Poesie e racconti

di

Mario Vierucci


Mario Vierucci - Poesie e racconti
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 60 - Euro 10,50
ISBN 978-88-6587-6275

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Questo libro contiene due racconti in versi e sedici poesie (opere già pubblicate dal 2007 al 2014)


In copertina: foto di assemblaggi (vetri/cristalli dell’Afganistan, di Murano e di Boemia) eseguiti da Mario Vierucci


Ogni riferimento a luoghi, persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale


Prefazione

L’immagine che riassume la personalità letteraria di Mario Vierucci riconduce, in primis, alla figura di un uomo, assorto nell’ombra di una stanza, intento a fantasticare e spaziare con il suo sguardo nelle inestricabili vicende della vita, quasi a voler ricercare il superamento del proprio sentiero, eppure ammaliato dalla sensazione di “sentirsi un fantasma legato a fili di memoria”, che pervade il suo animo con recuperi memoriali, ricordi evanescenti, emozioni vissute o solo sognate, spaziando in diversi tempi e luoghi, sempre sulla linea di confine tra l’influenza di un piano strettamente e realisticamente umano e la dimensione immaginifica e sognante.
In secondo luogo, emerge chiaramente la sostanza dello scrittore e del poeta che s’immerge totalmente nella dimensione più profonda d’un continuo scandaglio interiore, poco importa che sia il poeta turco Kadir Akinci; o il poeta beduino Shahid Keertane, “grande sognatore” che amava la solitudine del deserto; o il povero Eugene Miunier, fautore del suo triste destino con un diario che è testamento spirituale della sua disperazione, giungendo, infine, alla salvifica catarsi dell’amore, perché, in fin dei conti, non sono altro che simbolici protagonisti che vivono nell’animo di Mario Vierucci.
Pare di assistere ad un transfert narrativo e lirico nel quale possano essere esaltate le doti fantastico oniriche del dominus della scena: e Mario Vierucci, come instancabile esploratore dell’animo umano, si avventura in questa evocativa ricerca, dalle regioni con influenze mediterranee alle atmosfere nordafricane, dalla solitudine del deserto alle danze frenetiche di Istanbul, con una costante miscela di personalissime suggestioni.
Mario Vierucci, accarezzato dal soffio della poesia, si proietta nella notte come a “viaggiare nel tempo dei sogni” ed il suo cuore non si arrende davanti alle inquietudini dell’esistenza, seppur si trova a vagare nella sofferta esistenza: ecco allora che i suoi protagonisti si impegnano a scrivere poesia pervasa di “attesa di felicità” mentre durante il giorno il senso di solitudine divora il loro cuore e l’angoscia notturna attanaglia le membra, costantemente avvolti nello smarrimento ansioso, nella magia della memoria, quella stessa memoria che invadeva l’animo di Mario Vierucci quando, da giovane, si inebriava di sogni e, nel disincanto, viveva amorose passioni.
Le stagioni della vita, inesorabilmente, volano via velocemente mentre le ombre esistenziali devono essere dissolte: il tempo evapora e l’essenza della vita conduce a dolenti nostalgie ed a ricordi che svaniscono nel crepuscolo.
Il poeta, immerso in atmosfere silenziose ed evocative, lascia scorrere gli stati d’animo con il desiderio di sentire la brezza della memoria, osservare gli splendori dell’alba ed i tramonti, lasciandosi trasportare nel fluttuare della vita che può attraversare il deserto del Sahara o risiedere in un giardino di Marrakech.
La dimensione onirica illumina le atmosfere ed emerge il profondo desiderio d’amare, sovviene l’amore vagheggiato in sogno, il cuore ed il corpo si fondono in unica emozione: allora le parole hanno il colore dell’ambra e della terra rossastra quando tutto si fonde in una ricercata metafora della solitudine e della caducità delle cose, nello svelamento del mistero della vita e della morte e lo sguardo malinconico può essere sanato solo dal soffio vitale della poesia.
In quel lento ultimo abbandono si può cader in un sonno profondo e sognare la donna nera del Nadir o consegnarsi al ricordo d’una donna nelle notti d’inverno o, ancora una volta, rimembrare frammenti d’amore vissuti sul Mar Baltico in un’apoteosi lirica nella quale le emozioni alimentano la pulsione della vita stessa.
Le nuvole nel “cielo d’opale” di Casablanca, come l’incanto d’una lunga notte a Istanbul ed il fascino misterioso del deserto sahariano, ammaliano nella sarabanda di effluvi, sotto il tappeto stellato del cielo d’oriente, catapultano nell’ipnotica notte di Agadir o nell’ascesa del monte Toubkak ad “ascoltare echi d’infinito” e, infine, trasportano la mente nel vano vagare fra le dune del deserto, in ascolto delle ultime parole del poeta Kadir Akinci, uomo in esilio dalla Turchia, la cui vita è diventata insopportabile ed aspetta solo la morte che accompagni nel “sonno eterno”.
Nella percezione lirico letteraria di Mario Vierucci il mare magnum emozionale viene trasposto in poesia ed evolve nel continuo miscelarsi con una prosa costellata da profonde riflessioni e dall’incessante rappresentazione di misteri inesauribili.
La scrittura di Mario Vierucci riconduce ad una profonda consapevolezza dell’Uomo che percepisce nettamente la dimensione esistenziale, fatalmente sofferta e malinconica, eppure lo spiraglio luminoso d’un simbolico nuovo giorno accende la speranza nel cuore ed alimenta lo slancio vitale nella sua mente sempre protesa ad uno spazio creativo-fantastico-onirico.

