L’uomo senza tempo, senza spazio

di

Maria Giovanna Casu


Maria Giovanna Casu - L’uomo senza tempo, senza spazio
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 258 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6587-9313

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In copertina: dipinto di Mauro Lacqua


“Nessuno nasce individuo nel senso più bieco
della parola, mutando la sua natura umana
fragile in qualcosa di orribilmente complesso,
viscido, alieno, perdendo, col tempo, quelle
caratteristiche che lo rendevano simile alla
natura divina”.

M.G. Casu


PREMESSA

È difficile estrapolare il male da una persona, trasferirlo in un contesto più ampio, inserirlo in un personaggio immaginario, costruendone una storia dai risvolti tragici ed insoliti. Perché il “male” è un concetto astratto come il “bene”, come “la felicità” come “l’ordine”, “l’armonia”. Sono astratti, ma esistenti, invisibili, ma tangibili.
In questo romanzo muoiono i sensi comuni, si dà origine alla ricerca spasmodica di quei fattori che hanno determinato l’espandersi del male in senso assoluto, la sua predominanza in diverse circostanze di vita, le conseguenze del suo potere magico e diabolico, subdolo, viscido e contorto che porterà la vicenda verso un epilogo tragico.
Non esisterà che un unico, vero personaggio che racchiuderà in sé i semi perversi di tutta una generazione.
Costui muoverà i fili dei suoi burattini, pronti a seguirlo, a credergli, a volte anche ad amarlo. Un corteo di uomini e di donne persi nel suo sguardo magnetico, sibillino, imperioso che non scalfiscono mai la sua personalità, non mettono mai in luce i suoi obiettivi e sfuggono al suo pensiero come le nebbie al sole, come le nubi al vento.
Esiste solo un nome: il suo e qualche comparsa che dà significato al contesto. Anche il nome dei fratelli rimane anonimo soprattutto quello della sorella che gioca un ruolo importante: quello di scandagliare la vita di un uomo che di umano non possiede che le sembianze fisiche, quello di combattere una battaglia senza tregua, riuscendo, da sola, a fronteggiarlo, a eliminarlo dalla sua vita.
La vicenda si svolge in una grande città, dove l’anonimato ha un senso, dove nella massa non conta mai l’individuo che spesso si perde nei tanti rivoli dell’esistenza umana. Tutto avviene nell’assoluto silenzio, quello che accompagnerà il protagonista a dimenticare la parte migliore di se stesso e dell’umanità, quello che lo porterà a compiere azioni riprovevoli, spesso illegali, spesso criminali.
L’ansia di superare le condizioni del proprio essere, lo indurranno a cercare in modo spasmodico una dimensione che non esiste nel contesto attuale, dove la moltitudine fa capo a regole precise, anche se limitative di una libertà che deve sempre tenere in considerazione le esigenze di ognuno, il loro modo di porsi davanti alle difficoltà della vita.
Quest’ansia lo seguirà ovunque, gli darà la possibilità di fuggire dal presente, dal passato e dal futuro, lo vedrà annullarsi nelle tenebre della notte, negli antri oscuri della propria coscienza, devastata da quel male che corroderà le fibre profonde del suo animo fino a devastarle.
Sarà vano ogni consiglio umano, la fraterna vicinanza di altri che dalla vita hanno avuto poco, ma che ne mantengono intatti i valori.
Diventerà un concetto astratto l’amore per i genitori, per la casa che lo aveva accolto, per il tempo in cui lui cercava di costruire una vita diversa. Anche i luoghi perdono il loro smalto, non entrano nell’impenetrabile mondo del protagonista che non conosce dimensioni di sorta, né colori, né immagini, né ricordi.
Prevalgono vicoli scuri, isolati dal contesto in cui egli vive, lontani dal frastuono della città immersa, sempre, nel suo caos naturale e quegli scorci dove maturano pensieri insani, menti malate, diabolici progetti di morte.
Il romanzo porta con sé l’inquietudine del mondo, quella parte che si pasce di miseri sotterfugi, di inganni, di torbide situazioni esistenziali che traggono la loro linfa dalle loro stesse malefatte. Significativo è anche il momento storico in cui si svolgono le vicende, legate a loro volta a quel “male” che, come un mostruoso cancro, divora la mente di uomini destinati a seguire i destini della gente.
Nelle vicende amare l’espandersi del maligno è significativo, induce a riflettere su una vicenda ingarbugliata, complessa, fantascientifica che coinvolge la realtà dei tempi remoti e prossimi e induce il lettore a meditare su un fenomeno che coinvolge la stessa identità umana e ne cambia i connotati.
Il riferimento a fatti e a personaggi è puramente causale.

