Con questo racconto Maria Chiara Firinu ha vinto l’undicesimo premio all’edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar
SOGNANDO
Su quella spiaggia lunghissima, odorosa di alghe e di sale, una figura umana avanzava lentamente come se fosse in compagnia di un’altra presenza. Quel suo incedere lento e sicuro non sembrava essere ritmato da movimento di piedi ma piuttosto da volo di pipistrello, nero per l’aspetto, poco elegante nello spostamento a causa di ali prive d’ossa cave.
Tuttavia, in totale silenzio, avanzava con prepotenza per appropriarsi di spazio e di potere verso le persone che si trovavano su quella striscia di terra che il mare lambiva da secoli. Piccole onde arrivavano a destinazione e scomparivano lasciando spazio alle successive che, ingrossate dal vento, indossavano un vestito bianco e schiumoso. Anche in quel momento quel ritmico gioco d’acqua continuava a ripetersi senza che la presenza strana ed indefinita potesse impedire il compimento del normale e scontato ordine delle cose.
Con il suo aspetto terribile e sconosciuto avanzava incurante del disagio che poteva procurare nelle presenze umane, vive, lì esistenti. Il suo sgradevole incedere, da animale notturno, voleva nuocere o insinuare nei presenti paure ed angosce?
Voleva accusare per far scaturire pentimenti e porre la parola fine?
Un vento leggero muoveva la lunga gonna di Matilde che, ferma sulla sabbia, si sentiva in colpa per qualcosa che avrebbe voluto considerare rigorosamente suo ma che, di fatto, non le apparteneva. Combattuta, rifiutava di parlarne anche con se stessa ma non la sfiorava per nulla la possibilità di una rinuncia. Rifletteva, avvertendo ugualmente un certo disagio che la sua sensibilità non poteva eludere e, per quanto non volesse, quel suo tormento era diventato piacevole compagnia.
Quell’apparizione inaspettata, quel confronto improvviso le fecero esplodere dentro sensazioni di dubbio e malessere che avrebbe voluto considerare inesistenti.
Pur solo a guardarla la figura non nascondeva niente: né se stessa né lo scopo dei suoi propositi e senza difficoltà mostrava il viso deturpato e consunto dalla morte dei tessuti e dalla mancanza del sangue vitale.
Quello era il suo aspetto: strano, accusatore, sinonimo di potenza, foriero di paura.
In un turbinio d’inquietudine Matilde capì che il suo campo era stato invaso e cominciò a tremare. La sua voce scomparve e con lei il coraggio di parlare in sua difesa e di chiedere, per quanto in torto, di essere compresa.
Il rimprovero, percepito ma non udito, sembrò arrivarle diritto al cuore dimostrandole, in un solo istante, che le altre persone presenti in quella spiaggia non potevano né avevano motivo di essere coinvolte in quella storia che riguardava solo lei.
Il suo compagno era lì e, per quanto la sua presenza fosse sicurezza e rifugio, non lo vedeva.
Avvertì un brivido ed un senso di smarrimento che si premurò di colmare subito. Raccolse le schegge di coraggio che andava cercando da che le mancava il supporto affettivo di sua madre che fisicamente non c’era più. La invocò perché l’aiutasse; era sicura che la vedesse sempre e che la confortasse al momento opportuno.
Raccolse anche gli altri ingredienti validi e vitali che il suo compagno cercava di infonderle per ricominciare a vivere. Una vecchia storia, infatti, aveva lasciato solchi profondi che avrebbe voluto ricoprire per sempre.
Lui faceva di tutto per liberare la sua anima viva, prigioniera di un insieme di cose che aveva amato ma che al momento non avevano più nomi precisi, ed era felice per quel dono che non aveva chiesto e non immaginava di ricevere. Lei non aspettava proprio niente ma, al momento, l’amore che provava, le impediva di rinunciare a quell’esistenza che, era vero, non le apparteneva, ma stava cambiando piacevolmente la sua vita.
Il suo volto aveva assunto di nuovo, dopo tempo, le sembianze della gioia che se proprio non poteva essere definita felicità assegnava ai suoi giorni ore di luce e di sole.