Massimo Barile


Poesie e racconti


POESIE


I miei giorni

In grembo all’ombra mi nascondo ogni giorno
sotto i rami di quercia vivente.
Qui seduto fantastico ed allungo il mio sguardo
su una distesa d’erba che simula il mare.
Ma al crepuscolo un’ombra d’uccello
s’avvita in alto su di me
e poi sparisce all’orizzonte in un battilo d’ali.
Chissà, forse supererò presto
il mio sentiero dei tramonti andati…
Di notte mi sento già un fantasma legato a fili di memoria,
e mi muovo nell’oscurità
come un’ombra che attraversa altre ombre.
Ho visto tante stagioni profondersi e volar via!
Com’è scorso il tempo, come sono scorsi gli anni…
Eppure ho un angoscioso desidero d’amore,
adoro la mia terra, i tenui splendori dell’alba
e le oscurità profonde della sera.
L’aria del mattino ha un buon sapore al mio palato,
sento la sua brezza sulla mia pelle
e mi par di rifluire nell’oceano della vita.
Se mi bagno al fiume,
il suo scorrere mi leviga come un sasso.
Sulle mie membra riposano i raggi del sole,
e s’allungano pigri al tramonto.

***

Vago di giorno in cave di solitudine,
ma da lassù mi sorride la luna nascosta in un lievito di nebbia,
poi arriva il vento che mi porta i profumi d’Oriente
e fra gli alberi comincia a cantare.
Guardo allora il cielo e dico sottovoce:
resta ancora con me dolce vita,
col mio cuore che non s’arrende,
con le mie labbra che sorridono, con i miei occhi che piangono.


La donna nera del Nadir

Un po’ pazzo e vacillante mi rese quella sera l’assenzio.
Così, all’apparir delle stelle,
mi domandai cosa potevo aspettarmi dalla notte.
Ad un tratto, però, caddi in un sonno profondo,
e sognai la donna nera del Nadir
che m’attendeva già nella sua alcova,
colma d’ambre e di voluttuosi aromi d’ogni specie.
Io la guardai come non si guarda la donna di una notte
per quei suoi occhi volti al plenilunio,
tristi come due nuvole grigie.
Poi, estasiato accarezzai le sue mani,
mentre la luna la palpava con fradice dita.
Passò allora l’amore nella sua carne stupenda
e nel respiro della bocca, cosicché brillarono
nei suoi occhi e rotolarono i colori del prisma.
Lei restò lì, immobile,
come immersa in un ineffabile languore.
Ma all’improvviso – cosa strana – si svestì
davanti allo specchio mio antico.
Ed io, con versi ameni come ninnoli,
fino all’alba le chiesi d’amarmi.
Così fu la sua risposta:
assorta, a voce bassa, con un consentimento tacito.
Poi, sinuosa, si mosse verso di me,
guardandomi con occhi di brace.
Anch’io la guardai, e su quelle labbra
non lessi remora alcuna alla forma del piacere.
Mi toccava il cuore ed il corpo una squisita emozione,
quando fui svegliato di soprassalto
da suoni e canti che venivan su dalla strada.
Allora rimasi lì, solo, nell’oscurità,
ad evocare la donna del Nadir,
fantasticando sui miei godimenti vagheggiati in sogno.
Ma in un angolo s’allargava lo specchio mio antico,
e s’esaltava di aver accolto in sé l’armonica beltà.
Intanto, nel cielo d’opale andava a svanire
lo scialbo incantamento della luna,
e tutte di me ridevan le ultime stelle.


