Una vita nel deserto

di

Mario Vierucci


Mario Vierucci - Una vita nel deserto
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 38 - Euro 5,00
ISBN 978-88-6037-398-4

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Prefazione

Nella raccolta di “Una vita nel deserto”, Mario Vierucci è senza dubbio abile nell’esporre le sue idee attraverso poesie profonde e brevi componimenti che riconducono a visioni esistenziali e, ancor più, è sempre deciso ed attento nel rafforzarle con i suoi argomenti.
La vis poetica offre slanci fulminanti verso una vita più intensa e, al contempo, nelle sue parole, si ritrova la sensazione di sentirsi annullati in una strana liquefazione e, in alcuni passaggi, emerge la constatazione dell’insufficienza della vita cosi come la consapevolezza che il lento rassegnarsi alla quotidianità può condurre al “crollo”: e poi non si può che restare “storditi” come dopo una catastrofe.
La presenza dell’uomo è evanescente, un “fantasma”, “ombra che attraversa altre ombre”, uomo “legato a fili di memoria” mentre le stagioni della vita passano inesorabili e nemmeno ci accorgiamo come scorrono veloci gli anni: il cuore non si arrende, le labbra sorridono ancora, gli occhi piangono e sempre si alimenta “l’angoscioso desiderio d’amore”.
E il poeta, come nomade che cerca spazi di tranquillità, si muove tra i chiaroscuri della vita che passa, a cercar l’armonia al crepuscolo, a vagare sognando tra le dune del deserto: l’oro da conquistare sono i frammenti di personali verità, il vento del sud, il sogno della donna nera del nadir, la meraviglia del cielo, la notte, le stelle.
Scrivere parole per risvegliare il vuoto dei luoghi, per abbandonare i legami che attanagliano e tengono prigionieri in questo mondo, nell’attesa d’un solo gesto che possa avvicinare ad un’armonia celestiale: la figura d’un viandante solitario che cerca, tra assolate immagini e riverberi della memoria, l’elisir che possa alleviare le inutili pene terrene.
Ci si ritrova in una dimensione fuori dai luoghi comuni, “fuori da tutto”, come non ci fosse tempo per il sonno, a camminare sotto la “malinconia della luna”, al rosso d’un tramonto per ritrovare la gioia del cuore, per combattere la precarietà della vita.
Eppure, leggero soffio è la poesia, e anche l’amore si può ridurre a “piccoli frammenti”, ed allora l’eterna illusione viene a prenderci in una “lunga notte a Istanbul”: gli anni perduti svaniscono nella sabbia, la caduta nelle tenebre diventa, prodigiosamente, un lento inebrirasi di sogni sotto un “cielo d’opale” o in un “meriggio caldo”.
A dissolvere la confusione del vivere giunge infine la figura del beduino Shahid Keertane, poeta e gran sognatore che visse gran parte della sua vita nel deserto dell’Arabia Antica: forse la guarigione e poi in un sogno apparve il deserto, l’abbandono di tutto, a vivere come sospeso tra passato e presente.
Cosa aspettarsi ormai dalla notte?

Massimo Barile


Una vita nel deserto


A Maria, mia moglie carissima, con amore infinito
dedico questa raccolta di poesie e racconti.


La donna nera del nadir

Un po’ pazzo e vacillante mi rese quella sera l’assenzio.
Così, all’apparire delle stelle,
mi domandai cosa potevo aspettarmi dalla notte.

Ma poi caddi in un sonno profondo e sognai la donna
nera del nadir
che m’attendeva nella sua tenda-alcova,
colma d’ambre e voluttuosi aromi d’ogni specie.

Era lì, tutta nera e ornata di conchiglie bianche:
pareva che per lei cantasse la luna tanto era bella
nelle sue vesti di seta.

Io la guardai come non si guarda la donna di una notte
per quei suoi occhi volti al plenilunio, tristi come
due nuvole grigie.

Estasiato, accarezzai le sue mani mentre la luna la
palpava con fradice dita.

Passò allora l’amore nella sua carne stupenda
e nel respiro della bocca,
cosicché brillarono nei suoi occhi
e rotolarono le luci ed i colori del prisma.

Lei restò immobile, come immersa in un ineffabile languore
e poi si svestì – cosa strana – davanti allo specchio
mio antico.

Allora, con versi ameni come ninnoli,
fino all’alba io le chiesi d’amarmi e così fu la sua risposta:
assorta, a voce bassa, con un consentimento tacito.

Poi, sinuosa, si mosse verso di me guardandomi
con occhi di brace.
Anch’io la guardai
e sulle sue labbra non lessi remora alcuna alla forma
del piacere.

Mi toccava già il cuore e il corpo una squisita emozione,
quando, ad un tratto, fui svegliato di soprassalto
da suoni e canti che venivan su dalla strada.

Allora io rimasi lì solo, nell’oscurità,
ad evocare la donna nera del Nadir, fantasticando sui miei godimenti vagheggiati solo in sogno.

Ma lì, in un angolo, s’allargava lo specchio mio antico
e s’esaltava d’aver accolto in sé, per attimi, l’armonica beltà.