Il suo corpo si era modificato, snellendo, per piacersi e per piacere. Coloro che le stavano intorno avevano notato ed apprezzato la sua metamorfosi. Tutti la trovavano bellissima, con gli occhi aperti e sognanti, senza trucchi, senza inganni ed aggiunte inutili e lei aveva cominciato a vivere in un’altra dimensione.
Ne aveva finalmente diritto.
Un temporale l’aveva svegliata da un sonno profondo privo di sogni ed ebbra ed incosciente si era lasciata travolgere ignorando l’esistenza della ragione per lasciare spazio ad un delirio inaspettato e sconosciuto.
Che cosa voleva distruggere quella presenza sulla spiaggia?
Cercava lei.
Matilde ne era sicura senza avere dubbio alcuno.
Quella figura non la guardava perché gli occhi in quel viso non esistevano più; non le parlava perché la bocca era completamente cancellata da quella faccia. Al posto delle guance appariva nitida una sagoma di mascella scheletrica, marcata con tratti decisi. Ricoperta di tessuto, nel suo insieme, quella faccia aveva certo incarnato una bellezza femminile non comune. Le sue belle mani, grandi ed espressive, non si muovevano per indicare, con dei gesti, soluzioni a situazioni e cose.
Eppure erano lì per rimproverarla. Matilde le guardò con attenzione, ormai era molto vicina a lei. Notò che la mano sinistra della figura indossava un anello d’oro al centro del quale, il rubino con le perle avevano perso la naturale lucentezza ed apparivano spente. Riconobbe le sue in quelle mani e in quello il suo anello. Lo portava al dito da poco tempo ma il suo brillava e il bagliore dello stesso cambiava, aumentando, secondo le diverse fasi della luce. Muovendo in continuazione le mani lo ammirava godendo di quell’alternanza di splendore che si modificava, in crescendo, come il suo stato d’animo, al momento felice. La figura, a parte l’incedere, non faceva alcun rumore ed appariva fissata in un ruolo rigido, definito come il suo intento. Pur volendo respingere quella sorta di aggressione, Matilde capì, senza via di scampo, di essere, in quella spiaggia, l’unica depositaria delle attenzioni di quella presenza. Non lo ritenne un privilegio, ma, al contrario odiò quel tipo di predilezione. Non voleva discutere con nessuno del suo amore. Non era suo ma lo amava e questa volta non avrebbe sopportato intromissioni o sconti ad opera di altri. Questa volta lo avrebbe difeso con tutta l’energia che lo stesso le dava. Avanzando alla stessa maniera, regolare ed uniforme, ma soprattutto silenziosa, Matilde notò che la figura femminile, totalmente priva di sentimenti, indossava una lunga gonna a fiori, un gilet di pizzo nero ed una collana di perle. Spontaneamente si portò le mani al collo come per accertarsi che la collana che amava da sempre fosse su di lei. Non l’aveva. Si stupì e si preoccupò ancor di più nel vederle addosso un completo che aveva confezionato per sé e che, data l’eleganza, usava solo di sera. Di fatto non esistevano stonature in tal senso perché il sole era calato da un pezzo quando si imbatté in quella presenza vestita dei suoi abiti eleganti e dei gioielli che trattava con riguardo. Sgomenta e perplessa, continuò a riflettere e a porsi silenziose domande pervase da malessere, decisa comunque a difendere il suo amore anche da presenze scomode e sconosciute come quella che aveva di fronte. Per un attimo pensò che non fosse proprio sconosciuta. Questa volta la vedeva in faccia, altre volte l’aveva sentita nel suo intimo e, alternativamente, secondo l’umore e le situazioni, l’aveva anche ascoltata. Doveva ammettere che in maniera più o meno turbolenta, si era sempre fatta sentire, talvolta con insistenza fino ad essere vincente, ma non l’aveva mai cercata. Perché si era presentata ora? Quali i suoi propositi sugli altri, su chi era veramente felice? In quel momento, sentendo aumentare il senso di disagio e quasi di panico, pensò che fosse arrivato il momento di chiedere aiuto al suo compagno, almeno con lo sguardo. Lui non era lontano e continuava ad ammirare l’ambiente marino nuovo e sconosciuto dove urginee marittime e ginepri nani allungavano le radici per dissetarsi all’acqua salata. Radici nodose, contorte, seppellite qua e là dalla sabbia o dall’acqua, ogni tanto fuoriuscivano mostrando la loro parte levigata dal sale, il dorso sbiancato dal sole, la corteccia grigia screpolata e rinchiusa in se stessa come boccoli di capelli della fine del secolo. Radici che portavano lontano; con la loro forza vitale avevano raggiunto la terra collinosa per affondare in un’acqua più tranquilla e più dolce. Matilde si sentì come loro… forte. Fu tentata di voltarsi ma si trattenne persuasa che il suo amore dovesse restare protetto e all’oscuro di tutto. All’improvviso le tornò in mente Euridice e si sentì Orfeo. Decise di non rischiare e di risolvere da sola. Teneva troppo al suo amore e ormai era convinta che la “figura” volesse punirla per la sua appropriazione indebita, rimproverarla per quella scelta alla quale non era ancora in grado di rinunciare. Infatti si stava appropriando di tutto: del suo corpo, dei suoi abiti, dei suoi gioielli e, ancora non paga, avrebbe voluto derubarla del suo amore pulito. No! Matilde, come spesso succede, non si sentiva in colpa. Amava e basta e tanto le dava la libertà di perdonarsi. I bambini che aveva portato con sé per giocare all’aria aperta e avere la loro compagnia, urlavano felici. Mentre correvano, si lanciavano gusci di bianche conchiglie morte, scalfite dai continui abbracci del mare. Il mare, in quello stesso momento, ignorando presenze vere o presunte, intrecciava giochi con le vite del suo profondo, forgiando ininterrottamente rami di corallo, sirene di rocce levigate e spettacoli d’alta marea in accordo con la luna. Né lui, né i bambini si accorsero di quella presenza che faceva paura e che era apparsa per giudicare e per punire qualcuno. Matilde, pur felice, sapeva d’essere quel qualcuno e sopportando da sola una prova che le sembrava ingiusta ed esagerata, capì che il suo bisogno d’aiuto diventava immediato. La figura aveva aumentato il passo. Cercò il suo compagno. Lo sapeva a due passi da lei, attratto dalla bellezza di quella spiaggia, dal canneto basso e tremulo e dalla foresta dei ginepri protetti e protettivi, immobili in quel momento ma contorti ed umiliati dalla furia del vento invernale. E ancora una volta si gridò dentro: “Sarò forte come loro, io amo”. Le nuvole pallide, padrone di quella parte di cielo, ancora incerte sulla stagione che stava cambiando, guardavano le piccole onde del mare, testimone e teatro di una scena nella quale Matilde si sentiva purtroppo protagonista senza ricevere degli applausi. Non osò chiamare il suo compagno. Sapeva che pur riuscendo a tranquillizzarla si sarebbe preoccupato per lei. In una rapida successione di stati d’animo e di sensazioni scomposte, si comportò come se fosse sola, come se quell’amore non esistesse e prese la decisione con se stessa. Resistette all’impulso di coinvolgerlo e fu contenta che la cosa spiacevole non lo riguardasse. Voleva proteggerlo a tutti i costi ma desiderava anche essere protetta, custodita e al riparo da perdite affettive. Si rese conto in quel momento di quanto fosse grande la sua fragilità e si sentì simile al cristallo ma, del cristallo aveva anche la trasparenza e pertanto non si sentiva né colpevole né ladra. Cercò forza in quel sentimento e rimase aggrappata ai sogni proibiti e felici di quella nuova stagione. Pur con fatica, decisa a tutto pur di non perdere, stava per proporre la sua rivolta quando un sussulto improvviso la scosse, svegliandola. L’alba cominciava ad entrare dalla finestra che il caldo estivo aveva tenuto aperta durante tutta la notte. Stanca e madida di sudore Matilde si guardò le mani dove il suo anello brillava con tutta la sua luce. La sua bellissima gonna a fiori ed il gilet di pizzo erano poggiati sul baule ai piedi del suo letto. La coscienza era andata via, molto lontano, a depositare i suoi rimproveri da un’altra parte. Ma il suo compagno era lì, vicino a lei, tenero e sensibile, per raccontarle ancora tante fiabe d’amore.
Con questo racconto Maria Chiara Firinu ha vinto il settimo premio all’edizione 2006 del Premio Marguerite Yourcenar
I MELOGRANI
«Facciamo un giro in giardino», fu la sua proposta. Lui accettò di buon grado e attratto da quella bellezza sembrava che aspettasse solo quell’invito. Olga accoglieva nella sua casa una nuova inaspettata amicizia che aveva bussato alla porta del suo ufficio solo una settimana prima. Il suo incarico d’impiegata non le dava grosse soddisfazioni né appagava le sue giornate da quando un intoppo con la salute l’aveva obbligata a lasciare il precedente impegno: un impegno che le riempiva ogni minimo spazio, occupava tutti i suoi pensieri e le procurava delle preoccupazioni che chiuso l’orario contrattuale non avrebbero dovuto avere luogo. Ma lei era fatta in quel modo ed amava occuparsi, senza lasciarsi degli spazi personali, di chiunque potesse trarre da lei un qualsiasi beneficio. Questo l’appagava anche se ne derivava un coinvolgimento emotivo. Non era raro, infatti, che dimenticasse la sua esistenza e le sue esigenze se erano presenti quelle degli altri. Il destino però aveva in serbo qualcosa anche per lei. Il destino si comportò come lei si comportava con gli altri: si preoccupò e si occupò di lei. Quel giorno, però, nonostante la sua fibra forte, si sentiva stanca. Aveva ascoltato già troppe persone e quella mattina, per quanto strano, non avrebbe voluto dire “avanti”, ma “basta” e rimandare, possibilmente a molto tempo più avanti, quell’incontro. Sembrava che le sue risorse fossero terminate già in anticipo. Del resto non era stata lei a proporre quell’appuntamento ma, in quanto addetta alle pubbliche relazioni doveva occuparsi di certi problemi per risolverli con un interessamento efficace. Un’ora dopo quel colloquio che avrebbe volentieri rifiutato, Olga non riusciva più a trattenere i pensieri nella sua testa, rincorreva ogni parola detta, cercava di ricordarla con precisione, rimpiangeva di non aver registrato la conversazione, desiderava che il colloquio non fosse ancora avvenuto per godere di nuovo di quella chiacchierata. Le parole di quell’incontro cominciavano ad agire sui suoi neuroni come un fertilizzante che, ricco di tante sostanze benefiche, rinvigorisce le piante esili e fa sbocciare improvvisamente fiori profumati con colori accesi. Quelle parole erano una musica che già le mancava. In un istante sentì sgorgare una forza nuova, indefinita e forse indefinibile. Un’inquietudine strana cominciò ad appropriarsi del suo modo normale di agire sulle cose e di vivere gli avvenimenti; il suo metodo d’azione, particolarmente organizzato, sembrò sfuggire e scomparire lontano da un’abituale e serena ponderazione. Abitualmente non perdonava i suoi errori e la rigidità che le impediva di commetterne, sembrò cadere per accogliere un sentimento diverso, più tenero di quello che sentiva quando cercava soluzioni a problematiche materiali e quotidiane proposte dal suo lavoro. Le sembrò, cosa strana ed assurda, di volersi bene. Ad un tratto le venne voglia di cantare, una vecchia abitudine che gli eventi della vita le avevano fatto perdere un po’; le venne voglia di chiudere la porta e lasciare fuori i problemi che, ancora una volta, l’avrebbero coinvolta. Le venne voglia di correre fuori per sapere dove fosse andato il giovane uomo che poco prima le aveva parlato con la delicatezza e l’eleganza di una vanessa. Che cosa le aveva detto di tanto speciale? Lui era andato da lei solo per cercare soluzioni a qualche problema di lavoro. Che cosa aveva detto o fatto d’interessante tanto da sconvolgerla? Tra l’altro ricordava che quel giorno non aveva valorizzato il suo viso con del trucco, né era vestita in maniera elegante