Opere di

Marco Tratzi


Con questo racconto è risultato 5° classificato – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010


Le fate di Salunì

Quando mio padre andava a vendere il pesce al mercato di Salunì uscivamo all’alba che lui era già partito da qualche ora. Le nostre scorribande lungo il corso d’acqua avevano inizio nel piccolo molo di frasche, lungo le rive del fiume. Sopra la nostra piccola barca solo un cesto di fichi e una borraccia d’acqua, sotto, silenziose e pallide, le acque del rio Madiga. Partivamo che il sole si era appena affacciato all’orizzonte, pronto a dar luce a un altro lungo giorno. Avevamo undici e nove anni io e mio fratello: due cuccioli di uomo senza madre, morta prematuramente quando eravamo ancora in fasce.
La prima carezza di remo sull’acqua era la più dolce di tutto il viaggio perché segnalava ai nostri cuori la partenza. Le altre, infinite, si perdevano come si perdevano i nostri pensieri a cospetto di quel paesaggio così misterioso.
Ci disponevamo nel piccolo battello uno di fronte all’altro, nelle due postazioni di bordo, come le chiamavamo noi. Erano solo due vecchie tavole, ma con un po’ di fantasia si trasformavano in qualcosa di più grande e fantastico.
Chi remava all’andata poteva godersi il sole che sorgeva. Quando con i suoi raggi arrivava nel punto più alto del cielo invertivamo la rotta e i posti a sedere, così che chi aveva guidato per primo si riposava e lasciava i remi all’altro, che poteva, al contrario, godersi il tramonto. Il sole si alzava esattamente seguendo la linea del fiume e del nostro cammino, e dall’altro lato, quando andava a dormire, scendeva dando l’impressione di immergersi nelle acque del rio. Era un fenomeno abbastanza insolito e, per noi bambini, magico.
Un giorno partimmo molto presto, era ancora buio e il villaggio dei pescatori era invisibile e nascosto da una notte che aveva un sorriso al posto della luna e qualche sporadica stella. Aspettammo che mio padre andasse via nascosti dietro un muretto in pietra dove gli anziani si sedevano l’estate a prendere un po’ di aria fresca. Era alto quasi quanto noi. Quando sentimmo in lontananza il nitrire infastidito di Onda del mare, vecchio cavallo che accompagnava il carretto con sopra mio zio e mio babbo al mercato di Salunì, a ovest del fiume, ci mettemmo a correre come cani impazziti verso la nostra barca, che avevamo ribattezzato “Anaconda”.
Guidai io quella mattina. Dopo qualche mezzora di viaggio mi accorsi che in lontananza, ancora nascosta dal buio e dalla brina, c’era una vecchia signora seduta sulla riva del fiume. Inizialmente non le detti tanta importanza, pensavo stesse lavando qualche veste o qualche arnese da cucina. Ma quando arrivammo a qualche metro da lei era ormai giorno, e notai che aveva i piedi immersi nell’acqua. Ci fermò facendo uno strano cenno con la testa e balbettò una frase che riuscii a capire a malapena.
«Smettete di remare per qualche minuto e fatevi trasportare dalla corrente; quando siete lontani da me riprendete pure».
Io e mio fratello ci guardammo in faccia e senza obiettare facemmo come lei ci disse. Il nostro spirito avventuriero fu turbato per qualche istante dalla sua voce, ma soprattutto dal modo in cui era vestita. Aveva una veste completamente nera e sul capo portava un fazzoletto che ne copriva gran parte del viso, anch’esso molto scuro. Riprendemmo a remare.
«Che strana signora» dissi, un po’ turbato.
«Sì, chissà cosa stava facendo con i piedi dentro l’acqua» commentò mio fratello, anch’egli scosso.
Il nostro viaggio era appena all’inizio, la voglia di andare avanti ci aiutò a dimenticare presto quello strano incontro. Se non fosse che dopo qualche minuto ci imbattemmo ancora una volta a cospetto di una donna.
«Oh Dio!» esclamò mio fratello.
«Che succede?» gli chiesi.
«Girati».
