Opere di

Massimiliano Malerba

Con questo racconto è risultato 6° classificato – Sezione narrativa alla XVII edizione Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2009


Capitano

Vola Capitano. Vola.
È così facile ora.
Questo ponte è alto. Questo ponte che è stato costruito negli anni settanta, quando tu sei nato.
Tutto di cemento ad archi e volte. Con le scritte a bomboletta di lato, dove si può scendere sotto la campana principale. Dove qualcuno del paese va a fumare ancora oggi, o a fare l’amore di nascosto. Dove si può scrivere in rosso ‘M. ama B.’ oppure ‘vaffanculo a morte a tutti gli extracomunitari’. Che importa? Tanto tu voli.
E sì che questo lo sai fare. Non è difficile, Capità.
Le pareti a strapiombo sulla marrana del paese sotto, infognata nell’erba alta, dall’odore caratteristico, nauseante, come di seme umano, passano veloci. Cadi. Il vento ti fa rizzare i peli sulla schiena, tanto ne godi. È così bello. Il vento lo senti frusciare sull’orecchio. Ti sibila sottile dentro l’apparecchio acustico come una serpe, questo vento.
Le pareti bagnate fradicie, sudicie, del ponte, scorrono veloci. A un centimetro dalla tua faccia. Le puoi toccare. Ci puoi fiatare sopra. È bello. È facile. Vero, Capitano? Guarda in basso: milioni di metri più in basso. La marrana può attendere, perchè ora l’importante è volare.
Goditi la caduta.

Questo nome, Capitano, ce l’hai da sempre. Da quando ci avevi dieci anni, che potevi capire qualche cosa.
Capire qualche cosa.
Ti ricordi? Non è stato proprio Salvo a dartelo quella notte d’estate? Tanto tempo fa.
Disse: «Mo ti chiamo ‘Capitano’, Pasqualì, da oggi in poi sei Capitano. Ti piace? Te lo meriti, perché sei un tipo sveglio». A te era piaciuto, ma non hai mai capito perché tutti gli amici risero.
E quanti ne hai di amici! Sempre insieme a te. Sempre intorno: c’è Salvo con le sue scarpe di pelle di camoscio, a mò di cow boy; c’è Marco, detto “Trombetta”, perché con la bocca ci sa fare; c’è Biagino, con le sue camicie a fiori, sempre sporco e puzzante di birra. C’è Sofficino, quello che ride sempre. C’è Lametta, l’aiuto del barbiere. E pure qualche femmina, qualche guagliona, ci sta che la sua compagnia non te l’ha fatta mai mancare. Ricordi o no? Sempre insieme. E che risate!
Sempre insieme.
Ricordi quando, in quelle sere d’inizio estate che sembravano non finire mai, in quelle sere quando tutto è così speciale, così frenetico e ci sono le luminarie accese nel paese e gli altoparlanti istallati dal sindaco, nuovi nuovi, che mandano canzoni alla moda, in quelle sere, quando si parla al bar di questo e di quello, della Juve e della Sampdoria, o delle corse motociclistiche, di chi è andato per terra e di chi ha vinto, quando sotto i portici della piazza te ne stai con gli amici, a ridere e a scherzare, ricordi? Quando tutto è così magico e ci sono le luminarie rosse e verdi e blu, e nella piazza c’è la banda che suona il salterello, e tu stai là che balli davanti alla chiesa con gli amici? Come un demonio, balli.
In quelle sere là, quando «Capità, Capità, cantaci un po’ una canzone!» e tu bendato canti, e gli schiaffi non li senti, perché ci sei abituato. Poi qualche migliaio di lire in tasca te lo trovi, per comprare le sigarette. Gli amici cinquecento lire a canzone te le danno, e che te ne fotte se poi qualche ceffone nella notte arriva pure.
Ne hai presi tanti da piccolo. Ne hai presi per tutta la vita.
«Capità canta, mannaggia la mad…». Botte e monete, tintinnano insieme. Fanno così ma non sono cattivi. Sono i tuoi amici, Salvo e Lametta e Sofficino e Trombetta. E c’è pure qualche guagliona, bella forte. Tutti insieme, sempre.
Ti chiamano Capitano perché dicono che sei ‘svelto’ di comprendonio. Ma il motivo vero non lo hai mai capito. Però ti piace questo soprannome. In paese tutti hanno un soprannome. Perciò pure tu ce lo devi avere, e sei contento se ti chiamano così. Perché in fondo se lo fanno, sei parte anche tu di loro. Sei parte anche tu di questo paese. Ti senti qualcuno.
Ora guardi giù. E cadi. Il vento ti assorda, attutisce tutte le cose. Il mondo dietro il vento appare lontano, ovattato. È tutta un’altra cosa. Tutto turbina, gli amici, le ragazze, tuo padre, tua madre che non l’hai mai conosciuta, la banda del paese, la piazza, i giochi, le luci, Santantonio, la chiesa, il parroco, il salterello, le sudate sul selciato di marmo duro, le birre alla mattina alle dieci, e pure le botte e le risate, le risate e le botte. Ma quando ne prendi di mazzate tu però, non ridi mai.
Vola, vola giù.
Adesso stranamente ti torna in mente tuo padre. Quando eri piccolo, ti ricordi che giocava sempre con te? Però poi ha smesso. Tua madre non te la ricordi invece. Tuo padre ti ha detto che è morta quando sei nato. Un giorno te lo ha spiegato, ci ha provato. Ti ha detto che c’erano complicazioni, che c’è stata l’anossia. Questa parola però tu non l’hai mai capita.
Tuttavia hai sempre sospettato che è per colpa di questa anossia che tutti ti prendevano per il culo. Anche tuo padre. Anche lui che poi beveva e bestemmiava il cielo e la Madonna dicendo «chi me lo ha mandato ‘sto porco, questa croce».
Sempre arrabbiato, sempre sudato, senza motivo.
Poi ha smesso di giocare con te. Diceva che i soldi per l’apparecchio acustico te li dovevi guadagnare. Pasqualino.
Le pareti scorrono veloci. Ci sta pure che allarghi le braccia al vento e provi a volare, chissà.
Questi del paese, questi amici, questa gente, che ne sa? Che ne sanno loro di quanto è forte una cassa toracica? Lo sanno di quanto è forte? Lo sanno quanto ci mette a rompersi sulle rocce della marrana? Lo sanno come si fa a volare? E quanto ci vuole a morire, Capità, tu lo sai?
Lo sai che vuol dire se ti rotoli aggrappato all’erba dopo l’urto, nella marrana, coi fiori che odorano di sperma, e quanto ci vuole a morire nella rena quando raspi la terra e gratteresti il ventre del cielo, il ventre di Dio, per poter tornare indietro? Per tirare un altro solo respiro?
Adesso lo scoprirai.
Le luci della sera si accendono. Le luminarie della festa, Santantonio. Tra poco la banda inizierà a suonare. Sarà pieno di gente. Pieno di giovani sudati fradici. A ballare la ballarella. Le zampogne arriveranno fino sopra al campanile, sopra l‘arco a volta. Fino al cielo. Fino alle porte del Padreterno. E tutte le guaglione si alzeranno la gonna mentre girano. E sarà pieno, pieno di cosce da guardare e di vino, e di drappi rossi e fazzoletti, e piedi scalzi e sporchi e stelle che manco si vedono tanta la luce che c’è. E tu dove sei Capità? A cadere, sei.
Ricordi quella volta, di quando arriva Trombetta e ti fa: «Azzecca in cima alla macchina Capità, Sali!»? Quella volta là, che nella macchina ci stavano Salvo e Sofficino, e Trombetta, e Irene. Ti ricordi, stretto in una morsa sul sedile di dietro, tra gli amici tuoi? «Tranquillo Pasqualino che mò ci divertiamo». E tu ti fidavi. Ma avevi pure un po’ paura. Allora ve ne andaste nella campagna su, vicino al colle del cimitero, tu e gli amici. «Mo ci divertiamo». Ti ricordi che arrivando sul piazzale davanti al cimitero ti fecero scendere a mazzate sulle orecchie, tanto che ti volò l’apparecchio e lo cercasti dentro l’erba? «Sto scemo di cazzo sarà pure arrapato guagliò» disse Salvo. «Mo ci penso io» rispose Marco. E davanti alle tombe ti fecero spogliare e tu gridavi. Forte. Ma nessuno ti poteva sentire. Manco Cristo. Gridavi che ti vergognavi. Ma nessuno poteva intervenire. Manco Cristo.
E Irene disse «Ora vediamo un po’ che sa fare sto scemo di cazzo». E ti tenevano con tutto il peso del corpo. E sopra Irene ci stavano le stelle che le potevi toccare. E poi dopo Irene ci stette Marco e pure Salvo. Poi ti riportarono in paese.
Ma ora che ti frega? Poi tutto passa. Adesso sei tu l’artefice del tuo destino, Pasquale detto il “Capitano dell’FBI”.
Sei tu che scegli, quando e come vuoi. Allarga le braccia. Allarga le gambe. Sentilo, questo vento che ti bagna la faccia e i vestiti. Gira, gira nell’aria come fosse una ballarella. Tu sei bravo a ballare la ballarella: sei il migliore. È l’unica cosa che nella vita sai veramente fare. Quindi che aspetti?
Balla dentro l’aria.

