Racconto premiato di Maria Chiara Firinu

Con questo racconto è risultata 8^ classificata ex aequo – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


La Boema

Era alta alta e camminava veloce 
quella signora che avevo visto 
per la prima volta quando ero bambina. Era stato in occasione di una visita al paese di mia nonna. Vedendola passare mi aveva colpito subito quel suo corpo diverso da quello delle donne che conoscevo e che vestivano il costume sardo. Lei aveva fretta e con quelle gambe lunghissime arrivava in un attimo alla sua casa quando ritornava dalla miniera.
Al paese la guardavano un po’ strano perché portava le gonne corte proprio sopra il ginocchio quando ancora non si parlava di certe mode che lei non avrebbe potuto né copiare né condividere dato che viveva col poco che guadagnava da un lavoro difficile. Di fatto la sua presenza in quell’agglomerato di case in mattoni crudi era proprio un’anomalia se si pensa ai motivi che le avevano imposto quella sistemazione. La colpa era tutta della guerra, del bombardamento in quella città di mare dove lei aveva perduto il giovane compagno e non era riuscita ad avere più notizie del più grande dei suoi figli.
Si parlava di lei e, anche se molto più tardi qualcuno dovette correggere il mal detto, al momento dell’arrivo le critiche e gli argomenti erano inesatti e inopportuni.
Per via della sua origine slava l’avevano soprannominata “la boema” ma qualcuno, per via della sua statura, si spingeva fino a dire “tzia Maria longa”. Così lei si ritrovava, senza richiesta, ad essere individuata con due appellativi diversi. Di tutto ciò non si adombrava ma, in onore alla sua terra, le sembrava più logico che la chiamassero “la boema”.

Dopo il bombardamento, spaventato ma vivo, ritrovò accanto a sé solo Toto che aveva due anni e cominciava a crescere lungo lungo come lei. Cercò il suo uomo e non trovò nemmeno Berto, l’altro figlio che immaginò tra le braccia del padre impegnato a tornare da lei.
Tra gli sfollati chiese pane, con i suoi vent’anni e una nuova vita in grembo. La chiamò Lisa. Cercò, aspettò ancora un poco in quella città distrutta e persa ogni speranza di ritrovare quelli che mancavano, prese in mano la sua vita, da sola. Diede in pegno la sua catena d’oro ad un pastore che, col carro trainato da buoi, la trasportò in una località mineraria dove avrebbe potuto lavorare.

Così all’alba, lei partiva con quelle sue gambe lunghe per raggiungere la miniera. Attraversava il paese piccolo e sconosciuto, lasciava Toto e Lisa nell’unico letto che dividevano in tre e per dodici ore stava in piedi a cernire il minerale. All’inizio fu difficile. Il martello per scalfire (mai usato), blenda (molto preziosa), smitsonite (bellissima), calamina (verde), calcite (bianca ma anche fragile): questa da una parte, quella da un’altra, il resto nel secchio perché pietra comune. I colori l’aiutarono a distinguere il valore e la consistenza di quei minerali ma, in ogni modo erano sempre pietre, senz’anima. Mal pagata come le altre compagne di lavoro, dignitosa e coraggiosa nel suo affrontare la vita, muoveva abilmente le mani. Era diventato il suo lavoro, mai immaginato; non conosceva la realtà della miniera né la fatica di uomini e donne in miniera dove, in tempi più antichi, si erano consumati sfruttamenti gravi e condanne fisiche.
Ora tutto era poco importante rispetto al pane ed ai figli che l’aspettavano a casa.
L’ambiente era ostile. Qualcuno pensava anche ad alta voce e l’accusava d’aver tolto un posto di lavoro a gente del luogo, non le perdonava tre figli ed il mancato abito da sposa, criticava le sue gonne sopra il ginocchio. Ma lei a vent’anni, nel suo paese, non usava il costume, lo scialle e il fazzoletto in testa.
Lavorava lì, costretta dalla fame, obbligata dallo scorrere dei giorni che meglio non aveva potuto scegliere.
Il sorvegliante di turno controllava il lavoro e la guardava.
Cercava il suo corpo giovane dove i segni delle gravidanze non erano rimasti e, convinto che fosse un suo diritto, pensava di sottometterla facilmente. Lui gridava e minacciava senza riuscire mai ad intimidirla. Le sue lunghe gambe, il bel profilo, i lunghi e foltissimi capelli erano certamente invitanti ma lei non si guardava più e, senza lasciare spazi alla solitudine avanzava col coraggio e l’onestà infinita che le permettevano di guardare i figli negli occhi. Una sera il sorvegliante prepotente la raggiunse a casa. Lei mise a letto i figli, aprì la porta e lo rincorse con lo spiedo da cucina. Pensava senza tregua al suo uomo perduto sotto il bombardamento e al suo Berto che osava immaginare felice accolto da un’altra madre.
Il dolore esisteva a casa, in miniera, nella solitudine della notte. Si confidava con pochi ma parlava sempre di lui. Lo cercava negli altri figli e talvolta metteva da parte qualche spicciolo in attesa del ritorno.

