Chiaro scuro orme invisibili (L’Anonima sequestri sarda)

di

Maria Giovanna Casu


Maria Giovanna Casu - Chiaro scuro orme invisibili (L’Anonima sequestri sarda)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 278 - Euro 15,50
ISBN 978-8831336581

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In copertina: dipinto di proprietà dell’autrice

All’interno: fotografie dell’autrice


Prefazione

Ho scritto questo romanzo per ricordare quei tristi avvenimenti che hanno insanguinato la Sardegna e le cui vittime ancora vivono nell’immaginario dei parenti, degli amici, della popolazione che ancora attende per alcuni un cenno di vita e per altri un cero da accendere nei cimiteri.
Da sicure fonti si evince che il primo sequestro di persona risale intorno al 1477 nella Baronia ai danni di due imprenditori francesi. Rimangono impressi nella memoria la strage di Lanusei e quella di Osposidda a causa dell’efferatezza dei crimini perpetuati ai danni di una bambina prima e di intere famiglie innocenti dopo. Soprattutto nella provincia di Nuoro, dopo gli anni ’60 e ’65, dopo una frenetica corsa alla delinquenza degli anni precedenti, si è verificato un incremento pauroso dei rapimenti fino a raggiungere la media di dieci, dodici sequestri all’anno, senza contare le scorrerie notturne per rubare bestiame, per devastare casolari, per incendiare proprietà e per tenere sotto controllo interi paesi; delitti che sono aumentati in maniera esponenziale negli anni ’70, ’80. La malavita si era concentrata nell’alta Gallura a cura dell’anonima gallurese e nella Barbagia a cura di quella nuorese.
Il fenomeno, come un cancro, si espanse nella penisola, dove i pastori sardi, con la scusa di trasferire il bestiame in zone dove il foraggio era sempre presente, si organizzarono per produrre altri atti criminosi, prendendo come ostaggi ricchi imprenditori, industriali, banchieri, proprietari terrieri facoltosi. La criminalità non ha mai confini.
Le indagini portarono a poco, anche perché non sempre il numero dei gendarmi era sufficiente, e in parte perché anche la popolazione era restia a parlare. Così scrive Luigi Casalunga nel suo libro intitolato “Anonima sequestri sardi” Fratelli Frilli editori:
“Mentre tentavo di acquisire notizie in merito notavo in talune persone una palese indifferenza… Non è un problema nostro; noi siamo dei poveri disgraziati: a malapena mandiamo avanti la famiglia e poi in definitiva si vede che questi signori di soldi ne hanno tanti e quindi se li sequestrano è bene che un po’ di denaro lo lascino a chi ne ha veramente bisogno” e ancora “la situazione non è per niente grave… di che cosa dovremmo vergognarci…”.
Questo atteggiamento omertoso impedì una collaborazione da parte del popolo e le conseguenze furono gravi. In alcuni paesi della Barbagia, quando un delinquente usciva dal carcere, i suoi compaesani andavano a casa sua per abbracciarlo, per congratularsi con lui, per brindare alla sua Balentìa e la festa durava fino a tarda sera con balli e canti.
Mi sono ispirata alle mie esperienze personali, alle letture, ai fatti di cronaca, alle mie conoscenze del territorio, dell’ambiente, delle tradizioni e dei costumi del mio popolo, col quale ho condiviso le sofferenze, la precarietà, l’emarginazione in tempi in cui il banditismo aveva dato un duro colpo alla sua dignità, alla sua credibilità. Luoghi e paesaggi sono autentici, vivi nella mia memoria. Anche i paesi, la loro struttura architettonica, l’ubicazione, mi sono noti, perché il mio vissuto è parte integrante di quelle realtà e anche oggi, che il destino mi ha portato lontana, ne avverto la mancanza: quei silenzi fatti di isolati passi sul selciato nudo, quei profumi fatti di pane appena sfornato, quelle rare parole che generavano saggezza, ma anche quei freddi inverni che gelavano le estremità del mio corpo bambina, tutto ciò non può che riportarmi verso quelle mete che mi hanno aiutata a crescere, ad acuire una sensibilità che a volte mi produce una profonda malinconia.
I personaggi che descrivo e che seguono un destino crudele sono immaginari, ma verosimili ai personaggi che hanno sofferto gli stessi drammi, quelle tragedie che modificano la mente umana fino a condurla alla follia. Tutti coloro che si sono trovati nelle condizioni di essere sequestrati, hanno subito gli stessi danni esistenziali, le medesime problematiche di coloro che hanno subito una detenzione lunga ed estenuante nei campi di concentramento, con risvolti che ne hanno mutato anche l’aspetto fisico e psichico.
Nell’ombra hanno sempre agito, coadiuvati da una natura impervia e isolata, uomini senza scrupoli il cui obiettivo era quello di arricchirsi, di uscire dal loro ambiente ristretto, senza un futuro. Ma a differenza del fenomeno mafioso, sviluppatosi in alcune regioni dell’Italia meridionale e ramificatosi in altre regioni e in altri Stati come un cancro e che si componeva di squadre ben addestrate, di codici di comportamento e di gerarchie a cupola, la criminalità sarda non possedeva queste qualità: agiva isolata, senza obiettivi precisi se non quelli che servivano per l’immediato e colpivano con gruppi che si aggregavano e si disgregavano con una frequenza continua, per poi dileguarsi o far sparire i loro immaginari nemici. Erano comprese anche le faide causate dalla bramosia di spartire il bottino in maniera irrazionale. La violenza non ha paternità, segue i medesimi istinti animaleschi e se ne fa vanto.
La mia storia è autentica nel suo svolgimento, nel mettere a confronto uomini e armi, criminali e forze dell’ordine, popolazioni inermi e professionisti della delinquenza. Uno spaccato della società che lascia spazio alla riflessione su tutto ciò che nasce e che muore, sul bene e sul male che devasta l’animo umano.