Intanto, nel cielo d’opale andava a svanire lo scialbo
incantamento della luna e tutte di me ridevan le ultime stelle.


Notti

Le mie son notti dei venti del sud,
notti dal flebile respiro
che fan viaggiare nel tempo dei sogni.

All’apparire delle stelle,
m’incammino con la tenera notte che cresce
e mi culla in un fluttuante assopimento.

Poi abbraccio l’ipnotico sonno
e vago sognando fra le dune del deserto.
Qua e là, lascio l’impronte dei miei versi sulla sabbia
ed al risveglio, vado verso uno sciocco sbadiglio
di soddisfazione.

Talvolta m’appaiono in sogno entità con volti dai vaghi
contorni: son persone care che un giorno ho baciato,
con mani bianche che ho tenuto fra le mie mani.

Con paura e sospetto,
alcuni si guardano intorno con occhi esterrefatti
ed altri riempiono il fiato di voci che non sanno chiamare.

Poi arriva l’alba
e nel nulla svaniscono le diafane ombre dei miei fantasmi.

Ogni sera, dopo il tramonto,
verso di me l’oscurità vien frusciando.
Così, torna sovente a prendermi la notte
e gelosa mia spia
se nel mio taccuino induco in versi la malinconia della luna.

Quando s’annoia il cielo delle stelle,
s’alza la luce del giorno
e con un alito di vento
m’accarezza premuroso un soffio di poesia.


Un amore
(Travemunde – Mar Baltico – Gennaio 2005)

In queste notti d’inverno generose di stelle
risento sulla pelle la gelida carezza del vento
ed in sogno mi vieni incontro tu, mia cara Inge,
con la tua apparente frivolezza,
pervasa da un certo candore che io amavo tanto.

Poi mi sveglio e vago a ritroso nel tempo,
quando ci avvolgeva una tela d’amore.

Rivedo gli incontri di mani,
lo sfiorare di visi, delle labbra, come a caso.
E poi, tatto di membra (un attimo appena), furtivamente,
perché la madre non s’avvedesse mentre al sole ricamava in giardino.

Ma ora il nostro amore s‘è ridotto a piccoli frammenti.
Più non brillano per me i tuoi occhi
e mi dicono soltanto che la nostra storia è finita.

Eppure, insieme a te io vorrei ricomporre quei frammenti qui,
su questa spiaggia sul Baltico
che un giorno vide il nostro primo incontro.

Tu non sai che
l’eterea parvenza del tuo volto, così bello, così indefinito,
varca ogni notte le colline dei miei sogni.

E quando apro gli occhi, si risveglia all’alba la memoria.
Anche le labbra ricordano.
Nelle mie mani un senso tattile s’accende e associa percezioni,
associa attimi d’amore.

Poi vedo i tuoi occhi che mi sorridono:
io m’illudo ancora
e lascio che un’estrema tenerezza accompagni l’avvicinarsi dei tuoi passi.


Quella lunga notte a Istanbul

Ricordo ancora l’incanto di quella sera, quando
al tramonto il sole scese giù dietro la grande moschea.

C’era ancora aria di festa nelle strade di Instanbul,
con costumi, musiche e danze frenetiche
che evocavano per noi antichi splendori.

Dilagò quindi il buio della notte con una sarabanda di
effluvi forti e dolciastri.

Portata dal vento, arrivò una canzone turca ammaliatrice
e tu, mia cara Asena, mi dicesti per la prima volta:
“io ti amo, Kadir”.

Nel cielo spuntò subito un quarto di luna.
Forte ci prese il desiderio d’amore e ci unimmo allora
in un tenero e lunghissimo abbraccio.

Spirò un vento leggero ed amico che ci regalò
un sonno profondo.
Ma nel mio sogno, ti smarrii nell’immensa dimora di un Sultano
e correndo, ti cercai fra una folla
che sembrava impazzita.

Ad un tratto – non so come – mi trovai in un antico Hammam,
avvolto da una penombra calda e umida.
E fra fontane e teneri sciabordii di acque,
scorsi te, bellissima, immersa in un ineffabile languore.
Ti fissavano occhi scuri dagli sguardi affatto innocenti
e sul tuo volto scoprii un colpevole sorriso.

Come un veleno, dentro di me scese allora un liquido
amaro e volgare.
Mi portai la mano alla bocca,
ma fui svegliato di soprassalto da una preghiera ad Allah
che giunse da un minareto con voce forte e accorata.

Intanto arretravano le stelle e impallidiva il nostro
quarto di luna.

Eppure, nella luce incerta dell’alba,
si riaccese il desiderio con le carezze.
Ma dal Bosforo arrivò un vento caldo
che come l’oppio ci offuscò la mente in modo sottile
e si risvegliarono all’improvviso i ricordi di amori passati:
io ti guardai negli occhi
e tu mi baciasti la fronte per frugare meglio nei miei segreti.

Con rumori e voci concitate, si svegliò la Porta d’Oriente.
Poi ci lasciò il vento della notte ed i nostri sogni
con sé si portò via.

Toccandoci le labbra, ci giurammo alfine eterno amore e quando fu giorno,
nella tenerezza si sciolsero i sensi assopiti.

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