Notti

Le mie sono notti dei venti del sud,
notti dal flebile respiro
che fan viaggiare nel tempo dei sogni.
All’apparir delle stelle,
m’incammino con la notte che cresce
e mi culla in un fluttuante assopimento.
Dunque abbraccio l’ipnotico sonno
e vago sognando fra le dune del deserto.
Qua e là lascio le impronte dei miei versi sulla sabbia,
ed al risveglio vado verso uno sciocco sbadiglio
di soddisfazione.
A volte m’appaiono in sogno entità
con i volti dai vaghi contorni.
Sono persone care che un giorno ho baciato,
con mani bianche che ho tenuto fra le mie mani.
Con occhi esterrefatti,
alcune si guardano intorno con aria di sospetto…
Altre, invece, riempiono il fiato di voci
che non sanno chiamare.
Infine arriva l’alba e nel nulla svaniscono
le diafane ombre dei miei fantasmi.
Ogni sera, al tramonto, verso di me l’oscurità vien
frusciando.
Torna così a prendermi la notte,
e gelosa mia spia se nel mio taccuino
induco in versi la malinconia della luna.
Poi, quando s’annoia il cielo delle stelle,
s’alza la luce del giorno. e con un alito di vento
m’accarezza premuroso un soffio di poesia.


Un amore

(Travemunde – Mar Baltico – Gennaio 2005)

Nelle notti d’inverno generose di stelle,
risento sulla pelle la gelida carezza del vento.
Ed in sogno, allora, mi vieni incontro tu, mia cara Inge,
con la tua apparente frivolezza
pervasa da un certo candore che io amavo tanto.
Poi mi sveglio e vado a ritroso nel tempo,
quando ci avvolgeva una tela d’amore.
Rivedo così incontri di mani,
uno sfiorare di visi, di labbra, tatto di membra,
come a caso, un attimo appena,
perché la madre non s’avveda
mentre al sole ricama in giardino.
Da tempo, però, a piccoli frammenti,
s’è ridotto il nostro amore.
Più non brillano per me i tuoi occhi,
e mi dicono soltanto che la nostra storia è finita.
Eppure, io vorrei ricomporre quei frammenti,
insieme a te, su questa spiaggia del Baltico
che un giorno vide il nostro primo incontro.
Tu non lo sai che l’eterea parvenza del tuo volto,
così bello, così indefinito,
varca ogni notte le colline dei miei sogni,
e quando riapro gli occhi,
si risveglia all’alba la memoria.
Anche le labbra ricordano,
nelle mani un senso tattile s’accende,
ed associano percezioni, associano attimi d’amore.
Allora vedo i tuoi occhi che mi sorridono:
io m’illudo ancora,
e lascio che un’estrema tenerezza
accompagni l’avvicinarsi dei tuoi passi.


Quella lunga notte a Istanbul

Ricordo sempre l’incanto di quella sera,
quando, al tramonto scese giù il sole
dietro la grande moschea.
C’era aria di festa nelle strade di Istanbul,
con musiche, danze frenetiche e costumi antichi
che evocavano per noi antichi splendori.
Ben presto, però, dilagò il buio della notte
in una sarabanda di effluvi forti e dolciastri.
Poi, col vento del Bosforo, arrivò fino a noi
una canzone turca ammaliatrice, e tu, mia cara Asena,
mi dicesti per la prima volta: “Io t’amo, Kadir!”.
In cielo spuntò un quarto di luna.
Forte, allora, ci prese il desiderio d’amore,
e ci unimmo in un tenero e lunghissimo abbraccio.
Ora, però, un vento leggero ed amico,
ci regalò un sonno profondo,
ma nel mio sogno ti smarrii nell’immensa dimora di un Sultano,
e con ansia ti cercai in mezzo ad una folla
che sembrava impazzita.
Poi – non so come – mi trovai in un antico Hammam,
avvolto da una penombra calda e umida,
e fra fontane e teneri sciabordii di acque,
scorsi te, bellissima, immersa in un ineffabile languore.
Al tuo corpo erano rivolti occhi scuri
dagli sguardi affatto innocenti.
E sul tuo volto scoprii allora un colpevole sorriso.
Così, dentro di me scese un liquido amaro e volgare:
mi portai la mano alla bocca,
ma fui svegliato di soprassalto da una preghiera ad Allah
che giunse dal un minareto con voce forte, accorata.
Intanto arretravan le stelle
e impallidì il nostro quarto di luna.
Nella luce incerta dell’alba si riaccese il desiderio con le carezze.
Fu allora che il vento caldo del Bosforo
ci offuscò la mente in modo sottile,
risvegliando in noi i ricordi di amori passati.
Io, ti guardai negli occhi, e tu baciasti la mia fronte
per frugare nei miei segreti.
Infine, con rumori e voci concitate,
si svegliò la Porta d’Oriente,
poi ci lasciò il vento della notte
e i nostri sogni con sé portò via.
Così, toccandoci le labbra ci giurammo eterno amore,
e quando fu giorno, nella tenerezza si sciolsero i sensi
assopiti.