Un giorno, come poté, scrisse una lettera ad un giornale, parlò col parroco e chiese aiuto per fare una ricerca. Non ci furono risposte ma in nome di quel legame forte che unisce madre e figli, la Boema continuò ad aspettare convinta che prima di tornare in Cielo per riposarsi, lui sarebbe apparso.

Intanto un altro motivo di dolore si era affacciato nella sua vita:
Lisa non parlava.
Lei aveva pensato ad un eccesso di timidezza anche se ricordava con precisione che il giorno della nascita non aveva emesso alcun vagito. “Il bombardamento” disse il medico, anche se voleva dire trauma, una parola che la Boema non aveva mai sentito. Capì, solo e subito, che avrebbe fatto di tutto per cambiare quello stato di cose.
Così la sera, il ritorno dalla miniera era sempre più veloce dell’andata. Scendendo da quell’altura scorgeva subito il paese, in basso. Passava vicino alle case dei minatori e allo spaccio della signora Adelina, poi il ponte, il fiume con le acque maleodoranti della laveria dei minerali ed era a casa. Le piaceva superare quel fiume che non assomigliava alla sua Moldava ma, ogni volta che lo vedeva pensava alla sua casa in Boemia, a sua madre. In quei momenti si sentiva avvolgere da un richiamo forte come quello che aveva avvertito allora, quando innamorata, era andata via con tanti sogni.

A casa, dedicava pochi minuti a se stessa ma il resto del tempo era per Lisa. Le insegnava, con tutte le sue forze, come svegliare le corde vocali che dormivano un sonno profondo dentro un corpo che cresceva bello, slanciato come il suo, tanti capelli in un viso degno di un ritratto.
Lei e Lisa, sedute una di fronte all’altra. Lei spiegava quel poco che sapeva, apriva e chiudeva le labbra, a voce alta, modulando le parole ad una ad una; cercava di fare piccoli disegni su brandelli di carta straccia, scriveva vocali e consonanti; a volte urlava per diluire un po’ dell’amaro che sopportava, per la stanchezza e per i risultati che le sembravano pochi. Così quando si sentiva vinta minacciava la piccola per costringerla a risponderle. “Pane, devi dire almeno pane se non vuoi dire mamma!” Poi, pentita, piangeva lacrime che doveva asciugare da sola.
Per tanti mesi Lisa sembrò solo ascoltare. A sua madre invece tornava indietro un silenzio che sembrava non avere fine.

Un giorno Lisa riuscì ad emettere una specie di rantolo, un suono goffo e sconosciuto. Maria la Boema non si perse d’animo: l’insistenza delle sue lezioni diventò concreta anche se la voce di Lisa rimase piacevolmente roca e dolcemente modulata per tutta la vita. Frequentò la scuola, divenne madre, anche lei attenta, alta, con un corpo bellissimo.
Arrivò il tempo della pensione.
La miniera per festeggiare un anniversario importante della sua fondazione raccolse in un libro le esperienze dei minatori, delle cernitrici di minerali, diverse fotografie.
Un giorno un bel ragazzo in divisa cominciò a bussare a tutte le porte del paese dove abitava la “boema”. Chiedeva notizie di una donna molto alta che aveva lavorato alla miniera. Era Berto che, venuto in possesso del libro aveva riconosciuto sua madre in una fotografia di gruppo. Era l’unica a non avere lo scialle e il fazzoletto in testa ed era bella come la ricordava. Salvato da quel bombardamento era stato portato al Nord ma i suoi tre anni non gli avevano permesso di spiegare. Rimase con sua madre per qualche giorno poi tornò nelle “sue” montagne. In quei pochi giorni, seduta su una sedia bassa, lei aveva pianto, ammirandolo.

***

Dopo la miniera continuò a lavorare nel suo giardino piccolissimo e verde dove spiccavano rose gialle, fichi ed una serie infinita di ari bordeaux, il suo colore preferito. Numerosi gatti le facevano compagnia.
Ad un certo punto la “boema” si vestì di nero: indossò le calze lunghe a piccole coste e le arrotolò al di sotto del ginocchio senza usare elastici. Nascose i suoi folti capelli diventati lunghissimi in un fazzoletto stretto a triangolo dietro la nuca. Bellezza e onestà, erano rimaste intatte. La statura non si modificò con gli anni e conobbe i nipoti alti come lei e con i tratti slavi.
Ogni tanto i suoi occhi verdi diventavano lucidi. Berto le scriveva ma il suo uomo non tornò mai più.

A suo modo, con quel cambiamento, dichiarò in silenzio la sua vedovanza e smise di aspettare un ritorno.


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