Racconto premiato di Maria Chiara Firinu

Con questo racconto è risultatq 8^ classificata – Sezione narrativa alla XVII edizione Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2009


Le mie pietre

Là, vicino ai fanghi rossi, c’era la 
mia casa. L’avevo salutata a gran fatica, lasciandola, e non l’avevo mai dimenticata. Allora non sapevo per quanto e quanto l’avrei rimpianta. Era una casa antica e signorile con i muri spessi ed era stata tanti anni prima di allora la dimora di un nobile che intorno aveva piantato alberi da frutto ed ulivi. Passavo spesso di fronte ma, per non soffrire, voltavo lo sguardo e cercando di pensare ad altro andavo oltre.
Se il pensiero per averla vista perdurava mi assaliva un malessere strano che avrei voluto tenere lontano o sostituire con qualche bel ricordo preso lì. Ne avevo molti ma prima di rendermi conto che, solo così, con altri ricordi avrei diluito quell’emozione negativa sono passati davvero tanti anni.
Sono tornata lì obbligata da un richiamo forte e dal vento che per tutto l’inverno, ad ogni passaggio di fronte alla casa, sembrava farmi sentire i suoi inviti decisi, i suoi consigli precisi come ordini ai quali ubbidire. Sotto sotto aspettavo uno spunto di quel tipo per decidere davvero di tornare in quel posto che amavo e che mi attraeva come un grande amore impossibile.
La direzione della miniera aveva buttato giù la casa.
Non più una sull’altra, si vedevano tante pietre, sabbia antica color senape, terra rossa e radici scure che, infilate in tutta quella rovina, in quell’ammasso di calcinacci, tentavano ancora di sorreggerne il peso perché la casa non sparisse del tutto. Ma in piedi non c’era più nulla.
Da allora il mio stato d’animo ha cominciato a cambiare in negativo. Mi sono sentita presa da qualcosa d’indefinito che mi coinvolgeva e che ho cercato di gestire attraverso i miei giochi e i miei ricordi.
Ho tentato vanamente di poggiare una pietra sull’altra. Una gran fatica inutile, soprattutto di fronte al fatto che i miei cari non erano più lì. Mi sono sentita sola, pur appartenendo ad una numerosa famiglia. In un susseguirsi denso e compatto si sono presentati suoni, parole e immagini quasi plastiche a definire la mia presenza in quell’ambiente che mi apparteneva tutto e che mi stava chiedendo di essere raccolto.

Ricordo che da bambina, pur avendo capito bene certe differenze, godevo profondamente quando riuscivo ad attribuire ed a riconoscere un’anima anche a cose che non l’avevano. Era sufficiente un oggetto che compisse un lavoro utile, qualcosa che fosse un tramite giusto, per convincermi che avesse una sua anima. Certo non le davo la stessa profondità di quella degli uomini ma, la fede in quel gran dono mi convinceva che anche altri potessero meritarlo. Così, nel tempo, avevano avuto un’anima gli alberi intorno alla mia casa, il mio cane, la macina per le olive, la mia bambola.
Immediato arriva il ricordo delle direttive marcate di mio padre, la saggezza e la pazienza di mia madre e, la ninna nanna in oristanese che ziu Giuanni mi cantava tenendomi in braccio.
C’è silenzio in quella scena di rovina dove ora, sui due pini, sento solo le cicale che da sempre li hanno scelti come dimora.
Chi manca ancora?
Il vento continua a portarmi capitoli di vita che forse avevo ritenuto pallidi ma mai inutili. Ora li leggo bene, sono emersi interi e completi, stampati su un telaio di sentimenti forti come le pietre antiche della casa. Riappare anche il mio amato cane che, conoscendomi bene, si è allontanato per non assistere all’impotenza che ho cominciato a provare da subito. Lui sa che cosa sto sopportando. Riapparirà, ne sono certa, quando la memoria sarà più libera e col suo sguardo buono, cercherà prima la mia faccia e poi le mie mani dove era abituato a trovare un pezzo di gateux. Già sento il suo fiato caldo e mentre sbadiglia mi mostra la macchia scura del suo palato. Ha la mia età, l’ha sempre avuta, allora come ora che non c’è più. So che qualcuno non capirà ma lui continuerà a crescere con me e sarà un coetaneo sempre attuale. Ora, di fronte alle mie pietre, di fronte a tutto ciò che sta emergendo allo sguardo e dalla memoria, so ancora di più e con più certezza, che anche lui ha un’anima, che vive in simbiosi con la mia e lo troverò un altro giorno, come troverò tutti quelli che mi mancano oggi.

