Io e Marcellino

di

Marco Bottoni


Marco Bottoni - Io e Marcellino
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 324 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6587-3823

Libro esaurito

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In copertina: “L’Ingeniere” fotografia di Daria Bottoni.


Opera finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2012


Chi è Marcellino?

Marcellino è un amico.
È un “Ingeniere” analfabeta, imprenditore edile, nonché armatore navale, direttore di scavi e manager di qualsiasi attività preveda l’apertura di un cantiere.
Il primo Novembre del 2009 è stato chiamato a dirigere i lavori in “alto luogo” in un posto molto lontano, e ne avrà per tutta l’Eternità.
Marcellino è qui con noi, perché lui è il nostro Amico.

Chi siamo noi?

Noi siamo “Noi”, amici che vogliono mantenere vivo, nel tempo, il ricordo di Marcellino, della sua figura irripetibile e insostituibile, rievocandola a chi lo conosce, raccontandola a chi non lo conosce.
Ci proponiamo progetti di solidarietà e finanziamo una borsa di studio a favore di un giovane concittadino di Marcellino, così che, in virtù del nostro operare, il testimone del Sapere passi da un “Ingeniere” analfabeta a uno che sapendo fare a leggere e scrivere, diventi un laureato vero.
Poiché i proventi della vendita di questo libro andranno interamente a finanziare la borsa di studio, ogni lettore, acquistandone una copia, diventerà e rimarrà per sempre un “Amico di Marcellino”.

Noi e Marcellino
Insieme dal 2012 per l’amicizia e la solidarietà

Email


Luciano Veneziani
Per tutti “Marcellino”, è nato il 6 Maggio 1938.
Affetto da ritardo mentale, rigorosamente analfabeta, generoso fino alla prodigalità, si è cucito addosso il personaggio fantastico di “Ingeniere” diventando il cittadino più popolare di Castelmassa, una vera e propria icona la cui fama sopravvive alla sua improvvisa dipartita, verificatasi il 1 Novembre 2009.


Io e Marcellino


“…e ricordati che parli con un Ingeniere!”

È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro.
Lewis Carrol

E il Re risponderà loro: “In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”.
Mt. 25,40

Il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite. Di rado gli appartenenti ad una famiglia crescono sotto lo stesso tetto.
Richard Bach

(Illusioni)

L’Appartenenza è avere gli altri dentro di sé
Giorgio Gaber



A Luciano Veneziani “Marcellino”
Maestro di Vita, di Affetti e di Allegria
Mirko Bottoni – Dedica della Tesi di Laurea


Capitolo I

Assenti e Presenti

Lo speaker della manifestazione chiama il mio nome.
Mi avvio verso la linea di centrocampo, tenendo in mano il pallone della gara.
Indosso una divisa vistosa ma a suo modo elegante, maglia calzoncini e calzettoni di colore giallo, e cammino con passo sicuro, cercando di darmi un portamento dignitoso.
Lancio sguardi alla tribuna che ospita uno sparuto pubblico: saranno sì e no settanta persone.
È il primo “Memorial Marcellino” una partita di calcio che vede opporsi una squadra di “nati negli anni Settanta” a una di “nati negli anni Ottanta”, gente ormai un po’ avanti nell’età, accomunata dal fatto di aver condiviso una grande passione, quella per il gioco del calcio e dalla voglia di ritrovarsi tutti insieme in una sera d’estate, prima sul campo e poi, terminata la partita, attorno a un tavolo, per una cena celebrativa.
Hanno chiesto a me di fare da direttore di gara perché, da giovane, sono stato arbitro di calcio e anche perché di Marcellino sono stato il primo Amico.
Lo speaker chiama uno ad uno i giocatori che arrivano, a passo di corsa, ad allungare la fila alla mia destra e alla mia sinistra.
Li guardo mentre salutano il pubblico: hanno tutti tra i trenta e i quaranta anni, alcuni hanno mantenuto una discreta forma fisica, altri hanno evidenti problemi di linea; tre o quattro si presentano con un girovita decisamente imbarazzante: da giovani atleti che erano si sono trasformati rapidamente in maturi signori obesi, sedentari, fumatori e molto probabilmente anche ipertesi, chissà come sono messi a coronarie.
Speriamo non succeda niente.
Quando l’appello dello speaker finisce, il pubblico in tribuna è aumentato di qualche unità: credevo venisse più gente.
Christian, che indossa la maglia bianca e la fascia da capitano della squadra dei quarantenni, dice due parole di saluto e di ringraziamento, poi mi cede il microfono, annunciando al pubblico che farò un breve discorso.
Lo sapevo che avrei dovuto parlare, mi aveva telefonato lui stesso qualche giorno prima pregandomi di preparare qualcosa di scritto, poche righe per sottolineare il significato della serata; “tu che sei uno scrittore” mi ha detto prima di riattaccare.
Non mi sono scritto niente, non ho preparato niente.
Non ne ho sentito il bisogno.
Io, Marcellino, ce l’ho qui con me tutti i giorni, praticamente ogni momento della mia giornata. Spunta all’improvviso da un incrocio a cavallo della sua bici arrugginita oppure me lo trovo attorno mentre apparecchio la tavola per il pranzo, o salgo in automobile per andare a fare una visita.
Camminando sotto i portici passo davanti al Bar Borsa e me lo vedo là, seduto sulla sua poltroncina di plastica.
Siamo stati insieme per talmente tanti anni, io e lui, che ormai lo conosco quanto conosco me stesso, e trovo facile dire di lui come dire di me.
Prendo in mano il microfono e comincio a parlare, guardando diritto negli occhi il pubblico seduto in tribuna.
Ora mi sembra che ci sia molta più gente: sono molti, moltissimi, aumentano di numero ad ogni parola che dico.
E ascoltano tutti in un silenzio quasi religioso.

