Opere di

Maria Letizia Avato


Con questo racconto ha vinto il nono premio all’edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar 2007


Anima sola

Nella capsula della nostra anima i pensieri viaggiano a quelle velocità che un tempo ci sembravano impossibili. I concetti sono diventati più astratti, gli obiettivi della nostra esistenza volano incontro al miraggio di poter raggiungere la perfezione dell’Assoluto. Ci aggiriamo in sospensione su quel che resta della nostra terra, senza più il timore di poter cadere o soffrire. Anche le parole sono cambiate oramai, vetuste idee di bene e di male, di gioia e dolore hanno lasciato il posto alla levità del volo nella quale sappiamo di esistere, nonostante tutto, prive dei nostri corpi.
Accadeva milioni di anni fa, noi non ne abbiamo più traccia o ricordo, la carne ed il sangue, con le mani, i capelli, il respiro ed il cuore ci ospitavano, offrendoci la possibilità delle emozioni, dello strazio e delle gaie spensieratezze, da noi ora intuite solo per eredità genetica ma di cui non abbiamo la minima percezione reale. Ora, sul nostro nuovo mondo spaziamo al di là dei fiumi e dei monti, dei deserti di sabbia e delle nuvole, inutili dispensatrici di piogge. Siamo le compagne invisibili di evolute specie animali, così simili a quel che un tempo anche noi, in parte, eravamo.
Adesso sappiamo, ad enne tempo, di essere sempre esistite: ribelli, addolorate, crudeli, derelitte, cacciatrici di corpi, nostre effimere discutibili protezioni. Eravamo state le libere prede di un complesso sistema di cellule, che al di là del suo intrinseco limite materiale, aveva finito con l’inchiodarci meravigliosamente al muro della vita.
In quel tempo perduto, c’era l’uomo. Poi, in una sorta di disgregazione millenaria si è dissolta ogni sua possibile traccia. Il nulla, o vuoto cosmico l’hanno divorato. Forse anche l’infinito può sparire e così anche per l’uomo, nel susseguirsi impercettibile dei secondi, delle ore, dei millenni, ci fu il dissolvimento. I corpi si compattarono, gli uomini e le donne finirono con il somigliarsi, si assottigliarono le diversità, nacque un essere con organi riproduttivi sia maschili che femminili, le capacità percettive si svilupparono in un crescendo esponenziale poi, sempre a cavallo dei secoli dei secoli, si finì con il fare a meno di qualunque cosa e qualunque sentimento. L’uomo aveva corso molto, inseguendo il possesso della terra stessa e di tutto ciò che su di essa era stato capace di edificare, fino a quando non ci fu più posto per tutti. La sete e la fame di avere produssero due effetti diametralmente opposti: accesero il dissidio e abbatterono le manifestazioni emotive. L’intelligenza raggiunse l’idiozia, l’odio sposò l’indifferenza. L’umanità si arrestò in un limbo di opposti dove la follia e la ragione si fronteggiarono senza esclusione di colpi. La testa divenne un bacino di pensieri astrusi, la mani e le gambe fecero il loro tempo, procreazione, vita, sangue, tutto invisibilmente svanì. Avevamo ottenuto la libertà e il cammino verso l’Assoluto ebbe al fine, inizio.
Sulla terra, dove stoicamente continuano a succedersi le notti coi giorni, le stagioni e le lune, io, anima sola, da un tempo eterno o impercettibile, non saprei dire, sono rimasta inspiegabilmente catturata di un suono misero, lontano, ma costante, modulato dal freddo di una gola di ghiaccio, profonda chilometri, che fende la terra quasi a spezzarla nel mezzo. Vagano la notte ed il giorno a tale latitudine dai confini incerti, mentre questo atavico suono dai lampi intermittenti, soffia dal ghiaccio la sua tenera nenia. Nel vortice di questa mia improvvisa immobilità perdo ragione di me, in attesa che una mano pietosa mi sganci dall’inspiegabile incantesimo.
Sono passati miliardi di lune, ho sentito morire le stelle, cadere nel mare il sole e i pianeti, ma il suono leggero che viene dal ghiaccio, resiste e incatena. Si leva distinto, non più confondibile, rimbalza fra le lastre gelide addensate dal verde del tempo e ora è già eco. Caleidoscopio di un miracolo atteso sommessamente da sempre.
Sono io la predestinata testimone? Piccolo pensiero, effimera umana illusione, quale strada tortuosa può percorrere un ragionamento tanto sentimentale!
La verità che mi viene restituita dal mio sprofondare in millenni di pensieri verso la Perfezione, è che nel medesimo istante , tutte noi, anime sole, siamo state raggiunte dallo stesso richiamo, quel suono scaturito dal ghiaccio ha immobilizzato noi tutte e insieme abbiamo viaggiato sul filo di una ricerca estenuante, la stessa, per ognuna di noi: braccia di un’unica macchina. Quindi nulla più al caso o al libero arbitrio, io testimone come le miriadi di gemelle sparse fra cielo, terra, acqua e fuoco.
Ascolto, forse vedo, non so come, non oso chiedermelo, eppure il suono rifulge e le sue modulazioni vanno rimbalzando dalle pietre di ghiaccio alla mia anima sorpresa, stupita, per poi tornare nel cuneo profondo disegnato nella profondità abissale della terra, dove trova nuova forza e voce.
Saranno i sensi dell’anima al loro risveglio? Assoluto, mi stai forse, finalmente abbandonando? Memoria di un tratto dimenticato o solo troppo a lungo celato, gli opposti che come sempre si toccano, quel che un tempo era stato: Dio perché mi hai abbandonato!
Il suono rimanda martellante un messaggio che ripete perpetuo e ostinato le sue parole di approccio, di ritrovato impudico contatto.