com’era solita fare. Il rapporto diretto col pubblico le imponeva maggiormente, per quanto fosse un comportamento innato, questo tipo di presentazione. Quel giorno aveva omesso regole estetiche e con un po’ di libertà si era presentata acqua e sapone. Si rimproverava di non aver raccolto i suoi lunghi riccioli nel solito fiocco dorato e brillante e continuava a sgridarsi, pentita, di aver indossato per l’ennesima volta un abito che non ne poteva più. Tutto questo la metteva a disagio anche al solo ricordo. Il suo abituale vestire elegante, insieme ad un aspetto curato e gradevole, le davano una sicurezza che ricordava di non aver avuto quel giorno. Continuava a dolersi di questo con la paura che ciò che sentiva dentro potesse essere vanificato dall’aspetto trasandato. Dov’era andato? Non era passata neanche un’ora ma lui faceva già parte della sua vita. Non sapeva se l’avrebbe rivisto ma già lo aspettava e già era tardi. Capì che cosa può essere un uragano, non per la potenza distruttrice ma per la forza. Cercò di difendersi da ciò che provava, dall’affollarsi di pensieri e desideri e decise di cancellare tutto e di tenere stretta la sua libertà messa in gioco dalla tentazione di poco prima. Olga odiava i legami stretti; il ricordo di una vecchia storia le imponeva di divincolarsi per paura di farsi avvolgere da catene o farsi di nuovo del male. Si era imposta e si imponeva di non commettere errori per non ferirsi ancora una volta. Questo la spaventava a tal punto che la solitudine le sembrò, ancora una volta, l’unica compagnia giusta. Ma la sensazione magica dalla quale voleva essere abbandonata, continuò a farsi strada e la voce del giovane uomo ricomparve. Accoglierlo non fu facile come voltare la pagina di un libro e, inquieta e scombinata Olga afferrò il suo brogliaccio muto e cominciò a depositarvi il suo stato d’animo. «Perché sto sognando? È necessario che mi svegli da questo sogno tardivo e inaspettato ». E con paura analizzò i tanti possibili sviluppi, un finale non desiderato, una delusione in agguato, e ciò che non avrebbe voluto più sperimentare. Cercò un paravento, inventò cavilli inutili per imbrogliarsi e per punirsi e tentando tutta una sorta di proibizioni cominciò a scrivere per porre punto ai suoi pensieri. Scollegata dai divieti, scrisse il contrario esatto di ciò che avrebbe voluto imporre a sé stessa: Amo questa primavera che mi scalda.
Avevo chiuso tutte le porte per non farla entrare. Credevo che per me fosse una stagione già passata ed il suo arrivo mi è parso stonato ed inopportuno. Ma non ha ascoltato ragioni e si è fermata vicino a me. Ho provato ancora a lasciarla fuori perché andasse lontano ma è entrata ignorando tutte le mie resistenze. Si è fatta avanti delicata e decisa, per raccontarmi parole bianche delle quali non ricordavo più né il suono né il canto. La memoria di un’eco buia e profonda,
ormai lontana, mi teneva sveglia per impedire ai miei occhi
di cercare un’altra primavera. Con sé ha portato un temporale che mi ha dato fremiti di dolore e di paura. Anche per questo, adesso, mi resta vicina. Continuo ad ascoltare il canto delle sue parole che si adagiano uniformi, su di me, per riempire tutti gli spazi vuoti e regalarmi quiete. Amo le sue pause, i suoi silenzi e i suoi caldi abbracci dei quali non posso più fare a meno. Amo la sua morsa gentile che mi stringe per liberare la mia anima sgretolata da antiche ed inutili amarezze. Amo immaginare il calore più caldo che mi avvolgerà, forse,... col tempo,... forse, forse…
Il giardino era fiorito in armonia con la primavera appena insediatasi e lei godeva di tutti quei colori che esplodevano in petali di rose, in momentanee fioriture di cactus e nel fuoco acceso delle corolle dei fiori dei melograni. «Adoro i melograni», disse il giovane amico; «adoro dipingere il rosso dei loro fiori ed il granato dei frutti che arriveranno». E, passeggiando, sfiorava le foglie dei loro rami come se appartenessero già ad un quadro. Olga ascoltava ed approvava e si ritrovò ad amare di più quegli alberi che, da sola, aveva piantato tanti anni prima. Adesso erano stati giustamente considerati e, immortalati su un quadro, sarebbero esistiti per sempre. Preoccupata di perdere gli affetti, Olga viveva con l’ansia del futuro. Ancora non riusciva a rassegnarsi alla perdita di sua madre che le aveva dato l’affetto più sicuro e più giusto della vita. La sua presenza non la supportava più e lei cercava certezze e respiro in chi le stava intorno. Era incapace di vivere serenamente nel suo ricordo e anche l’amore che provava diventava dolore o sofferenza. Il tempo, per una volta, sembrava poco medico nel sanare quella ferita, eppure, in qualche attimo riuscì a vedere il sorriso incoraggiante di sua madre felice per la sua felicità. Il destino o chi per lui, le aveva portato quel giovane amico vestito di tante doti spirituali che andavano ad amalgamarsi con le sue. Un’intesa emozionale che solo la poesia di Neruda avrebbe potuto trasformare in versi. Ubriaca, Olga gli faceva sempre le stesse domande: «Ci sarai domani? Ci sarai quando cadranno le foglie? Ci sarai nei giorni della cometa?». «Ci sarò. Voglio vedere i frutti dei melograni. Vedrai, staremo vicini a queste piante; il sole sarà tiepido e vedremo cadere le foglie. Sarà ottobre o novembre e, protettivo, ci abbraccerà l’arcobaleno. I melograni ci offriranno frutti maturi e il cielo ci custodirà con maggior forza. Non temere, ci sarò. Dipingerò altri rami e tanti frutti… ci sarò». Ma lui aveva un segreto da ricordare ed un appuntamento al quale non avrebbe voluto presentarsi. Il sole, materno e benevolo regalò nuovi incontri spirituali caldi di intesa. «Ti amo perché sei trasparente e chiara», le diceva con voce serena e musicale, fatta di pause ascoltate dal silenzio, «ti amo per la tua ingenuità pulita e colorata solo di bianco; ti amo perché sei come vorrei che fossero tutte le creature del mondo che non conoscono e che non vogliono il male perché non sanno che cosa sia». Su un muro del giardino una pianta grassa serpentiforme piena d’intrecci e di grovigli si arrampicava sporgendosi verso il sole e, cercando forza e luce, espandeva se stessa. I lunghi fusti eleganti ed affusolati mostravano, a tratti alternati, delle piccole protuberanze spinose da cui fuoriuscivano turgidi ed enormi fiori bianchi simili a carciofi. La loro immobilità totale ed assoluta ostentava un’esistenza orgogliosa e superba. I morbidi e numerosi pistilli con estremità tondeggianti fuoriuscivano da una corolla candida che richiamava solo ammirazione. Olga colse il più bello e parlando con la pianta la lodò per tanta bellezza. Regalò quel fiore al suo giovane amico perché lo trasferisse sulla tela e non conoscesse così il suo appassimento.
La pianta sembrò annuire a quella gradevole proposta di continuare a vivere per sempre.
L’estate aveva portato alle piante dei melograni infiniti fiori; erano talmente numerosi che era impossibile pensare che tutti si sarebbero trasformati in frutti. Il loro destino non sarebbe stato omogeneo per quella fioritura fuori dal comune. Numerosi sarebbero caduti per terra, altri sarebbero arrivati ad una maturazione incompleta e i più fortunati avrebbero mostrato, in seguito, gradevoli frutti.
Successe così: la previsione non difficile aveva dato i risultati immaginati ed Olga era entusiasta e stupita come mai lo era stata ammirando quei fiori davvero innumerevoli.