“Esistono persone, nella nostra vita, che non ci sono mai.
Sono uomini e donne che vivono con noi, abitano lungo la nostra via o nel nostro stesso palazzo; li incontriamo tutti i giorni perché condividono con noi il posto di lavoro, frequentano gli stessi negozi, gli stessi ristoranti, gli stessi luoghi che frequentiamo noi, eppure non ci sono.
Sono mariti che passano le serate al bar a guardare alla TV Albinoleffe-Ternana, mogli totalmente assorbite dall’esito di un bucato in lavatrice, figli che passano tutto il tempo a smanettare sul cellulare o sulla play station.
Sono gli assenti: impiegati delle poste che non alzano mai gli occhi per incrociare il nostro sguardo, idraulici che ci lasciano a liquefarci ai trentotto gradi di luglio dopo che ci hanno promesso di venire in settimana a installarci il condizionatore, medici che se la cavano con una telefonata invece di venirci a visitare, anche se la febbre è molto alta.
Sono assenti: ci stanno davanti nella coda all’ambulatorio, lasciano l’automobile parcheggiata in doppia fila bloccando la nostra, occupano il posto accanto al nostro in Chiesa, al cinema, allo stadio, affollano con noi i centri commerciali, ma non li conosciamo, e anche se li conosciamo non sappiamo chi sono.
Sono moltissimi, ci sono ma non fanno parte della nostra esperienza di vita, perché in realtà, per noi, non esistono.
Sono gli assenti.
Poi accade che, in mezzo a questa folla di gente che non c’è, esista una persona che ci ha lasciato ormai da più di un anno, eppure c’è sempre.
È un uomo di una certa età, più che robusto direi panciuto, con un grosso naso e due occhi verdi brillantissimi.
È uno strano tipo di “Ingeniere” analfabeta, imprenditore edile, nonché armatore navale, direttore di scavi e manager di qualsiasi attività preveda l’apertura di un cantiere.
Ovviamente è anche musicista diplomato al conservatorio, grande viaggiatore impegnato in affari internazionali, mediatore di compravendite e titolare di concessionarie di auto, impresario di orchestre da ballo e titolare di qualsiasi altra attività a qualcuno venga in mente anche solo di nominare.
È Marcellino, il nostro amico che se ne è andato una domenica di novembre di due anni fa ma che è sempre qui con noi, ogni giorno.
Si celebra una ricorrenza e si pensa a lui, si gioca una partita di calcetto e si parla di lui, se ci sono più di tre persone riunite al tavolo di un bar o di un ristorante ecco che in mezzo a loro c’è anche lui, nel ricordo di mille avvenimenti, aneddoti, frasi di lui destinate ad essere ripetute fino a diventare celebri.
Si dà inizio a una costruzione e lui c’è, si apre un cantiere e lui è lì a dirigere i lavori; ogni ruspa che scava, ogni gru che solleva, ogni camion che trasporta qualcosa è un camion della ditta di Marcellino.
Ogni giorno si fa vivo a casa mia mentre cuocio la pasta o preparo il caffè, se faccio una passeggiata con mia moglie o guardo un film con mio figlio: non si fa in tempo a dire trenta parole senza che spunti fuori lui con una sua battuta, un’esclamazione, un suo modo di dire.
Lui c’è ogni volta che accendo la TV per guardare il telegiornale: si tratti di treno ad Alta Velocità o della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, crolli un palazzo o affondi una nave lui compare immediatamente, con la sua presenza discreta e ingombrante, a dirmi che è la sua ditta ad aver vinto l’appalto per i lavori, che è già in partenza per andare a dirigerli, anzi che è già partito, che è già là.
Lui c’è sempre, perché la sua presenza fra di noi è stata tanto pervasiva, e ha riguardato talmente tanti avvenimenti pubblici e privati, da fare in modo che qualsiasi circostanza, qualsiasi episodio, qualsiasi evento riecheggi di lui.
È qui anche stasera, in mezzo a noi, organizzatore della serata, elemento vociante del pubblico, zio e cugino di innumerevoli calciatori; forse, anche arbitro di questa partita.
Se non lo vedete ancora, seduto con voi in tribuna, è perché l’Isola del Giglio è piuttosto lontana e lui, proprio in questi giorni, dà il via a uno dei “lavori” più impegnativi ed importanti della sua carriera: in fondo, spostare il relitto della Costa Concordia non è impresa da poco, neanche per uno con i suoi mezzi.
È solo un po’ in ritardo, ma non farà altro che arrivare.
Anche stasera ci sarà, perché, a una serata come questa, non può mancare e soprattutto perché, in fondo, lui qui con noi c’è stato sempre, e davvero non è andato via mai.
Giochiamo, adesso, e che vinca il migliore.
Ciao, Marcellino: questa partita è per te”.


