atrocità. Si comprenderebbe anche il senso di due fenomeni tanto odiosi quanto inevitabili come l’invecchiamento e la morte: essi sono necessari all’evoluzione cosmica, tesa a migliorare sempre di più l’energia divina creatrice con nuovi esseri superiori ai precedenti.
In un siffatto contesto può benissimo capitare che un mostro malevolo come Victor possa spadroneggiare: si tratta appunto di un mondo imperfetto.
Nella seconda settimana di convalescenza, Dir si sforza di cercare prove oggettive ed incontrovertibili di questa teoria, ma non ne trova: è possibile che sia così, ma non si può scientificamente e logicamente escludere che la verità sia un’altra. A ben guardare il problema risiede tutto nelle limitate facoltà cognitive umane, che per quanto si sforzino non riescono a penetrare l’essenza più autentica e profonda della realtà.
Così, dopo due settimane di riposo e di astratte speculazioni nel silenzio e nella solitudine della sua stanza, Dir deve rassegnarsi ad accettare che una risposta certa, dimostrabile ed inequivocabile a tutte quelle domande non ce l’ha, e forse mai nessuno l’avrà.
I suoi antenati terrestri, che avevano portato gli esseri umani su Ecilef e avevano lasciato loro un’antologia di precetti frutto di migliaia di anni di esperienze e riflessioni, il Libro, probabilmente avevano ragione: per gli esseri umani la più profonda ed autentica caratteristica della vita e dell’universo è il Mistero, così come Misterioso è l’unico attributo con cui si può correttamente chiamare od invocare Dio.

[continua]


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