Opere di

Margherita Lo Russo


Pensando a Te

La finestra è aperta davanti lo scrittoio, ho raccolto tutto ciò che era da conservare e ciò che non serviva l’ho buttato nella spazzatura.
Dando un ultimo sguardo alla stanza prima di chiudere con il passato, ti vedo davanti lo specchio di spalle. La tua mano mi porge la spazzola per spazzolarti i corti capelli, ormai diventati bianchi.
Tu mi sei davanti e indossi la solita vestaglia scura ed il colore del tuo volto, quasi ceruleo, si scontra con essa. La tua fronte è solcata da lunghe righe profonde, i tuoi piccoli occhi sono diventati pungenti e interrogativi al mio sguardo che si incrocia al tuo e tu sfuggi.
Tante cose vorrei dirti, ma vanamente le parole non scorrono dalla mia bocca. Vorrei parlarti del nostro passato, del nostro domani e chiederti cosa provi dentro la tua anima, lacerata da tanti ricordi.
Il tuo passato è stato tanto triste, ma vorrei farti capire che le cose che hai costruito sono tante e che è stata tua la colpa se hai vissuto la vita camminando sempre un passo indietro, come i “gamberi”.
A te non è mai bastato il nostro amore e la nostra devozione, cercavi sempre di appagare la tua insoddisfazione attraverso le frustrazioni del passato. Non voglio accusarti adesso, non capiresti; ma una cosa te la dico: “Avresti dovuto vivere il presente con noi, senza nulla rimproverarti e senza rimproverare nomi privi di volto ed anima.”
Ricordo la mia infanzia abbastanza felice, circondata da tanti fratelli, ma se scavo meglio nella mia memoria, mi accorgo che già da allora mi è sempre mancato qualcosa. Non so come si possa definire quel senso di vuoto che non ti dà la completezza del vivere quotidiano e mentre tutto ciò che faccio durante il giorno mi dà la realizzazione, la sera, quando mi accingo ad andare a letto, sento continuamente una lacerante certezza che mi sanguina dentro.
Adesso che ti guardo mi sembri tanto fragile, piccola e bisognosa di affetto, eppure per tanti anni mi sei apparsa così forte, come un enorme scoglio, saldo, a cui noi ci aggrappavamo sempre.
Eri la nostra stella polare.
Quando ero piccola, temevo sempre che ti potesse accadere qualcosa o che tu potessi morire. Non avrei potuto vivere senza di Te, ma questo non te l’ho mai detto.
Non ti ho mai parlato del mio forte legame nei tuoi confronti, poichè strani timori e imbarazzi mi combattevano, tant’è che non erano spontanei fra di noi gli abbracci, i baci e le coccole. Che stupida, avrei potuto dirti tante cose! Forse ti avrebbero resa felice, ma la timidezza mi ha impedito di comunicarti cose importanti per il nostro cuore, cibo per la nostra anima che è rimasto dentro di me ed ha lasciato un vuoto incolmabile.
Dalla finestra si scorgono le onde del mare e i raggi del sole. Questi ultimi, attraverso i vetri, scaldano i nostri corpi infreddoliti dentro e quel tepore, come una spugna, è riuscito ad assorbire tutte le macchie scure della mia esistenza, anche se il mio cuore rimane sempre appesantito e stanco.
Una vela bianca attraversa l’orizzonte lentamente, tagliandolo di netto, mentre noto un gabbiano che si sofferma in volo a guardarci attraverso il vetro, picchiettandolo con il suo becco. I suoi occhi ci guardano perplessi, così si alza in volo raggiungendo la sua compagna. Quel tepore benefico che filtra dai vetri è riuscito a rilassare anche la tua dura espressione ed i tuoi lineamenti si sciolgono ai tiepidi raggi del sole.
Così, cercando il mio sguardo accennasti alla mia infanzia con una domanda: “Ti ricordi, Luisa, quando insieme correvamo nel campo di grano di papà? Ti nascondevi sotto le spighe alte e imbiondite piene di rossi papaveri.”
Io ridendo le risposi: “Papà non voleva che io corressi nel campo, perché diceva sempre che il grano alto si piegava, ma io sgattaiolavo veloce come una faina e tu cara mamma mi rincorrevi con i tuoi capelli neri e ricci, inebriati dal vento.”