Ti amo come se mangiassi il pane spruzzandolo di sale
Come se alzandomi la notte bruciante di febbre
Bevessi l’acqua con le labbra sul rubinetto
Ti amo come guardo il pesante sacco della posta
Non so che cosa contenga e da chi
Pieno di gioia pieno di sospetto agitato
Ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
Ti amo come qualche cosa che si muove in me
Quando il crepuscolo scende su Istanbul poco a poco
Ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.

Un brivido corre lungo la mia schiena, ho la pelle sottile, chiara, venata di piccole righe blu, milioni di anni attraversati senza tempo, senza caldo, ne freddo. D’intorno lo scorrere lieve del sangue e i capelli a giocare sul viso. Sorprendo una mano a cercarsi nell’altra, catturo il mio sguardo perduto fra i piedi. Ho fianchi, ventre, spalle, ginocchia, muscoli e piccoli nei. Un corpo, il mio. Mi sollevo cercando e ritrovando equilibrio, passi misurati in crescente progressione, allora tento una corsa poi un salto. Ricado. La mano, una piccola ferita sul palmo, gioisco per il dolore provato, la terra che macchia e germoglia. Mi stendo sul greto del fiume e l’acqua lambisce le spalle e le gambe, sommersa di nuovo da gioia e dolore. Il sole trafigge lo sguardo, lo sfido, ma anch’esso fa male e le lacrime, essiccate dal tempo, al fine scendono felici, irrefrenabili. Ho deciso, sospingo il mio corpo un po’ oltre, al di là della collina, mentre un incedere di passi sta scuotendo la terra. Sono i corpi rinati e le anime smarrite che li accompagnano.
Il sacrilegio si è compiuto. Fuggite attraverso i secoli, svincolate e liberate dalla carne, ad un passo dall’Assoluto in un abbraccio che sembrava ormai indissolubile, ci siamo ritratte e l’abbiamo tradito. Avevamo assistito alla lenta dissoluzione del corpo, convinte che il disegno divino si stesse compiendo, prima ancora al cataclisma degli innumerevoli cambiamenti: grandi teste pietrificate, l’evoluzione del pensiero, perdita dei sensi e del corpo, unione sublime delle anime sole protese in un unico abbraccio verso l’ agognato destino. Ma poi.
Sono bastate quelle parole, dio quelle parole, a risvegliare i dolori e i piaceri, il peccato e l’amore. La vergogna, persino la vergogna ci è sembrata suadente. Siamo tornate indietro in un percorso infinito, lambito appena dalla percezione di un traguardo chiamato: origine, così simile alla fine, d’altronde. In un accordo totale, abbiamo lasciato che fosse e nella semplicità del più facile gesto abbiamo ritrovato quello che avevamo perduto (distrutto) in un percorso durato millenni.
Dalla cima della collina, fin giù nella valle milioni di esseri umani sono in cammino, guidati da un impeto antico, tutti a provare, come in un polverone da battaglia, i possibili gesti dimenticati.
Un uomo rivolge una carezza leggera sul viso di una giovane donna, lei ricambia sorridendo, un vecchio poco più in là guarda e piange pensando ai suoi figli e al tempo perduto. Un bimbo correndo sorpassa un po’ tutti, urtando e sbattendo chi già vorrebbe imbrigliarlo. Ci sono i cattivi e poi i buoni, ma compiono tutti le medesime azioni, ci sono coloro che parlano molto e dirigono gli altri al cammino, ci sono poi quelli che fingono e quelli che già intendono insopportabili prediche. Siamo oltre l’Inferno, al di là del Paradiso, siamo nel nostro caro, vecchio brodo primordiale.
Diamoci tempo.
Riprenderemo il filo del discorso esattamente dal punto in cui l’avevamo abbandonato e allora ci sporcheremo ancora uno del sangue dell’altro, ci faremo cogliere dalla commozione, ci privilegeremo di magnifici buoni propositi, compiremo gesta eroiche all’insaputa del mondo, ma saremo anche ignobili e meschini e privi di scrupolo. Eleggeremo uomini dio e vorremo che dio si faccia uomo, riempiremo carte su carte di verità tutte plausibili, cercheremo di credere che siamo tutti uguali ma forzeremo la mano per non esserlo mai, l’amore colerà sui nostri cuori rendendoci schiavi, poi tradiremo gli amici, abbandoneremo i figli, rilegheremo alla solitudine i vecchi, non avremo vergogna della nostra vanità, pregheremo davanti alla morte e verseremo le più tenere lacrime al primo abbraccio d’amore. Saremo uomini, ancora.
Ma intanto la voce risuona nell’aria ad ubriacare di vita la terra e gli uomini navigano felici in tempesta, cercando di riconoscere il senso meraviglioso di ciascuna parola. Tutti guardano il cielo, dove appiccicate come piccole calamite brillano nuove antiche stelle:

pane,

febbre,
ti amo,
aereo,
crepuscolo,
dio sia lodato,
son vivo.


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