Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla XVII edizione Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2009
Attraverso il quadro
Il cielo rosso di luce di tramonto fuori
dalla finestra dello studio di Thomas
annunciava la fine di un altro giorno di quel Marzo viennese del 1922.
Il giorno finiva e Thomas iniziava, come ogni sera, il suo lavoro. La notte era un momento mistico e magico. L’aria era satura di quell’energia cosmica che guidava la mano di Thomas quando doveva immortalare la dolce Lucienne. Era scappata da Parigi, la bella Parigi, la Parigi degli artisti, dei pittori, dell’eterna Senna, per andare a perdersi in quello squallido e piccolo studio di Vienna. Lui sognava Parigi, avrebbe dato tutto per poter andare nella città del Louvre ed invece lei ne era scappata. L’aveva rinnegata. Tradita.
Ormai il quadro era quasi finito.
Aveva lavorato su quella tela per una settimana, tutte le notti. Stanco, ma con costanza, esausto fino alle tenui luci dell’alba, era rimasto fermo lì davanti vedendola crescere pennellata dopo pennellata, colore su colore. Infine, era lei, sulla tela: la sua bella. Nei capelli biondi come raggi di sole, nella pelle rosa e candida, nei seni delicati e puri, negli occhi azzurri quasi trasparenti.
La notte calò lenta su Vienna avvolta nel cupo nero, sembrava acquistare colori sono nello studio di Thomas, per mano del suo pennello sicuro e veloce. Il sole filtrava già i raggi dell’alba quando il pittore lasciò cadere, sfinito, il pennello a terra. Fece pochi passi indietro per poter vedere, ancora una volta, l’ultima, il quadro nella sua interezza. Il cuore gli esplose di gioia nel petto.
Sapeva che aveva poco tempo, non poteva indugiare. Non voleva assistere a quello che accadeva durante il giorno, una cosa così grande ed impossibile che non poteva spiegarsi. Nella sua testa si era instaurata l’assurda convinzione che fossero i raggi del sole a trasformare i quadri, che qualche strano fenomeno si celasse in quelle microscopiche e sconosciute particelle di luce.
Coprì il quadro con un telo bianco, come quelli che secoli prima avvolgevano i malati di peste, lo tolse dal treppiedi e lo portò delicatamente in un angolo dello studio, ponendolo accanto ad altri, figli di notti di lavoro come quella.
Uscì dallo studio e chiuse la porta a chiave.
Lucienne sentì Thomas rientrare nel letto. Apri, assonnata, un occhio giusto per vedere le luci dell’alba filtrare e farsi largo nella stanza. L’uomo si muoveva rapidamente, cercando di fare meno rumore possibile. Lucienne rimase immobile, fingendo di dormire. La loro sembrava una partita di scacchi.
Thomas allungò una gamba per cercarla, lei non si mosse.
«Stai dormendo?» le chiese.
«Mi sono svegliata».
Ci fu un lungo istante di silenzio tra i due.
«Hai finito?» chiese, infine, Lucienne.
«Sì».
Thomas chiuse gli occhi, i colori del quadro sembravano avere la magia di apparirgli ancora davanti. Nonostante fosse al sicuro sotto un telo bianco dentro lo studio chiuso a chiave, nonostante i suoi occhi fossero chiusi, nonostante il pennello giacesse abbandonato in terra sul pavimento di legno dello studio.
Anche quelli di Lucienne erano chiusi, ma le immagini che vi passavano davanti erano molto diverse. Erano le stesse che aveva ogni sera poco prima di addormentarsi, erano quelle che ogni mattina svegliandosi aveva ancora davanti a sé. Erano una lettera gialla scritta con inchiostro nero, l’acqua scura di un fiume ed un rumore infernale. Un rumore così violento che riusciva addirittura a vederlo. Un rumore che accecava. Tutto sepolto nei ricordi di Parigi, di quei giorni terribili che non potevano cancellarsi più dalla sua mente. Di quei giorni che…
Quante notti, nella lontana e sorniona Vienna, si era svegliata di soprassalto nel letto, spesso lanciando un grido, scossa dal terrore di vivere ancora quegli istanti. Ma Thomas era lontano, chiuso nello studio con i suoi quadri ed il segreto che essi custodivano. Un segreto fatto di luce e mistero che Lucienne non doveva assolutamente scoprire.
Il sonno arrivò lieve e dirompente al tempo stesso e sorprese Thomas assorto nei pensieri sui quadri e sulle mirabolanti forme di luci e colori che su di essi si compivano. Lucienne rimase sveglia a fissare il soffitto, sentendo il respiro dell’uomo farsi sempre più regolare accanto a lei e ricordò. Un altro uomo, un altro letto, un altro soffitto da fissare. Un’altra vita.
«Lucienne mi hanno chiamato, devo andare».
«No JeanPaul, non partire. Resta con me. E poi…».
«Dobbiamo andare sulla Marna. I tedeschi vogliono conquistare Parigi, è nostro dovere aiutare i britannici. Insieme possiamo fermarli».
Lucienne sapeva che non poteva dire altro, rimase immobile a fissare il soffitto, mentre le sue mani lentamente andavano a carezzare il ventre gonfio. Un leggero colpo di vita da dentro di lei la fece sobbalzare, sorrise rincuorata dalla dolce presenza che già era calore e si addormentò.