Capitolo II

Anni Settanta – Anni Ottanta

Do inizio alla gara con un colpo di fischietto breve, secco, come facevo trentacinque anni fa, quando arbitravo partite vere.
Quando ho finito di parlare lo speaker ha pronunciato poche parole come da copione: i ringraziamenti d’obbligo alle Autorità, al pubblico presente, agli organizzatori della serata.
Al Presidente della Pro Loco che è una donna bellissima oltre che in gambissima.
C’è stato un applauso.
Non il solito applauso di circostanza ma un applauso lungo e pieno, caldo, un battere di mani così forte che sembrava fossero in migliaia, lassù in tribuna.
Quando si sono alzati in piedi, tutti, ho capito che l’applauso non era per me.
Cominciamo la partita, speriamo bene.
Devo darmi da fare, stasera.
Se voglio seguire le azioni da vicino devo correre come un matto, di sicuro molto più dei giocatori in campo, e dovrò farlo per oltre un’ora, io che sono addirittura uno nato negli “anni Cinquanta”.
Devo stare attento soprattutto alle posizioni di fuorigioco, e anche all’eventualità che qualcuno dei più grossi, fra i quarantenni, cominci ad impallidire all’improvviso: chissà come sono messi a coronarie.
Sono tutti ex-calciatori di belle speranze, ai loro tempi non hanno avuto abbastanza fortuna da potersi denominare oggi “vecchie glorie”, ma comunque stanno da venticinque anni dentro il mondo del calcio.
Mentre galoppo come un matto da una parte all’altra del campo mi passano vicino ora uno ora l’altro, e ogni passaggio, ogni scatto è una rimescolata al cassetto delle foto ricordo.
Qualcuno lo ho visto nascere, e tutti sono stati miei allievi quando collaboravo come tecnico al Settore Giovanile della nostra società calcistica.
Dal 1986, poi, hanno partecipato quasi tutti al Torneo Notturno di Calcetto che, con un gruppo di amici, ho organizzato per vent’anni consecutivi.
Era una manifestazione fantastica: nelle calde serate del mese di giugno oltre centoventi calciatori, divisi in dodici squadre, davano vita a incontri di calcio a cinque su un tappeto sintetico posato sulla piazza davanti il palazzo del Municipio, nel centro del paese
Nel tempo, il Torneo di Calcetto si è andato trasformando in una vera e propria festa popolare, con centinaia di persone che senza distinzioni di età, sesso, cultura, professione o appartenenza sociale si ritrovavano in piazza, nelle sere d’estate, per vedere le partite e mangiarsi un gelato riscoprendo il piacere semplice di uscire di casa e stare in mezzo alla gente.
Tanta gente.
Inutile dire che Marcellino, al calcetto, c’era sempre.
Non mancava mai perché, di questa come di ogni altra manifestazione, lui era:
– ideatore (quanti an èi che a tal dig’ ca bisogna zugàr al balòn in piaza?)
– promotore: se a capita c’at manca d’lè squadre, dìmal con mì, che a g’ho di zugadòr da Fràra;
– organizzatore: disponeva le sedie per il pubblico, aiutava a portare fuori dai locali del Comune il tavolo grande per i componenti la Giuria, stappava le bottiglie di acqua per i giocatori;
– sostenitore: vantava una quantità innumerevole di nipoti, cugini e parenti vari fra i calciatori, praticamente, uno in ogni squadra;
– tifoso: e questa era la parte più delicata di tutto il complicato ambaradan perché se a una delle squadre nelle quali militava un suo parente, disgraziatamente accadeva di subire qualche goal di troppo, apriti cielo! Un “orso” di oltre novantacinque chili di peso per un metro e settantacinque di altezza, con la forza muscolare acquisita in oltre quarant’anni di attività di facchino e con la dotazione intellettiva di un bambino di cinque anni era pronto a scaricare gli effetti di una furia sconsiderata contro chiunque avesse osato fargli notare che la sua squadra stava perdendo. Di solito il bersaglio della sua “ira funesta” ero io che, facendo da speaker della manifestazione ero obbligato, per dovere d’istituto, a rimarcare la segnatura di ogni rete “Rete! Ha segnato per la Pizzeria Barbacarlo, con il numero 9 Guicciardi! Il punteggio è ora Pizzeria Barbacarlo 3, Ristorante il Giardino 1!” E se considerate il fatto che nella squadra del Ristorante Giardino militava Christian, il prediletto fra i suoi nipoti, lascio immaginare a voi le conseguenze.
– esperto del settore tecnico arbitrale: Marcellino millantava ormai da dieci anni di essere arbitro internazionale di calcio, e ciò lo rendeva, per diritto di nascita, amico naturale e collega di tutti gli arbitri della manifestazione, nonché ospite fisso della cena in pizzeria che il Comitato Organizzatore offriva, alla fine di ogni serata, ai direttori di gara.

Era proprio nel corso di queste cene, che a causa del prolungarsi delle gare solitamente avevano inizio verso la mezzanotte, che Marcellino dava il meglio di sé. Davanti a un pubblico, per così dire, d’élite – arbitri, assessori comunali, squadre partecipanti al torneo al completo; una sera si è fermato persino il Presidente del Comitato Provinciale della Federazione Italiana Giuoco Calcio con il Segretario Generale: che serata, ragazzi! – dopo un paio di birre Marcellino, opportunamente imbeccato, si lanciava nei racconti più incredibili che io abbia mai ascoltato in vita mia, e chi avrà la pazienza di andare avanti ancora per qualche pagina, dovrà darmi ragione, per forza.

La partita continua senza che accada nulla di straordinario: il ritmo rallenta, tanto che ormai a correre davvero sono rimasto solo io, che trotto avanti e indietro come un matto mentre cerco di rimanere vicino all’azione per non perdermi un fallo, un fuorigioco.
Siamo quasi alla fine del primo tempo e il punteggio è ancora sullo zero a zero.
Chissà chi andrà a vincere.
Marcellino, quando c’era una partita di calcio, scommetteva sempre su chi sarebbe stato il vincitore.
Ovviamente, scommetteva a modo suo.
Una sera, al Torneo di Calcetto, ricordo che ha intavolato la scommessa più incredibile del mondo con uno degli arbitri designati a dirigere gli incontri, che in attesa di scendere in campo a condurre la sua gara, si godeva la partita come spettatore.
“Rete!” aveva annunciato lo speaker “ Ha segnato per la Pizzeria Il Cantuccio Bernardoni! Il punteggio è ora Pizzeria Il Cantuccio 1, Bar Sport 0!”
“Te lo avevo detto!” aveva esultato Marcellino “Te lo avevo detto che segnavano prima quelli blu!”
La Pizzeria Il Cantuccio indossava maglie blu, il Bar Sport maglie rosse. In effetti, Marcellino non aveva detto proprio niente, ma lui è fatto così: ha molta più fantasia che logica e vive in un mondo la cui verità è costituita soprattutto dalle emozioni.
“E adesso” diceva all’arbitro che osservava divertito la scena “vedrai che segnano ancora, quelli blu!”
“Lei dice?” gli aveva riposto l’arbitro.
“Ad sicùr!” gli aveva risposto Marcellino mentre il gioco riprendeva. “Vuoi scommettere?”
“Ma sì, scommettiamo. Cosa scommettiamo?”
“Scommettiamo una birra!” e poi, aveva cominciato il suo personalissimo e surreale show.
“Scommettiamo una birra che o segnano ancora i blu, o segnano quelli con la maglia rossa!”
“Rete!” urlava lo speaker “Ha segnato per la Pizzeria Il Cantuccio…”
“Te lo avevo detto, che segnavano ancora i blu!” esultava Marcellino davanti all’esterrefatto compare di scommessa. “Ecco vinta una birra! E adesso, scommettiamo un’altra birra che, o segnano i rossi oppure segnano ancora i blu!”
“Rete!” interveniva ancora lo speaker, perché nel calcio a cinque le reti si susseguono a distanza di una manciata di secondi “Ha segnato, per il Bar Sport, Vitiello!”