Val la pena ricordare ciò che disse il famoso, quanto pericoloso bandito Gregoriani Luciano, durante un processo che lo condannava per i suoi misfatti, ma anche per i suoi delitti in gran parte dettati dall’ignoranza e dalle sue condizioni precarie di vita:
“Signor Presidente, quelli come me vengono strappati presto dai banchi di scuola; l’Università per noi è la strada, per altri è la facoltà di Giurisprudenza… Quando entri in queste storie puoi uscirne o per colpo di pistola o in galera ed io ho scelto la galera.”
(Dal libro “Anonima sequestri” di Luigi Casalunga)

Maria Giovanna Casu


Chiaro scuro orme invisibili (L’Anonima sequestri sarda)


Il fondamento della repressione stessa può essere soltanto un senso di ripugnanza, l’incompatibilità esistente tra l’idea di reprimere e la massa dominante delle idee che costituiscono l’Io. L’idea repressa prende però la sua rivincita, diventando patogena.

Da “Pagine di diario” – Sigmund Freud D.


1

Viveva in Piemonte un ricco imprenditore dedito al lavoro, alla realizzazione dei suoi progetti, all’occupazione di tanti lavoratori, alla salute fisica e psichica dei medesimi, della propria famiglia e di tutti coloro che gli chiedevano aiuto. Si chiamava Matteo: aveva un bell’aspetto, un portamento altero e distinto, un modo affabile e naturale nel rapportarsi con tutte le persone dalle più umili a quelle appartenenti ad una certa classe sociale. Quest’atteggiamento nobile gli derivava dalla famiglia, vissuta negli agi, ma attenta a comprendere lo stato d’animo di qualunque persona, indipendentemente dal sesso e dalla posizione sociale. Tutti ammiravano la generosità di questa famiglia e spesso, davanti al cancello della loro dimora, sostavano parecchi mendicanti, bisognosi non solo di pane, ma anche di una buona parola di conforto.
C’era una povera donna, abbandonata dal marito con cinque figli da mantenere che, quando si recava a casa di Matteo, lo faceva con la testa china, gli occhi velati dalle lacrime e la bocca chiusa ermeticamente per non sentire quel grido disumano che le sarebbe esploso dentro, mentre mostrava la sua presenza che lei riteneva sempre inadeguata, portatrice di disturbo, ingombrante, priva quasi di dignità umana.
La padrona di casa l’accoglieva festosa, l’abbracciava, la faceva sedere e le chiedeva: “Come va Rosetta? Raccontami un po’ la tua vita, parlami dei tuoi problemi, perché io li possa, in parte, risolvere, possa cucire con un filo sottile le ferite del tuo animo, venirti incontro nelle necessità più urgenti.” La poveretta, non avvezza a parlare, riusciva solo ad alzare le braccia scarne e a muovere le labbra che si esprimevano tremando, balbettando. Allora la signora incalzava, presa da profonda pietà: “I tuoi figli vanno a scuola e la più piccola dove la lasci quando vieni da me? Perché non me la fai conoscere? Io non ho avuto la fortuna di avere figli, ma dentro di me un profondo senso materno mi ha sempre fatto amare i bambini, mi ha sempre fatto desiderare di poterne accudire qualcuno. Spesso il buon Dio non riesce o non può elargire doni a tutta l’umanità e persone come me vengono private di una gioia che solo pochi non conoscono. Ma non voglio tediarti con i miei pensieri. Ora devi parlare tu, ne hai bisogno.”
“Signora, il mio stesso aspetto, il fatto che io sia qui per disturbarla, per procurarle disagio le possono far comprendere tante cose. Come me altre persone brancolano nel buio, vivono nelle tenebre, soffocano per i miasmi che la terra ingrata emana, quando si vive nella palude della miseria, senza speranza, senza futuro. I miei figli sono come le foglie al vento: si staccano dal ramo materno e misurano le orme del viandante come fari sempre presenti nella loro precaria esistenza. Le porterò la mia ultima nata, la metterò nelle sue mani, la lascerò ai suoi sogni, al suo cuore immenso.”
Dopo essersi asciugata le lacrime, dopo aver preso con mano tremante il pacco che la signora le aveva preparato si congedò ringraziando e benedicendo. Altri, più tardi, arrivarono con problemi altrettanto pesanti.
Presto le venne presentata una neonata avvolta in un telo logoro, ma pulita, profumata, con due grandi occhi che spaziavano oltre l’orizzonte e che diventarono cupi e profondi quando vide la signora chinarsi su di lei con un gesto materno, naturale, carico di umanità, di disponibilità ad accollarsi quella che lei non considerava una responsabilità, ma il felice esito di un incontro che le avrebbe cambiato la vita. Mentre, però, prendeva e docilmente stringeva al suo cuore quella creatura infinitamente preziosa volse gli occhi verso la madre e in quelli notò un misto di tristezza e di gioia, di disappunto e di amarezza, di smarrimento e di paura. Restituì la bimba alla donna che l’aveva messa al mondo, ma questa respinse l’offerta dicendo: “No, signora, non guardate il mio aspetto. Se non avessi amato la mia bambina non avrei avuto alcun rimpianto, ma siccome la amo, voglio che la sua vita sia diversa dalla mia. La strada è predatrice, ruba la parte migliore dei derelitti come me, li fa rotolare nel fango e li trascina verso le forre più profonde. Io verrò a trovarla, staremo vicine nell’attizzare quel fuoco che aiuterà entrambe a mai tremare per il freddo, a mai morire sull’asfalto gelido. Addio buona signora che il cielo l’assista. E mentre lei spariva nelle tenebre, la signora stringendo la bimba corse dal marito, intento a controllare i registri che regolavano l’amministrazione dell’azienda. Questi si voltò stupito nel vedere la moglie stringere un fagottino che aderiva al suo corpo come può aderire la stessa pelle e mostrare con un gesto naturale una neonata dalle fattezze delicate, dal colorito roseo e dai grandi occhi turchini puntinati di nero. Sembrava un dipinto di antico autore che, mettendo in primo piano la figura materna, non ne nascondeva la luce che emanava il suo sguardo e l’abbandono del neonato sul suo ampio petto ricoperto di veli. Al di là di questa visione uno sfondo di ampie querce secolari illuminate da un sottile rigagnolo esposto ad una luce violenta, irreale. Rimase basito, turbato quasi spaventato per un’apparizione così improvvisa, così fuori dal comune.


2

“Teresa sei tu? – esclamò quasi urlando. – Dove hai preso quella bambina? Forse è la figlia di qualche tuo parente, di qualche tuo amico, di qualche poverello che bussa spesso alla tua porta? Non si starà ripresentando la tua ansia per un figlio che non abbiamo avuto e non pensi che tutto ciò possa nuocerti? Siamo vissuti amandoci, nonostante questa carenza e insieme abbiamo costruito un percorso che ci ha visti sempre vicini, sempre amanti di quel tesoro immenso che è la vita. Ora vedo una donna che vuole sfuggire alla realtà, che vuole negare l’evidenza, che si è sentita stanca di quel calore che io, in tanti anni, ho cercato di mantenere alla giusta temperatura, per evitare squilibri nel nostro rapporto, amarezze, rimpianti. Teresa cosa sta succedendo?”
“Nulla di tutto ciò di cui stai parlando, Matteo. Questa neonata mi è stata affidata da Rosetta, quella povera ragazza madre che ha altri quattro figli da crescere. Me l’ha solo affidata, perché noi potessimo aiutarla a vivere in un ambiente sano, confortevole. La madre non L’ha abbandonata, né si è disfatta di una figlia come si può abbandonare un sacco di rifiuti. Noi abbiamo l’obbligo di aiutarla, di compiere l’ennesima buona opera, sarà qualche altro a giudicarci, sarà il destino a determinare le nostre sorti. La chiameremo Celeste, come il cielo, quando senza nubi si affaccia sulla terra, lambendone gli umori.”
Matteo lasciò l’impresa in compagnia della moglie, ogni tanto volgendo lo sguardo verso quella bimba quieta, docile, felice di sentire il tepore di un corpo nuovo, il suo profumo, il battito di un cuore che risuonava come una cassa armonica nel petto di Teresa. “Fantastico! – esclamò l’uomo, preso da un improvviso senso paterno – Non avrei mai creduto che un giorno avrei assistito ad uno spettacolo di così rara bellezza. È come sognare, ma se il sogno non fosse reale? Se improvvisamente mi svegliassi e al posto di questa scena idilliaca mi ritrovassi sul mio grigio letto, nella mia camera ricca di tutto e di niente, con i soliti pensieri, gli stessi atti di sempre? Teresa dammi una scrollata, dimmi che tutto ciò non è un sogno!”

[continua]


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