Essendo io a remare avevo il viso rivolto verso di lui e non vedevo ciò che c’era davanti, se non a tratti, quando mi giravo per mantenere la rotta. Come mi voltai si presentò ai miei occhi lo stesso scenario di qualche minuto prima. Una signora presumibilmente anziana teneva i piedi dentro l’acqua e in silenzio osservava il nulla. I suoi occhi non avevano nessuna espressione e non promettevano niente di buono. Non ci diede neanche il tempo di riflettere, a bassa voce pronunciò una frase simile a quella che avevamo sentito dalla bocca dell’altra donna. Obbedimmo anche stavolta. Non appena riuscimmo a dileguarci ci fermammo per darci una spiegazione di quel che stava accadendo.
«Ehi, ma che diavolo succede?» mi chiese infastidito mio fratello.
«Non lo so, ma perché stavano lì quelle due?».
A domanda rispose domanda. Tutti e due avevamo paura ed eravamo quasi decisi a tornare indietro.
Eravamo, però, quasi giunti alla vecchia chiesa le cui rovine riflettevano nelle placide acque del rio, un posto dove amavamo fermarci a giocare. Decidemmo quindi di proseguire dandoci coraggio a vicenda e cercando di non pensare alle due donne.
La vecchia chiesa era situata a qualche metro dalla riva del fiume e aveva le tracce inesorabili del tempo. Dentro si potevano ancora trovare alcune statue che raffiguravano dei santi, avvolte da un telo bianco. Mi sono sempre chiesto perché le lasciavano lì se avevano deciso, comunque, di rivestirle per rallentarne l’usura. E’ una domanda a cui non sono mai riuscito a darmi una risposta plausibile.
Diedi l’ultimo colpo di remi per far sterzare la barca e permettere a mio fratello di legarla in un qualsiasi ramo del vecchio oleandro che aveva ormai più anni di nostro nonno. Era talmente grande che non riuscivamo ad abbracciarlo neanche in due. Mi avvicinai sempre di più alla riva e mio fratello si mise in piedi per facilitare l’approdo. Un urlo mi fece balzare indietro e non so cosa mi salvò dal cadere in acqua. Era la voce di mio fratello.
Appena realizzai mi accorsi di una presenza proprio accanto all’albero, era un’altra volta lei. Non lo stesso viso ma l’identica figura di donna vestita di nero. Stavolta aveva le mani al viso e il fazzoletto slegato che lasciava intravvedere alcune lacrime che seguivano i lineamenti del collo.
«Silenzio bambini, silenzio» sussurrò. «Andate a giocare più in là».
A primo impatto mi spaventò molto, poi mi fece quasi tenerezza. Mio fratello era traumatizzato perché se l’era vista spuntare da dietro l’albero, l’aveva quasi sfiorata. Non riusciva più a parlare. Decisi di allontanarmi al più presto e di fermarmi in un punto preciso che ben conoscevo per far luce definitivamente su cosa stesse accadendo lungo le sponde di quel maledetto fiume, che mai ci aveva riservato uno spettacolo anomalo come quello che stavamo vivendo quel giorno.
Mi accostai a un canneto e cercai di rinfrancare il mio sfortunato compagno di viaggio e di adolescenza.
«Non preoccuparti, qui siamo al sicuro» gli dissi, accostando il suo viso al mio petto.
«Andiamo via» balbettò.
Cercando di non apparire anch’io teso e impaurito gli diedi due spintoni come per farlo svegliare da un incubo.
«Andiamo via!» replicò, con un tono di voce quasi minaccioso.
Pensai che forse era il momento di interrompere la nostra crociera, che mai era stata così breve. Gli occhi di mio fratello dicevano tutto, era ora di rientrare.
Rimasi al posto di guida e cominciai una lunga e veloce corsa verso il punto da cui eravamo partiti. La paura di rincontrare le donne era maggiore della forza che avevo nelle braccia, ma dovevo farcela; soprattutto per mio fratello, che era orami pallido e traumatizzato da quell’ultimo, raccapricciante incontro. Gli dissi di sdraiarsi a prua e di rilassarsi, in poco tempo lo avrei riportato a casa.
Remai come avevo sempre fatto: di spalle rispetto al senso di marcia. Mi aiutò a vincere la paura il fatto che il corso del fiume era incredibilmente lineare e, inoltre, avendo io lo sguardo rivolto verso poppa non potevo rivedere le donne che avevamo incontrato, se non quando superavo il punto in cui eventualmente le avrei riviste.