La luce della candela illuminava la lettera appena arrivata. Lucienne piangeva fin dal momento in cui l’aveva vista. Non ne aveva mai vista una, ma ne aveva sentito così tanto parlare. Era l’ultima lettera quella che ogni militare portava sempre con sé e non spediva mai. Se succedeva qualcosa, e quando succedeva qualcosa in guerra era sempre qualcosa di brutto, molto brutto, il compagno, ogni soldato aveva un proprio compagno, si incaricava di spedirla alla famiglia. L’ultima lettera, grinzosa ed ingiallita, tremava ora tra le mani di Lucienne. Le sembrava impossibile che stesse accadendo proprio a lei.
«Mia cara, quando queste poche righe giungeranno a te, il peggio sarà accaduto…». Il pianto spezzò l’incantesimo: il pianto di Lucienne si confuse con quello del piccolo JeanPaul che si era svegliato nella piccola culla di pizzo e merletti.
In preda al panico la donna iniziò a correre ed urlare lungo la stanza. Fuori il vento dell’inverno parigino sibilava sulle strade sterrate e polverose. Lei prese il figlio in braccio, lo sollevò dalla culla. Fissò quei piccoli, grandi, occhi chiari. Erano uguali a quelli del padre, quel padre che non avrebbe mai conosciuto, morto tra le fosse delle trincee, affogato nella neve fatta rossa di sangue. Uscì in strada, con il figlio in braccio: carrozze trainate da cavalli si alternavano ai primi modelli di automobili. Il freddo era pungente.
Attraversò la strada, la Senna mugugnava acqua nera pochi metri sotto il basso parapetto. Fu un attimo: sporgere il piccolo fagotto bianco fatto di vita e lasciarlo cadere nell’acqua fredda e nera. Quasi non fece rumore confondendosi nei mille gorgoglii del fiume. Vide la lana bianca scomparire portata via dalla corrente. Salì anche lei sul parapetto, la vestaglia svolazzava attraversata dal vento gelido, i piedi scalzi si ritrassero al contatto con i freddi mattoni.
Chiuse gli occhi.
Una mano le afferrò la vita, trascinandola via. Aprì gli occhi.
Era lontana dal parapetto, era lontana dal fiume, dal suo JeanPaul.
In quell’istante finì tutto per lei. Fino alla decisione di andare a Vienna, consigliata dai dottori. «Quell’aria sana non potrà che farle bene, Madame», si affrettarono a dirle, forse per mettere in pace le loro coscienze, di fronte a così tanto dolore; forse per lasciare all’anziana zia austriaca la bega di quella donna così difficile.
Thomas entrò nello studio, la luna rischiarava la notte, sbucando, piena, da dietro gli alti palazzi di Vienna. Sembrava un grande occhio aperto nel cielo. La tela bianca, immobile sul treppiedi, lo aspettava. Era emozionato. Quale mirabile miracolo si sarebbe compiuto di lì a poco, quando i colori sarebbero comparsi come dal nulla ed avrebbero preso vita su quel mondo ancora vergine che era la tela bianca. Quanto si sentiva vicino a Dio in quel momento, come uno scrittore che ha il potere di vita e di morte sui personaggi, come un musicista che ha davanti a sé tutte le note dell’universo. Lui si sentiva al centro di un uragano di colori e forme, doveva solo aspettare che fossero loro ad andargli incontro.
In un angolo, la pila dei quadri completati, coperti dal lenzuolo bianco. Thomas si avvicinò: una strana forza magnetica sembrava aver il potere di attrarlo in quella direzione. C’era qualcosa di magico, di mistico che si celava in quelle tele e lui doveva capire, doveva scoprirlo. L’angoscia era troppo forte. Il bisogno di capire, anche.
Thomas prese un quadro, ancora coperto lo portò al centro della stanza. Proprio lì dove la luce poteva illuminarlo meglio e riusciva ad osservarlo con maggiore attenzione.
Lucienne si era affacciata alla porta socchiusa dello studio: quella notte i continui incubi che le oscuravano la mente l’avevano tenuta sveglia ed il letto era diventata una prigione da cui era voluta scappare.
Thomas sollevò il telo.
Lucienne trattenne a fatica un grido di stupore e terrore. Improvvisamente vide materializzati su quella tela tutti gli incubi vissuti segretamente fino ad allora. L’uomo fissò di nuovo, con attenzione e meraviglia quel quadro. La bella figura femminile che lui aveva ritratto, il dolce volto di Lucienne,
si era trasformato in una figura angosciosa e disperata. E poi, come in ogni quadro una volta concluso, senza che il pennello del pittore facesse nulla, appariva, accanto alla donna, la figura di un bambino. Un bambino di pochi mesi. I capelli gialli come le spighe del grano di Van Gogh, gli occhi chiari come i mari azzurri di Monet, la pelle candida e rosa come i nudi di Manet.
Lucienne terrorizzata scappò di corsa, con ancora la vestaglia da notte bianca addosso, lontana da quello studio e da quel quadro maledetto.
L’uomo rimase perplesso a fissare ancora un po’ gli occhi del bambino, sembravano guardare lontano, molto lontano e dentro vi era… Dentro sembrava quasi di vedervi infinite distese coperte di neve. Thomas, come in preda ad una trance mistica, sentì i colori piovergli addosso, irruenti, prima uno dopo l’altro, poi tutti insieme, il giallo che si mischia al blu, il rosso confuso col verde e poi l’indaco, il magenta. Senza riflettere, incapace di comandarsi, si trovò di fronte alla tela bianca, il pennello nella mano destra che sembrava quasi andare da sola, guidata da chissà quale forza.
Lucienne in piedi sul parapetto del fiume Danubio, sentiva il vento attraversarle, come un soffio, la vestaglia bianca. Era così simile ad un altro vento, era lo stesso cielo di allora quello che l’aveva generato. Il cielo che ora custodiva JeanPaul e che la stava aspettando.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare.