Opere di

Mary Frances Kennedy Fisher


Tratto da «Mary Frances Kennedy Fisher
Biografia sentimentale dell’ostrica»
Neri Pozza Editore (Vicenza – 2005)
Titolo originale: «Consider the oyster» (1941) (Duell, Sloan & Pearce)


L’ostrica conduce un’esistenza terribile e al contempo eccitante.
Tanto per cominciare, le possibilità che venga al mondo sono minime. ma se ce la fa, se sopravvive agli strali del suo stesso, stravagante destino e se nelle due settimane della sua spensierata giovinezza trova un appiglio liscio e pulito a cui aggrapparsi, la sua vita adulta sarà una girandola di passioni e pericoli.
L’ostrica… ma perché poi al femminile, se non per intenderci? Quasi nessuna ostrica normale sa, da un anno all’altro, se è un lui o una lei e, dopo il primo anno di vita, potrebbe incominciare in qualsiasi momento a deporre uova anche se prima aveva sfogato tutte le proprie energie sessuali in modo eccezionalmente virile. Nel caso in cui il lui sia una lei, le sue energie sono altrettanto spiccatamente femminili, tanto che in una sola estate, se tutto va bene e se la temperatura dell’acqua si mantiene intorno o al di sopra dei 20 gradi, può deporre, con orgoglio più che giustificato, parecchie centinaia di milioni di uova, da quindici a cento milioni per volta.
Le ostriche americane sono tanto diverse tra loro quanto lo sono gli americani stessi. Infatti, mentre i molluschi della costa atlantica trascorrono l’infanzia e l’adolescenza lasciandosi trasportare dalle correnti liberi e indifesi, concepiti lontano dalla madre e dal padre che ha rilasciato lo sperma nei paraggi delle uova, le ostriche del Pacifico se ne stanno, fecondate e al sicuro, in speciali “incubatrici” nella conchiglia materna fino a quando hanno più o meno due settimane di vita. Le ostriche della costa orientale sembrano più audaci.
E così, nell’acqua, è nata una piccola ostrica. All’inizio, cinque o dieci ore dopo che il virile e sconosciuto progenitore ha fecondato qualche centinaio di migliaia di uova della stessa madre, non è niente più che una larva. È piccola ma può nuotare liberamente… e infatti vaga spensierata per circa due settimane, ovunque le correnti e i suoi bizzarri capricci la spingano. In questa fase è chiamata veliger, a causa el velum che le permette di nuotare.
C’è da sperare, se si è un filo sentimentali, che la larva – la nostra larva – si diverta. Quelle due settimane sono la sua unica occasione di godere i piaceri del vagabondaggio, del temerario e spensierato errare. E comunque non è del tutto libera, perché per tutta la sua “adolescenza” è impegnata a sviluppare un piede muscoloso e un’abbondante scorta di una sostanza appiccicosa simile al cemento. Se potesse pensare, forse si chiederebbe il perché di tutto ciò.
Scadute le due settimane, la nostra si aggrappa tutt’a un tratto al primo oggetto duro e pulito che le capita a tiro. I suoi cinquanta milioni di fratelli che non sono stati mangiati dai pesci hanno la stessa possibilità di imbattersi in un supporto analogo a cui fissarsi; quelli che non lo trovano muoiono. Ma la nostra larva ha avuto fortuna e, animata da grande ardore, si abbranca con tutte le forze alla sua nuova casa, probabilmente per sempre. In questa fase misura, per quel che può significare, circa un trentesimo di centimetro… ed è un’ostrica.
Visto che è un’americana dell’est, magari di Chincoteague o Lynnhaven, ha trovato un fondo marino piacevole, moderatamente salato, dove le maree sono regolari, l’acqua non è inquinata e la sabbia non la soffoca.
E lì rimane, saldamente ancorata grazie al suo piede sinistro che, a quanto pare, è diventato una valva, come capita invariabilmente ai piedi di tutte le ostriche. Si dedica al bere e ben presto sviluppa un’invidiabile capacità in materia, tanto che con il bel tempo, quando la temperatura si mantiene sui 25 gradi, può facilmente ingollare da venticinque a ventisei litri d’acqua all’ora. Meglio della maggior parte delle altre creature, riesce ad unire l’utile al dilettevole, e dal flusso che passa attraverso le sue lamine brachiali estrae tutte le minuscole, deliziose bestiole, diatomee e radiolari, che costituiscono la sua alimentazione.
La sua casa – parliamo ora delle ostriche “domestiche” – è una sacca di rete di ferro piena di vecchie conchiglie, o forse un palo ricoperto di cemento posizionato da un astuto allevatore. Oppure è quello che il governo descrive con orgoglio come un “raccoglitore particolarmente efficiente”, cioè un tramezzo fatto di contenitori per uova ricoperto con un miscuglio di calce e cemento.
Quale che sia il suo appiglio (e io che sono una sentimentale spero che si tratti per lo meno di un’altra conchiglia, visto che, essendo nata sulla costa americana orientale, la nostra piccola ostrica non potrà mai godersi il piacere estetico di aggrapparsi a una canna di bambù in Giappone o a una tegola messa giù appositamente per lei in Francia o Portogallo), insomma, quale che sia l’appiglio, la fase larvale è ormai alle spalle. Le due piacevoli settimane in cui ha potuto nuotare liberamente sono finite per sempre, la maturità con tutte le sue preoccupazioni è sopraggiunta, e l’ostrica – come aveva notato Richard Sheridan1 in una sua famosa commedia – è ormai presa al laccio.
Per circa un anno l’ostrica – la nostra ostrica – è un maschio, che feconda al meglio alcune centinaia di migliaia di uova, senza nemmeno rendersi conto se gli passano accanto. Poi, un giorno, un profondo desiderio di maternità si fa strada tra le sue valve, nelle sue fredde interiora, nelle branchie e in tutte le sue frange arricciate. La necessità, celeberrima madre, la spinge a seguire il suo esempio. Lui è diventato lei.
Da questo momento in poi, con occasionali ritorni di virilità giusto per non perdere la mano, produce milioni di pargoli ogni anno. A sette anni circa è nel pieno rigoglio della sua femminilità.
È una bella ostrica carnosa, ancor più carnosa in estate, quando gli istinti e la stagione favorevole fanno emergere il suo lato migliore. Ha viaggiato un po’, grazie ad avidi allevatori che, per perseguire i loro bassi scopi, l’hanno assoggettata a questa o quella corrente, a questo o quel fondale. La nostra ostrica è diventata una bella creatura ovale grigio biancastra, con le branchie sfumate di verde, ocra o nero e un rudimentale cervello nella parte anteriore del corpo cieco e sordo. Percepisce le ombre e sente l’urgenza dello sperma, e i suoi muscoli delicati riconoscono il pericolo e le permettono di serrare fermamente le valve della conchiglia.
Per lei, infatti, il pericolo è ovunque e lo sterminio incombe. (Come possiamo sapere con quanta angoscia? Come possiamo dire se soffre o non soffre? In fondo ha un cervello…) Può cadere preda di vari nemici e non può accennare e il minimo movimento mentre la stella di mare la succhia e il verme la perfora.
Ha otto nemici principali, senza contare il più pericoloso, cioè l’uomo, che la protegge dagli altri solo per poi mangiarsela.
Il primo è la stella marina, che fluttua affamata nelle acque dell’Atlantico e avvinghia le sue lunghe braccia intorno all’ostrica come un orribile amante, le divarica con forza le valve, la penetra con il suo stomaco e la digerisce. Una scena terrificante, L’ostrica rimane nuda, una conchiglia vuota, e la stella marina si allontana fluttuando, ancora affamata (e gli uomini cercano di catturarla con congegni che chiamano “spazzastelle”).
Il secondo nemico, quasi altrettanto pericoloso, è una sorta di lumaca, l’Urosalpinea cinerea, che crea minuscoli fori tondi nelle conchiglie e tormenta il povero mollusco al punto da indurre l’uomo a inventare delle trappole con cui, usando le larve come esca, cerca di catturarle. La loro efficacia è però relativa.
Poi c’è una spugna di mare, la clona (Clona celata), che scava minuscole gallerie in tutta la conchiglia, una sorta di nido d’ape, finché l’ostrica, tentando di tappare i fori, diventa debole e smagrita. A quel punto la spugna tenta di soffocarla dall’esterno. Ecco che cosa voleva dire Louisa May Alcott2 quando scrisse: “Ora incomincio pian piano a vivere, e non mi sento più come un’ostrica malata nella bassa marea”.
Poi ci sono le sanguisughe e le ombrine nere. E anche le cozze possono soffocare le ostriche o farle morire di fame appiccicandosi alle conchiglie e mangiando tutto il loro cibo. Sulla costa del Pacifico, le conchigliette dal pomposo nome scientifico di Crepidula fornicata fanno danni ben peggiori delle cozze. E ogni tanto persino le anatre, volando qua e là come solitamente fanno le anatre, atterrano sui banchi di ostriche per un tempo sufficientemente lungo per un pasto disastrosamente abbondante.
Si dice che la vita è dura, ma la vita di un’ostrica è ancor peggio. Vive immobile, silenziosa, con l’unica stravaganza costituita dalla propria forma, bruttina e fredda, e se riesce a sfuggire alla minaccia di anatre-lumache-cozze-ombrine-sanguisughe-spugne-stelle di mare… finisce in pancia all’uomo.
A giudicare dagli avanzi di cucina di epoca preistorica, l’uomo si ciba di ostriche fin da quando era poco più evoluto di una scimmia. Con la determinazione che lo contraddistingue, ha speso tempo e denaro per capire come proteggere le ostriche da creature che minacciano di succhiarle, forarle e farle morire di fame, tanto che ora è relativamente facile cibarsi di questo mollusco bivalve, senza dedicare neppure un pensiero ai pericoli che il poveretto ha affrontato nei suoi pochi anni di vita. Il gelido, delicato corpicini grigio scivola in una casseruola o su una piastra, oppure, vivo, giù per una gola, ed è fatta. La sua vita è stata vuota ma piena di pericoli, e ora che si è conclusa noi ne siamo, forse, la parte migliore.


Ci sono storie che, quando si raccontano, sprigionano intorno a sé un profumo di Età dell’oro, e mentre si ascoltano si dimentica tutto tranne il calore e l’incredibile euforia di quei tempi lontani: questo per dire che le ostriche possono essere affascinanti come Ozymandias, il re dei re, e altrettanto indimenticabili.
Ricordo ancora la bellissima, misteriosa sensazione di benessere che provavo da piccola ascoltando mia madre rievocare certe sue cene in collegio.
Venivano chiamate “banchetti di mezzanotte” e le insegnanti ne erano tenute all’oscuro, nella migliore tradizione di fine Ottocento. I banchetti consistevano prevalentemente di pane alle ostriche. Ci saranno state altre cose da mangiare, e forse le fanciulle più audaci osavano bere della birra allo zenzero, ma temo piuttosto che si trattasse di un dolciastro sciroppo di lamponi allungato con l’acqua o di un altro beveraggio altrettanto infelice. Forse giravano anche sigarette, sottaceti e caramelle, ma è il pane alle ostriche l’unica cosa che ricordo.
So che non riuscirò mai ad assaggiarne uno di uguale, se non nei sogni, e nemmeno mia madre… sempre che l’abbia davvero fatto. Ma riesco a vederlo e a sentirne il profumo, e so persino quali parti masticare e quali lasciar sciogliere contro il palato, deliziosamente calde e confortanti, anche se mia madre di sicuro non me lo disse mai.
Il miglior panettiere del villaggio apriva una pagnotta e la privava della mollica, la farciva con un saporito ripieno di ostriche calde e quindi, secondo il vago eppur vivido racconto di mia madre, rimetteva al suo posto il “coperchio” e il tutto andava dritto in forno fino a quando era dorato e croccante. Infine il pane farcito, avvolto ben bene in uno strofinaccio candido, veniva nascosto sotto la mantellina di una cameriera del pensionato che correva dritta al dormitorio, su per le scale di servizio e fino alla camera che il panettiere le aveva indicato.
Le ragazze, sei o sette perché la pagnotta era davvero enorme, aspettavano sedute sul pavimento con indosso le loro migliori vestaglie a fiori, mentre una faceva la guardia tenendo d’occhio il buco della serratura e badando a non far filtrare la luce tremolante della candela o della lampada accuratamente velata. La cameriera raggiungeva il gruppo di ragazze bisbiglianti e ridacchianti, deponeva il fagotto caldo e, sebbene fosse stata ben pagata per il servigio, era sempre pronta a prendersi una manciata dei burrosi biscotti che le madri delle fanciulle spedivano da casa ogni settimana. Quando se ne andava, il pane alle ostriche veniva finalmente liberato dallo strofinaccio.
Al giorno d’oggi potrebbe sembrare un comportamento sciocco, un gustoso preludio a qualche crisi di fegato, ma allora c’era qualcosa di positivo ed eccitante nella ghiottoneria delle ragazze, tanto che quando mia madre me lo raccontò pensai subito, come gli anziani signori dello Spectator, che quelli erano davvero bei tempi, più felici di quelli che potrò mai vivere io.
Con gli anni presi l’abitudine di cercare la voce “ostriche” in qualsiasi ricettario m’imbattessi, per vedere cosa diceva del pane alle ostriche. Non che avessi intenzione di prepararlo, semplicemente mi veniva in mente quel vago ricordo di mia madre. Di solito la ricetta era più o meno simile a quella di André Simon3.


Pane alle ostriche

Mettete in una ciotola 75 grammi di pangrattato, incorporatevi 60 grammi di burro e un pizzico di sale; aggiungete tre rossi d’uovo, il liquido ottenuto da due dozzine di ostriche e le ostriche stesse, pulite e tagliate a dadini.
Rivestite uno stampo da charlotte ben imburrato con uno strato di farcia di pesce di almeno due centimetri di spessore; versate il miscuglio di ostriche e ricoprite con la farcia. Fate cuocere a bagnomaria a temperatura moderata per circa 45 minuti.


Ovviamente si tratta di una versione particolarmente raffinata, che Monsieur Simon ammette di aver imparato da un inglese, di quel terribile polpettone rozzo e indigesto fatto con ostriche di pessima qualità che a volte si trova nei peggiori ristoranti della costa atlantica. L’ho visto spesso, ma per fortuna qualcuno mi ha sempre convinta a non assaggiarlo, nemmeno a scopo di ricerca. La ricetta di Monsieur Simon è ottima… eppure non ha nulla in comune con quella di cui parlava mia madre.
Ne ho trovate un paio che si avvicinavano abbastanza a quella che stavo cercando, eppure le papille della mia immaginazione, abituate alla soave e bruciante perfezione di quel “banchetto di mezzanotte”, sapevano già che erano roba da poco.
Persino la signora Simon Kander, che solitamente stempera la fredda praticità del suo ricettario4 con il calore innato dovuto alle sue origini ebraiche, mi ha deluso con una fiacca ricetta di “ostriche in crosta”.
Finalmente alcuni anni fa ho trovato, nell’All-Western Cook Book del Sunset5, un’intera colonna dal titolo, Dio sia lodato, “Pane alle ostriche”, che suggeriva tre o quattro modi di preparare quello che, come insinuava l’autrice con un campanilismo assolutamente perdonabile, era un piatto particolarmente apprezzato dagli abitanti di San Francisco, e almeno una delle ricette sembrava, finalmente, simile a quello che avevo sempre sperato costituisse il banchetto di mia madre da studentessa.
tra le altre cose il Sunset consiglia – una volta cotta in forno la pagnotta svuotata dalla mollica e riempita con la farcia di ostriche e pangrattato – di affettarla e servirla accompagnata da una salsa alla panna o al formaggio.
Dice anche che si possono riempire degli sfilatini con una crema di ostriche, infornarli e servirli ben caldi. Insomma, fornisce molte ricette, ma una particolare mi infonde una sorta di affettuosa nostalgia.


Pane alle ostriche

Tagliate la parte superiore di una forma di pane croccante e togliete la mollica al centro. Spalmateci un po’ di burro e infornate la pagnotta finché non sarà ben calda e leggermente tostata. Nel frattempo passate delle ostriche di media grandezza in una pastella di uova e pangrattato e friggetele in padella fino a quando saranno dorate. Riempite la forma di pane con le ostriche, versateci sopra del burro fuso e rimettete il “coperchio”, anch’esso tostato. Il vostro pane alle ostriche è pronto per essere gustato… oppure, dopo averlo avvolto in diversi fogli di carta paraffinata, potete portarvelo al picnic. Se siete solo in due, una pagnotta piccola andrà benissimo.


Questa ricetta rappresenta, almeno per me, quello che ho cercato per tanto tempo. Posso cambiarla come mi pare, e anche versare un po’ di panna sulla pagnotta o cospargerla di pepe di Caienna, ma in sostanza è quella dei sogni della mia infanzia… e probabilmente è molto migliore di quella che le fanciulle divoravano tanti anni fa durante i oro incontri segreti nel dormitorio male illuminato.
E tuttavia… tuttavia quelle rimarranno, nella mia gastronomia mentale e per le mie papille gustative spirituali, le ostriche più deliziose che io non abbia mai assaggiato.
Oh, madre, quelli sì che erano bei tempi!


1 R.B. Sheridan (1751-1816) drammaturgo irlandese, autore di The Critic
fn2. L. M. Alcott (1832-1888), scrittrice americana di romanzi per la gioventù, la cui opera più nota è Piccole Donne.
fn3. A. Simon, French Cook Book, Little, Brown and company, Boston 1938.
fn4. S. Kander, Settlement Cook Book, Milwaukee 1931.
fn5. G. A. Callahan, All-Western Cook Book, Lane Publishing Company, San Francisco 1935.


RICETTE Kennedy Fisher


Salsa tartara

1 tazza di maionese
1 cucchiaio da tè di erba cipollina tritata
1 cucchiaio da tè di dragoncello
1 cucchiaio da tè di cerfoglio
1 cetriolo sottaceto tritato
1 cucchiaio da tè di capperi
1 pizzico di pepe di Caienna
1 oliva tritata
senape a piacere (facoltativa)
aceto a piacere


Mescolate tutti gli ingredienti tranne l’aceto, che aggiungerete pian piano finché non otterrete la giusta punta di agro. Ce ne vorrà più o meno un cucchiaio da tavola.


Gombo di ostriche


2/3 di tazza di cipolla tritata finemente
2 cucchiai da tavola di burro o di buon olio d’oliva
4 cucchiai da tavola di farina
2 foglie di alloro
1 cucchiaio da tè di sale
5 gocce di tabasco
2 dozzine di ostriche
1½ tazza d’acqua
3 cucchiai da tavola di prezzemolo finemente tritato
1½-3 cucchiai da tè di zafferano in polvere, a piacere


In una casseruola o in una padella pesante fate saltare la cipolla nel burro finché diventa morbida ma non scura. Unite la farina, l’alloro, il sale e il tabasco.
Raccogliete il liquido delle ostriche e versatelo un po’ alla volta, insieme all’acqua, nella padella continuando a mescolare. Lasciate cuocere per un quarto d’ora circa, rimestando di tanto in tanto.
Senza mai smettere di mescolare, aggiungete le ostriche, il prezzemolo e lo zafferano. Non appena inizia a fumare, portate la zuppa in tavola e versatela generosamente sul riso bollente già disposto nei piatti.


Zuppa di ostriche


4 dozzine di ostriche
3 tazze di latte
1 tazza di panna
3 cucchiai da tavola di burro
2 cucchiai da tavola di farina
½ cucchiaino di sale
¼ di cucchiaino di pepe
1 cucchiaio da tavola di cipolla grattugiata


Fate sciogliere il burro, aggiungete la farina e mescolate bene, poi versate pian piano il latte, rimestando di continuo, la panna, il sale e il pepe, e infine la cipolla. Scaldate bene su fiamma bassa. Nel frattempo fate bollire le ostriche nel loro liquido. Lasciate cuocere per 5 minuti o finché si arricciano. Scolatete e versatele nella salsa, lasciandole scaldare per circa 5 minuti senza far bollire. Servite immediatamente.

Mary Frances Kennedy Fisher



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