Quello che mi fece quasi scoppiare il cuore fu che ne incontrai almeno una decina. Senza che mi dicessero niente prima, rallentai ogni qualvolta mi capitò di incontrarne una.
Quando ti trovi in difficoltà, probabilmente scaturisce in te una sorta di spirito di sopravvivenza, non altro giustifica il fatto che mi salvai da quella situazione. Mio fratello non si accorse di nulla, anche perché quando rallentavo dinnanzi a quelle donne, per non farlo preoccupare, gli dicevo che ero stanco e che avevo bisogno di far riposare le braccia. Fatto sta che riuscii a seminare i loro sguardi schivi e immobili.
Con un gesto feci cenno a mio fratello di rialzarsi.
«Siamo arrivati» gli sussurrai esausto.
Come alzò la testa notai in lui un’insolita reazione, come se avesse visto qualcosa di inaspettato. Tutta la paura gli piombò di nuovo sul volto. Pensai in un ennesimo brutto incontro e mi voltai immediatamente.
«Babbo?» dissi, come per porgere la domanda a qualcosa di ignoto.
Il suo sguardo provocò in noi uno stato di confusione e paura; mi venne l’istinto di scappare ma la coscienza mi trattenne.
«Non doveva essere a Salunì?» mi chiese sottovoce mio fratello.
«Purtroppo per noi non è così» risposi, consapevole di quello che sarebbe di lì a poco successo.
Legammo la barca e scendemmo senza aprire bocca. Il primo ceffone lo ricevetti io, che ero il più grande dei due; questo fece scoppiare in lacrime anche il mio piccolo compagno di sventura, che non venne dispensato dallo stesso trattamento.
Nostro padre ci aveva sempre raccomandato di non andare da soli nel fiume e soprattutto di non utilizzare mai la piccola barca che a lui serviva per “buttare” qualche rete quando il tempo non permetteva la pesca in alto mare. Se solo avesse saputo quante volte avevamo utilizzato la nostra amata Anaconda ci avrebbe sicuramente rinchiuso in casa sino al nostro diciottesimo anno di età.
Arrivammo alla nostra umile dimora accompagnati da feroci rimproveri e da qualche spintone.
«Ora in camera, e non voglio sentire una mosca volare!» disse, con gli occhi sbarrati e le vene delle braccia che sembrava scoppiassero da un momento all’altro.
Ci sdraiammo nei rispettivi giacigli e il primo a cadere in un sonno profondo fu mio fratello; io mi soffermai a pensare sul perché nostro padre fosse rientrato così presto dal mercato, non era mai capitato prima di allora.
Preso dalla curiosità mi spostai dalla camera al bagno, da dove si poteva sentire ciò che mio padre e mio zio si dicevano. Li avevo sempre visti e sentiti scambiare quattro chiacchiere in compagnia di un buon bicchiere di vino e con aria gioiosa, mentre quel dì avevano un tono di voce quasi impercettibile. Decisi, rischiando molto, di avvicinarmi pian piano a loro cercando di non farmi notare. Il litigio di fiamme che fuoriusciva dalla cucina a legna rifletteva nelle pareti umide. Rimasi lì per molto tempo, ascoltai tutto ciò che si dissero e tornai in camera. Pensai tanto.
Ero indeciso se svegliare mio fratello per confidargli ciò che avevo appreso e che mi aveva trasmesso inquietudine e timore: a Salunì erano arrivati i soldati e avevano ucciso uomini e bambini, maltrattato le donne e rasato al suolo il piccolo villaggio di montagna. Non contenti avevano caricato i corpi e li avevano trasportati a valle, nelle rive del fiume Madiga. Là si erano divertiti a lanciarli nelle docili e fredde acque.
Tutto questo era accaduto solo da qualche giorno, non avrebbero tardato ad arrivare anche dalle nostre parti. Chiamai a voce bassa mio fratello per metterlo al corrente della situazione, ma proprio in quel momento la porta si spalancò facendoci balzare entrambi dal letto. Vidi la sagoma di mio padre.