Sta per piovere. La giornata è nitida e l’aria fresca è ferma come in attesa di un evento.
Intorno e di fronte a me vedo le montagne con pietre di bianco calcare con venature verdi. Tra la terra e le pietre, ormai padrone per radici profonde, cresce il lentischio con foglie di un verde intenso e bacche rosse, nutrimento sublime per le pernici. Crescono pere selvatiche con bucce rugose, spadroneggia il fico con grandi fronde e frutti piccoli per la loro qualità. Gli ulivi sono un po’ inselvatichiti ma, com’è sempre stato, non hanno paura di niente. Si sente nell’aria il buon odore della terra umida frammista a foglie cadute, diventate quasi nere. Delle foglie cadute è rimasto il contorno più scuro e la parte centrale piena di piccolissimi intagli. Sembrano filigrana d’argento un po’ brunita. Sono enormi quegli ulivi, ormai. Sono custodi, padroni, poeti e cantori di storie. Il regno vegetale intorno alla mia casa caduta non si è accorto dei cambiamenti di tipo minerario, né ha sofferto di solitudine come può capitare a chi si allontana da un posto che ama. Il regno vegetale è un regno vero, è stabile, non ha antagonisti nel suo genere e, tolto l’uomo, può vantare davvero la sua corona.
Ogni tanto, mentre guardavo e cercavo, osservavo anche le mie mani impegnate in quel lavoro di ricostruzione che avrei voluto compiere. Non avevo molto tempo per guardarle. Cominciavo ad essere assorbita da quell’inutile fatica ma pensavo ugualmente al fascino che provo nei confronti delle mani, per quello che sanno fare. Pensavo soprattutto alle mani pazienti e laboriose di mia madre, alle mani forti e capaci di mio padre e le vedevo lì, insieme a me, che mi aiutavano a ricostruire la casa. Tutta la fatica passata emergeva con forza nell’aria e davanti a me. Una fatica piena e pulita, la fatica che riempie di gioia perché dimostra i risultati del lavoro. Era normale che fossimo tutti insieme e che insieme agli echi delle cose che stavo cercando e ritrovando, sentissi le loro voci. I fanghi rossi, avanzi sterili di miniere faticose, erano alle mie spalle come sentinelle del passato, titani di un museo aperto sotto il cielo d’ogni stagione, come opera ineguale di lavoro duro compiuto all’insaputa del sole, con scorie nocive per la salute. Loro stanno lì e chi guarda li definisce sempre e da sempre pericolosi. Tutti ne parlano con disprezzo e in negativo. Loro sembrano disposti a sorbire tutti quei commenti, quasi in attesa di ascoltarli, senza difendersi.

Ma sono davvero così nocivi se ancora risvegliano nostalgie e rimpianti, se richiamano ricordi? Li guardo come monumenti fantastici e non ho nei loro riguardi alcun tipo di sentimento malevolo o di risentimento. Li ho conosciuti da bambina, li ho sempre considerati amici anche quando il vento, incolpevole, soffiava forte su di loro liberandoli dalla polvere che costituisce i loro fianchi, il loro sguardo e la loro esistenza che, forse per tanti anni ancora, ci sembrerà eterna. Sento ora, più di ieri che la loro consistenza è stata capace di riempire gli spazi della mia mente bambina, i vuoti della mia anima infantile che mentre scriveva i primi pensieri nella scuola, respirava la loro polvere rossa. Quando il vento soffiava forte io chiudevo gli occhi e aspettavo che quel momento previsto e dovuto terminasse, ma nel frattempo, ad occhi chiusi pensavo, pensavo… e ringraziavo quel vento che creava spettacolo di mulinelli e di polvere colorata. Peccato che durassero poco quelle folate perché erano i momenti che portavano lontano, che mi facevano arrivare oltre il cielo per sognare davvero. La natura intorno resisteva tutta, quando il vento trasferiva la polvere dei fanghi rossi in ogni direzione. Le ferule, austere nel loro elevarsi, con quelle appendici laterali lanose, un po’ obbligate, un po’ generose, spalancavano le loro foglie striate ad accogliere il sedimento colorato che si depositava in maniera uniforme.
La collina tutta, ricoperta di un velo rossastro assumeva spesso l’aspetto di un tramonto anticipato prima che la pioggia rimettesse a posto ogni cosa. Ecco, i fanghi rossi hanno conosciuto albe e tramonti, mezzogiorni di fuoco, bufere di pioggia e qualche volta di neve sopportando senza rivolte a noi accordate, a loro impossibili, un passato ancora presente.