Maria Giovanna Casu


L’uomo senza tempo, senza spazio


1

Si perdeva nella notte, assumendone i grigi profondi, le oscurità misteriose, fendendo l’aria con le potenti vibrazioni del corpo, con la rabbia dell’animo, col vigore di una forza che a volte non sembrava umana e vagava senza meta, senza tempo, senza speranze.
Vincenzo, questo era il suo nome, spesso, prendeva le sembianze dell’uomo invisibile, confinato nei suoi torbidi pensieri, chiuso in quella gabbia che gli mozzava il respiro, paralizzato nelle membra e nell’animo. Altre volte appariva come una meteora là dove la vita cominciava ad abbozzare le sue gemme e non solo sulle piante. Dove si posava si afflosciavano le foglie dei rami, i ranuncoli si nascondevano nelle profondità della terra, i prati si appiattivano, i bimbi tacevano sgomenti. Era come se la morte, col suo soffio gelido, calasse impietosa sulla natura incontaminata, nel cuore delle persone che dalla vita bramavano gioia, felicità. La sua fragilità veniva sostituita da una personalità fittizia, spesso violenta, portata a seguire il male come un bene assoluto, senza rimorsi, senza remore. Viaggiava con un’auto di vecchia data, con la carrozzeria a pezzi, con le ruote, spesso, sgonfie la quale esalava fumi nocivi e rumori assordanti. Viaggiava di notte, quando la gente dormiva, pensando ai guai del domani; innestava la quarta, rombava con rabbia verso le periferie e guidava all’impazzata fino all’alba. Superava paesaggi oscuri, ponti, ferrovie, paesi sperduti nella nebbia, nascosti dalle tenebre, anch’essi sgomenti al passaggio di un mezzo guidato da un fantasma.
La velocità eccitava Vincenzo, lo ricaricava, gli dava la sensazione dell’onnipotenza, lo conduceva verso quei sentieri dai quali non si fa ritorno. Eppure lui riusciva, all’alba, a rientrare nella sua dimora, a lavarsi il viso, a darsi una pettinatina, a mettere una camicia di nailon che lui stesso lavava la sera prima, a prendere il mezzo e a recarsi in ufficio, dove lo attendeva una grigia e logora scrivania, una poltroncina e uno scaffale dove venivano conservati gli atti ufficiali, i registri contabili. Nessuno gli rivolgeva la parola: la sua natura introversa, strana, fuori dalle regole civili non permetteva approcci amichevoli. La sua presenza veniva tollerata solo professionalmente. Possedeva un’intelligenza superiore alla norma, un’intuizione logica fuori dal normale e tutto ciò rendeva sopportabile il suo carattere. Del resto all’impresa non occorrono uomini, ma robot insensibili di fronte agli umori dei dirigenti, produttori di merci e non di pensieri.
Non si recava mai alla mensa aziendale: lì avrebbe incontrato gli impiegati dell’azienda, lo avrebbero deriso per il suo modo goffo di presentarsi, per quello sguardo allucinato, fisso, che nascondeva i sentimenti, le emozioni, i turbamenti. Lo avrebbero giudicato e questo non poteva permetterselo, visto che lui stesso, guardandosi allo specchio, era riuscito a tratteggiare un profilo autentico dei propri limiti fisici e psichici. Ne soffriva, ma questa sofferenza aumentava l’aggressività, l’odio verso tutto ciò che la natura gli aveva negato.
Non amava la vita se non per quel senso di respiro che qualche volta gli regalava, se non perché gli permetteva di agire in modo diabolico, scaricando veleni su tutto ciò che incontrava, ma amava di un amore viscerale la musica lirica, la voce di quei tenori che con i loro acuti facevano tremare le pareti dei più grandi teatri del mondo. Spesso apriva le finestre, metteva un disco sul grammofono antico e liberava quelle voci dal suo cuore, dopo essersene inebriato. Spandeva per l’aria quei motivi intramontabili che rallentavano il passo del frettoloso viandante, procurandogli un brivido di gioia intensa. Le note seguivano sentieri lontani, si perdevano negli antri dei monti innevati, superandone le creste maestose e si spingevano oltralpe, assecondando l’eco del vento che ululando ripeteva le ultime melodie. Si addormentava esausto per riprendere, a notte fonda, le sue tristi abitudini che somigliavano ad un rituale drammatico che si doveva consumare tutti i giorni.
Il telefono nero, appeso al muro come un pipistrello addormentato non squillava mai. Ogni tanto gli serviva per sentire la vecchia madre che lo aveva sempre aiutato a vincere la solitudine, l’inedia, i tristi pensieri.

[continua]


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