“Rete dei rossi!” si sfregava le mani Marcellino, soddisfatto “E con questa, le birre sono tre! Adesso, io dico che o segnano ancora i rossi, oppure segnano i blu: vuoi scommetterci un’altra birra?”
Ormai, al tavolo della Giuria, la partita non la seguiva più nessuno.
Questo “teatro dell’assurdo” messo in piedi da Mar­cellino aveva catturato l’attenzione di tutti, persino dell’arbitro che dirigeva la gara in corso, che ogni tanto distoglieva l’attenzione dalle fasi di gioco per godersi la scena.
Marcellino continuava a scommettere, incurante di ogni logica e, ciò che più conta, ad esultare di vera gioia ad ogni nuova inevitabile vittoria: o segnano ancora i rossi, oppure segnano i blu.
Alla fine dell’incontro si era aggiudicato tredici birre, e la cosa non deve stupire visto che la gara si era conclusa con il punteggio di sette a sei per il Bar Sport: la matematica, almeno quella, non è una opinione.

Rigore.
Rigore per i “neri”.
C’è stata una spinta, un fallo piuttosto evidente commesso due metri dentro l’area di rigore.
Emetto un fischio deciso, indicando il dischetto al centro dell’area.
I giocatori accennano appena a una qualche protesta, più che altro per l’antica abitudine ad opporsi a ciò che gioca a proprio svantaggio, ma io sono irremovibile.
Ho decretato un rigore contro i bianchi, la squadra di Christian, il nipote prediletto.
Mi sento addosso la voce grossa e profonda di Mar­cellino che protesta la mia decisione quasi avesse subito un’offesa personale “Arbitro, dagh’ quel c’agh vièn, a la zènt!”
Mi dispiace, Marcellino, ma era proprio rigore.
Lui, è davvero qui.
È qui che guarda questa partita, è qui a scommettere una birra su chi segnerà la prossima rete – e a vincerla, ovviamente – ad aspettare che termini l’incontro per consegnare, commosso fino alle lacrime, un premio alla squadra vincitrice o a uno dei suoi innumerevoli nipoti, occasione che non può certo mancare dato che vanta parenti praticamente in ogni squadra.
È qui sul prato verde di questo campo di calcio che io percorro in lungo e in largo, con una corsa sempre più stanca; per fortuna mancano solo dieci minuti alla fine.
Decreto un calcio d’angolo.
Faccio correggere la posizione del pallone, tanto per guadagnare qualche secondo e recuperare un po’ di fiato, e intanto, mi guardo intorno.
Dalla bandierina del “corner” si vede, poco lontana, via Provasi, la famosa “via del Cimitero”, e in fondo, un gruppo di case popolari, vecchi casermoni dall’intonaco scrostato che un tempo dovevano essere stati dipinti di colore giallo chiaro.
A battere il corner arriva un giocatore che, di girovita, è anche più grosso degli altri.
Mentre osservo la posizione dei giocatori in area di rigore, sono invaso dai ricordi: è in uno di quegli appartamenti fatiscenti e maltenuti che ha vissuto Marcellino; è la che l’ho visto per la prima volta, un giorno che ero andato a visitare la Pina.

[continua]


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