«Dobbiamo andare via, i soldati sono vicini al villaggio, seguitemi».
Mio fratello, ancora confuso dal sonno, ci guardò per qualche istante e senza battere ciglio si vestì. Io anche. Seguimmo mio padre in silenzio verso la strada buia che portava all’orto di don Bachisio, il parroco del villaggio. Da lì, in pochi secondi arrivammo al punto dov’era ormeggiata la barca di nostro zio, proprio sul rio Madiga che mai avrei pensato di rivedere così presto.
«Salite» ci disse, con aria atterrita.
Il silenzio della palude si alternava ai nostri sospiri, e alle voci dei soldati che si udivano in lontananza e che ci trasmettevano un’angoscia tremenda. Avevamo tutti molta paura.
«Compare!» disse mio padre a mio zio «arriviamo al vecchio muro e lasciamo là la barca; cercheremo di raggiungere a piedi la montagna, è l’unico posto sicuro».
Mio zio annuì senza controbattere.
Mentre percorrevamo il fiume mi tornò in mente la disavventura della mattina di quello stesso giorno e pensai a quale fine avessero fatto le donne vestite di nero. Per combattere la paura raccontai tutto a mio babbo, che mi ascoltò raccomandandomi di non alzare il tono di voce. Alla fine del racconto mi sorrise e, accarezzandomi la fronte, mi disse:
«Piccolo, quelle donne che tu e tuo fratello avete visto sono le fate di Salunì».
«Le fate?» chiesi, incuriosito.
«Le fate piccolo mio, le fate; a loro piace dormire proprio nel letto del rio Madiga, tra le alghe palustri e i fanghi salmastri, poi il giorno risalgono in superficie e si siedono sulla riva a pregare; è per questo che non vogliono essere disturbate».
«Ma babbo, perché alcune di loro piangevano?» continuai.
Mio padre fece sedere mio fratello sulle sue ginocchia e continuò la storia.
«Piangono perché tutte le persone che muoiono durante la guerra vengono seppellite nel fiume e non lasciano spazio a loro per poter riposare; loro non vogliono che la guerra continui!».
Avrei voluto fargli tante altre domande ma mi resi conto che non era il momento. Fu lui, però, a continuare il discorso.
«La guerra finirà e tutto tornerà come prima: le fate non si siederanno mai più sulle rive del fiume a pregare e torneranno a Salunì, e così anche noi potremmo vendere di nuovo i pesci».
«Perché, anche loro mangiano i pesci?» chiese, con voce tremolante, mio fratello.
«Certo, a babbo e a zio, loro, ne comprano sempre tantissimi; vero compare?» disse, rivolgendosi a mio zio.
«Verissimo» rispose lui. «Sono quelle che comprano più pesce di tutti».
Arrivammo all’altezza del vecchio muro, proprio in quel momento una luce abbagliò i nostri occhi infreddoliti.
«Fermi!» gridò una voce che proveniva dalla riva.
Mio padre ci lanciò in acqua gridandoci di nuotare il più veloce possibile. Con un colpo di reni fece girare la barca su se stessa facendola ribaltare e si lanciò anche lui in acqua. Con lui mio zio. Da quel momento sentii solo colpi di fucile e grida furibonde; mi misi a nuotare come un pesce impaurito alternando il nuoto a brevi apnee per nascondermi dalla luce. Mentre il cuore mi batteva forte cercavo con lo sguardo mio fratello e mio padre ma non riuscii più a trovarli. Non vidi neanche più la luce, solo il buio imperversava attorno a me. All’improvviso una mano ruvida mi strappò alle acque fredde del fiume e mi chiuse la bocca. Era una delle fate di Salunì.
«Fai silenzio, ti porto via da qua» mi disse, con un filo di voce.
Impaurito, ma allo stesso tempo contento della sua presenza, le dissi che avevo perso i miei familiari e che sott’acqua avevo toccato alcune persone che dormivano nel fondo del fiume; le chiesi come mai lei non stava riposando con loro.
«Hai visto quanti sono?» disse. «Non c’è posto per noi, andiamo a riposare da un’altra parte».
Non tornai mai più in quel posto e mai più rincontrai mio padre e mio fratello.

Marco Tratzi



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