Sono sempre lì, i fanghi rossi. All’arrivo, allora nella mia casa, oggi di fronte al dolore della rovina. Con la loro presenza mi hanno aiutato ad ingoiare un po’ di quel dolore, mi hanno liberato in parte dalla paura e dalla solitudine che sono arrivate a quella vista. Muti erano lì a guardare, ad assistere ad un incontro, a farmi compagnia. Non c’è più molto da dire che non sia già stato detto su di loro. Sono lì e non hanno mai cambiato colore. Il loro unico vestito rosso diventa più scuro quando cade la pioggia, chiaro quando trasuda il “bianco zinco”, candido durante le rare nevi sarde, dorato talvolta, perché anche il sole fa la sua parte. Ma il loro abito è stato sempre lo stesso, quasi come quello degli operai, “gli uomini del fango” come li chiamavo da bambina, che li hanno costruiti. Quanta gente, passando di fronte, si è fermata per vederli più da vicino: li ha fotografati, filmati, disprezzati, ammirati. Tanti turisti, senza conoscerne le origini e la storia, si sono portati a casa la loro immagine spettacolare, infinita, colorata e datata.
Guardateli bene, turisti, quando passerete nuovamente di fronte. Guardateli. Anche se non ci sono sopra le candeline, sono una grossa torta colorata, a ripiani, con solchi verticali scavati nei loro dorsi laterali. Qualcuno con la ruspa e con l’intento buono della bonifica, ha cominciato a smembrare di qua e di là, deturpando il loro sguardo perfetto, l’integrità della loro esistenza costruita senza mezzi meccanici: solo le mani ed i rivoli di sudore degli operai in azione.
Per favore, non tocchiamoli più, non distruggiamoli! Loro sono il nostro monumento nazionale innalzato con fatica davvero pulita.

Arrivando presso quelle rovine austere che ben sapevano da sole e da sempre di che vantarsi e a chi erano appartenute, mi sono fermata un attimo, solo per respirare forte. Non potevo spendere altre energie, dovevo trattenerle. Abbracciando con forza tutto ciò che era stato mio e che ancora riconoscevo in quella veste, dopo lo sgomento iniziale mi sono quasi inginocchiata per guardare più da vicino. Ecco, io cercavo le mie pietre che ormai non avevano più, in quel grosso cumulo immobile e serio, il loro giusto posto. Eppure, in quel silenzio, la loro voce emergeva chiara da tutte le parti. Le pietre robuste della mia casa, per quanto disuguali per grandezza, dissimili per colore e consistenza, avevano perduto la loro collocazione, l’altezza, l’angolatura. La nobiltà della facciata giaceva come morta di fronte a me che dentro quelle mura larghe avevo visto nascere me stessa e tutti gli affetti.
Quel cumulo non aveva perduto la sua dignità, non aveva seppellito niente di ciò che, dentro, sentivo ancora nitido e vivo.
Con la brama di un affamato, ma anche con la certezza di trovare, io cercavo lì i miei sassi conosciuti che avevano avuto ed ancora avevano con me, un passato comune ed un’intesa scritta. Cercavo in quei sassi i tratti lasciati dalla mia scrittura a matita, incerta e ancora indefinita, guidata da un animo innocente scevro da alterigia e malizia. Ero lì alla ricerca di pietre da abbracciare. E non erano quelle che vedevo di fronte a me. Non aspettavo di vederle a prima vista, di ravvisarle subito in quelle che per gioco, per studio e per amore, avevo considerato e scelto nella mia infanzia. Le dovevo trovare ancora e per questo continuavo a cercare.

Stavo al di là dell’arco d’ingresso alla casa, avrei voluto toccarlo. Sentivo brama nel cercarlo dove non era più ma, sacro, attraversava la mia memoria in quell’atmosfera che percepivo profonda, attorniata dai resti delle cose che avevo amato. Non ero disperata nè spaurita perché la presenza delle mie cose, lo spirito dei miei cari, e l’appartenenza alla casa, mi sorreggevano. Sentivo dentro il senso positivo del potere buono che non nuoce, un potere che padroneggi e che ti appartiene perché è di gioia. Gli occhi non mi bastavano più per carpire e custodire le immagini che conoscevo, le mie. Le volevo proteggere così come avrei voluto fare con me stessa. Ho chiuso ancora una volta gli occhi ed ho aspettato il vento che continuava ad aiutarmi a scoprire.
C’era stato dietro la casa, verso la montagna di minerali, un muro largo che nel tempo e col concorso della pioggia aveva liberato dalla malta che le univa buona parte delle pietre che lo tenevano in piedi. Le pietre evidenti e levigate, continuavano a stare insieme.
All’epoca avevo cominciato a ritenerle prima utili e poi ad amarle davvero dato che erano diventate la lavagna, non solo virtuale, della mia memoria.