Eri bellissima, indossavi sempre vestiti arricciati in vita. Eri tu che cucivi i tuoi abiti, sbizzarrendoti con stoffe vistose prese al banco del mercato, scelti fra scampoli vari e con i pezzi restanti cucivi delle gonnelle e delle camicie anche per noi. Ti divertivi fra i banchi e io ti vedevo sollevare montagne di pezze, perché dicevi sempre che la stoffa più bella era quella sommersa. Passavi intere notti sulla macchina da cucire. Il ticchettio del pedale invadeva le stanze ed i corridoi, ma noi dormivamo sereni con quel rumore continuo perchè ci teneva compagnia nel buio della notte. Per noi era come un richiamo alla vita. Spesso la mattina dopo, trovavamo appeso in una gruccia nella sponda del letto il nuovo completo profumato di cilenna e del calore del ferro.
Papà aveva una campagna nei pressi di Delia, dove vi era una grande casa colonica, che usavamo spesso d’estate, arredata con pochi mobili rustici. In sala, vi era una credenza piena di strani piatti colorati in stile inglese. Gli angoli della casa erano pieni di vasi con dentro i fiori recisi del campo, soprattutto iris e ginestre i tuoi preferiti. Ancora adesso percepisco il loro odore pungente, quell’odore che allora mi stordiva e mi confondeva.
Papà fisicamente era atletico, sinuoso nei movimenti e indossava pantaloni corti, che mettevano in mostra i suoi grossi polpacci. Ricordo che d’estate, nei campi, mi portava sempre sulle spalle per andare a controllare i contadini e io dall’alto del mio ruolo, notavo tutto.
Tu eri lì accanto e ci guardavi ridendo, allora come adesso fra le fessure degli occhi socchiusi al massimo. Cosa non farei per ritornare a quelle estati, per rivivere quelle semplici emozioni.
Ora, mentre ti guardo, capisco il tuo sguardo e solo adesso noto che la tua sofferenza è simile alla mia e che anche a te manca qualcosa. Conosco bene quello strano senso di vuoto comune a tanti esseri, quel vuoto che ci attanaglia e ci piglia dentro, mutilandoci soprattutto alla sera, quando, con la penombra dentro le mura, ci accorgiamo di essere ancora di più soli nell’anima e questo senso di vuoto ci frulla dentro il petto lacerandoci dentro.
Ora che sono madre anch’io, capisco, e mi accorgo come te di lasciarmi prendere dalla corsa della vita quotidiana che non si sà dove ci porta. Pensiamo a tante cose futili durante il nostro vivere: al cibo per la sopravvivenza, allo spirito pregando Dio e al nostro aspetto esteriore, pensando che tutto ciò possa farci sentire meglio.
Non ci accorgiamo che mascheriamo i nostri sentimenti e, credendo che possiamo dire domani ciò che proviamo oggi verso chi amiamo, rinviamo sempre un abbraccio perchè adesso non abbiamo tempo. I piatti e la cena ci aspettano, corriamo trafelati da una stanza ad un’altra ed in giro per casa tanti volti senza espressioni che seguono il nostro vivere.
Nello specchio non vedo più il tuo volto riflesso e mi accingo a contare i giorni e i mesi. Oggi cara mamma è il terzo mese che sei andata via da me. Tra poco sarà anche il primo natale senza di te e nel mio cuore ci sono tutti i nostri momenti vissuti insieme. Attimi racchiusi e raccolti stretti con un filo sottile etereo che può staccarsi in qualunque momento per colpa del tempo che, inesorabile, travolge tutto e senza compassione, sterile e grezzo, caccia le emozioni nell’oblio.
Ma adesso, cara mamma, voglio per un’ ultima volta dirti ciao e ancora ciao, perchè sento il bisogno di salutarti ancora una volta, anche se la tua essenza è rimasta fra le mie dita che, instancabili, ti hanno accarezzato il liscio volto e i bianchi capelli cercando di accompagnarti lungo il cammino.
Ti ho lasciata così oltre quel muro, dove lo so che non sarai più sola: in quel luogo ci sono tutti ad aspettarti sorridendo festosi al tuo arrivo.
È lì finalmente sarai libera.
Ciao mamma.



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