L’autunno aveva dimostrato d’essere generoso e le piante dei melograni apparivano come cascate di frutti che, non potendo più pendere a causa del loro peso eccessivo, si adagiavano sull’erba del prato. I rami allungati come edera gigante ostentavano al sole, orgogliosi, quei frutti rossastri, quasi rotondi, resi nobili dalla corona. Alcuni, proprio per il peso esagerato, decisamente superiore alla forza del ramo, si erano già staccati e, all’impatto con la terra si erano aperti depositando un’impronta color sangue e come il sangue indelebile. I chicchi rosati, maturi e dolci, compagni compatti e inseparabili durante la crescita buia e claustrale, erano stati schizzati in diverse direzioni diventando preda di voraci formiche e di rumorosi calabroni affamati.
I rami per terra erano splendidi. Sembravano un tappeto tanto erano lunghi e ben adagiati. Ma Olga divenne cupa pensando che i frutti avevano vinto in forza ed avevano abbassato, secondo il loro volere i rami che li avevano nutriti.
Così pensava per se stessa e per il suo amore generoso preoccupata che potesse subire lo stesso destino. Una bufera d’ottobre arrivò inaspettata; durò poco ma lasciò sulle piante e su tutto il giardino i segni del suo furioso passaggio.
Olga assistette impotente al disastro che sembrava, nell’insieme, una triste cartolina invernale, in bianco e nero, dei tempi dell’ultima guerra. Come sempre riapparve il sole che con la sua forza vitale rimise in ordine ogni cosa. Ricomparve anche il giovane amico che cominciò a trasporre sulla tela quanto promesso in primavera. «Dipingerò ora», disse «anche se i frutti non sono ancora maturi; dipingerò insieme anche il tuo viso che guarderò ogni giorno quando sarò lontano». Sembrava che avesse poco tempo e molta fretta.
Un pensiero strano attraversò velocemente la mente di Olga che altrettanto velocemente lo allontanò. È vero che al suo apparire gli sembrò un po’ più magro ma addebitò ai lunghi capelli legati dietro la nuca quell’aspetto più longilineo. Non ci pensò che in quell’attimo perché la felicità non contempla né incomodi né intrusioni. Il pittore trasferì diversi tratti e colori sulla tela bianca e pose dei segni particolari per la luce e le ombre sulle quali avrebbe lavorato più avanti senza avere di fronte il soggetto. Nei giorni della Cometa Olga ricevette quel quadro che posò immediatamente sotto l’albero di Natale. Decise, per far durare più a lungo il piacere dell’attesa, che lo avrebbe ammirato insieme al suo giovane amico il giorno della festa più bella dell’anno. Attese il suo arrivo fino a sera inoltrata. Sul tardi di quella giornata, preoccupata e delusa per la sua assenza, liberò dalla carta che lo avvolgeva quel quadro ancora fresco di vernici. Commossa, indugiò parecchio ad ammirare i melograni dipinti che dalle crepe delle loro bucce amarognole ostentavano chicchi succosi auguranti abbondanza e fertilità. Ma sulla tela avevano trovato posto anche un triste Pierrot, la bambola di Olga come lei pensierosa e come tutti i suoi sogni inappagati e il suo bellissimo viso che guardava angeliche ali bianche dipinte un po’ dovunque. Nello sfondo gli occhi di lui, aperti ed estasiati, contemplavano quasi con distacco terreno, tutto l’insieme. Olga lesse la dedica vergata sul retro.
“I nostri melograni saranno qui per sempre. Le ali sono per te, ali per volare verso spazi liberi e azzurri, dove tu vorrai… più in alto che vorrai…”
Lei non aveva ancora capito niente. I melograni del giardino persero le foglie e si prepararono ad aspettare la nuova primavera che sarebbe ritornata di lì a qualche mese. Quello era un avvenimento scontato e sicuro. Le piante spoglie avevano un aspetto triste e solitario ma la certezza della loro trasformazione nella stagione giusta allontanava pensieri strani e malessere.
Per un anno Olga lasciò sempre aperto il cancello del suo giardino e aspettò che lui tornasse.
Utilizzò le ali per volare il più in alto possibile…, ma per quanti sforzi facesse non arrivò mai tanto in alto da riuscire a strappare il suo amore dal Cielo.