In famiglia si parlava l’italiano ma, quando capitava di sentire la lingua sarda e non ne capivo il significato, andavo di corsa verso quel muro per scrivere su quelle pietre quello che non volevo dimenticare.
Allora ero bambina e non avevo un vocabolario di lingua sarda. È così che, per tanto tempo e fin dove consentiva l’altezza della mia età, ho riempito le pietre con la mia scrittura incerta come le parole che non conoscevo e che trascrivevo secondo l’eco che avevo percepito. Nei mia grafia di bambina ho riscontrato alcune differenze con quella di oggi anche se i tratti e l’inclinatura hanno mantenuto lo stesso grado e la grandezza delle consonanti si è discostata un po’ rispetto all’apprendimento dei primi anni di scuola e di vita. Tutto col pensiero era a galla e presente, persino il buon odore di minestra antica con i legumi e le bietole di casa, i limoni di un albero generoso che produceva frutti giganti, la datura che attirava le api e inebriava i calabroni che, a sera, cadevano addormentati, ubriacati da quel profumo pungente. Tutto era lì, presente e vivo, ma fermo all’epoca precedente. Solo il mio corpo di oggi era cresciuto rispetto ai ricordi dove io cercavo quelle pietre, le mie pietre. Lì avevo scritto “scrissorgiu, incungia, e, tutto attaccato, sabirdia (e pensavo che volesse dire colore verde; più tardi ho scoperto che sa birdia è una realtà difficile e di verde non ha niente), su malufai, su bonufai, sabettu, sabingia, ingurti, tesinantai…”

Traduzione:
Scrissorgiu: tesoro nascosto
Incùngia: raccolto, inizio dei lavori di raccolta del grano o della paglia. In genere si fa una festa.
Sa birdia: la matrigna, in senso molto negativo
Su malu fai: il comportamento dei malvagi
Su bonu fau: operare il bene
S’abettiu: Insistenza, discussone polemica
Sa bingia: la vigna
Ingurti: ingoiare (anche per il dolore)
Tesi nantài: dimostrare la verità, spiegare una situazione complicata

Un insieme di parole antiche, suoni sconosciuti che non sentivo spesso e che ritenevo appartenessero solo ai grandi. Racchiudevano invece messaggi d’amore e di vita espressi in un’altra lingua che non utilizzavo e che sentivo di rado ma ne ricordo il tono, il suono, il racconto delle stesse storie nelle quali erano state inserite le parole. Ricordo gli atteggiamenti del corpo, gli sguardi e la mimica dei visi che pronunciavano parole per me incomprensibili. Capivo però il reciproco assenso di chi le proferiva e di chi le ascoltava: provavo meraviglia e sgomento per quella specie d’intesa che scaturiva dal risultato della pronuncia di quanto era stato detto. Ricordo che, spesso, l’assenso o il contrario erano evidenti nel viso e nell’atteggiamento del corpo già prima che le frasi fossero terminate. La partecipazione era evidente e scontata ed il pensiero espresso fortemente condiviso. Mi piaceva questo tipo di parlata e di gesti e mi chiedevo se anch’io, da adulta, sarei riuscita ad esprimermi così. Ho colto più tardi, proprio per averlo tenuto stretto dentro e sulla lavagna di quelle pietre, il ricordo di oggi che mi lusinga e mi appartiene tutto.

Io cercavo il mio vissuto non per tornare indietro e soffrire, come in ogni caso stava succedendo ma per godere ancora del mio passato visto da vicino e ritrovare le mie pietre che mi parlano, per rileggerle e ancora custodirle. Sapevo già di quel passato che, indistruttibile, era al di sopra di tutto. Perché più voci si ergono per affermarne la cancellazione? Il passato sono anch’io, con i miei occhi ancora lucidi al sole che mi permettono di vedere ciò che ho dentro e fra le mani, mani che per gratuita eredità ritrovo abili e capaci e che con l’aiuto del vento mi hanno aiutato a cercare per trovare.


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