Solitudine

Ancora assonnato, sento una voce alla mia porta:
“Dai, svegliati papà|” – mi dice allegramente Tulay
È lei, mia cara Asena,
nostra figlia che tu partoristi morendo fra le mie braccia.
Sai? Oggi compie quattordici anni,
è bella, e come te ha due occhi grandi e la pelle d’ambra.
Ieri sera c’era ancora aria di festa per le strade di Istanbul,
e lei s’è allontanata all’improvviso
per nascondersi fra la gente che cantava e danzava.
Poi l’ho rivista distante da me
che danzava una canzone lenta e ammaliatrice
fra le braccia di un giovane dalla pelle scura.
All’improvviso m’è sembrato
che lui la guadasse con occhi di desiderio.
Forse ho frainteso quello sguardo,
ma, forte ho sentito una fitta al cuore.

***

Poche e labili sono le mie memorie.
Così, a volte mi sfugge la tristezza dei tuoi occhi
che ti sottraeva luce ma che io amavo tanto.
Ma il mio cuore ricorda ancora le tue sembianze,
perché le raccolse come parte di sé
quella sera che al tramonto mi dicesti per la prima volta:
“Io t’amo, Kadir!”.

***

Sai? Di notte mi sfiori in sogno con la tua voce,
poi ti sente tra i pensieri la mente,
e solo allora, con sillabe illuminiate di piante,
io scrivo versi pervasi da un’attesa di felicità.
Con angoscia, però, mi sveglio al mattino,
e di giorno mi divora il cuore questa mia solitudine.
Troppo presto, mia cara, mi sei venuta a mancare,
ed ora, senza di te, tutto mi lascia indifferente,
anche il fascino antico e misterioso di Istanbul.
Dalla nostra terrazza
guardo spesso le acque del Bosforo,
e più forte si fa il ricordo di te.
Ed è questo ricordo che ogni giorno, ogni ora,
ogni attimo, lentamente mi sta consumando.


Casablanca

Si sciolgono brandelli di nuvole nel cielo d’opale,
mentre incombono le ore nel rovente meriggio:
le tre, le quattro e sono poi le cinque.
Ora mi rallegrano due marinai
che fischiettando scendono da un bastimento.
Allora li guardo, e giovane rivedo me stesso,
quando giorno e notte m’inebriavo di sogni
e nel disincanto vivevo appieno amorose passioni.
Ed ora, fra un minareto ed una moschea
scende giù il sole al tramonto
e tutto s’abbella in una grande luce effusa.
Allora – io mi domando –
perché questo mio smarrimento ansioso?
Forse sarà il balenio della sera
che mi stringe al petto ricordi e dolenti nostalgie…
M’infilo allora in un bar fra il gran fumo di tabacchi
che divora l’aria, e bevo un liquore forte ed amaro,
ascoltando alla radio una bella canzone:
“…il faut vivre, il faut mourir…”
Ma alle porte c’è già la guerra in Turchia,
e come un brutto presagio
suonano queste parole per me, Kadir Akinci,
poeta in esilio ed ospite non gradito in questo paese.
Forse dovrò andare per altre terre ed altri mari,
e chissà quanti mattini
mi vedranno entrare in porti sconosciuti!
Intanto s’allungano le ombre del crepuscolo,
e non più di porpora è tinta la città.
Del resto, a che valeva per me
tanto fascino e tanta bellezza?
Con belle musiche son sempre vive le piazze,
e danzano le donne dalla pelle d’ambra
e l’incendio negli occhi.
S’incrociano nelle buie strade
sguardi impudenti ed ammicchi malandrini.
Qui la notte assaporerà se stessa
e presto si darà al piacere.
Intanto guardan giù le curiose stelle
e turbinano nel cielo di Casablanca
per coprire il silenzio della pallida luna.
Il suk s’è fatto deserto,
ed allora cammino in vicoli angusti e lerci,
con la mente ad un passo dal nulla.
Ma ai bordi della città mi lascio cadere sulla sabbia.
Ed ora sto qui seduto,
accanto ai miei anni perduti, lunghi come secoli.
Così chiudo gli occhi,
e nel silenzio ovunque vagano i ricordi:
rivedo Marrakech dalle rosse mura,
e fra le sue palme sento soffiare il vento.
Poi avanzo nel deserto di Merzouga a Taurirt
fra spigoli di terra rossastra.
Salgo infine sul monte Toubkak, e qui ascolto echi
d’infinito.
Lontano allora si perde il mio sguardo,
laggiù, verso l’antica valle del Draa.
E pian piano s’arretra la notte,
mentre il tappeto stellato scolora,
Ora vorrei dormire
per fare un sogno tranquillo e senza pretese,
ma poi, attimo dopo attimo,
guardo quel chiarore, laggiù, all’orizzonte:
è l’alba che come bionda bambina
viene incontro alla notte.
Sospirando, dico allora a me stesso:
son già passate le quattro,
alle cinque brillerà il nuovo giorno,
e poi il domani e il domani ancora, comunque,
fino a quando lo vorranno gli oceani infiniti del tempo.


[continua]


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