«Balla balla ballarella
N’cielo esce n’ata stella
Balla balla ballarella
Tu si sempe
la cchiù bella»

Però ora lo puoi dire forte che sei un uomo. Perché solo se sei stato con una femmina puoi dire di essere un vero uomo. E tu lo puoi dire forte. Hai capito, Capitano?
E qualcuno una notte poi inventò anche il nome “Clacsonn”. Con due enne. Perché quando al bar tutti i paesani ti torcevano l’orecchio, gli strilli arrivavano in cielo. E tutto il paese ti sentiva, e molti al bar del Corso dall’altra parte della piazza ridevano. Poi ti davano pacche sulle spalle, per rincuorarti. Perché con le foche si fa così, le alici se le sono guadagnate. E pure tu te le guadagnavi. Così, ti sembrava davvero un piccolo prezzo questo da pagare: per avere poi le sigarette, la birra e tanti amici veri. Perché tanto dopo tutto passa. Tutto, tutto passa veloce, Capità, tutto scorre via come sabbia e sporco lavato dalla pioggia. Devi solo aspettare. ‘Sto tempo si porta via il mondo, e si porterà via pure te.
Si porterà via pure gli amici tuoi: come Salvo, Trombetta e Lametta, Sofficino che ride senza due denti, e Irene che ti è sempre piaciuta. Arriva il giorno che non senti più niente, non senti davvero più niente e il tuo corpo non appartiene più a te: appartiene al paese il tuo corpo, insieme all’anima tua e a tutti i tuoi affanni. Pasquale ‘Capitano’ è del paese, non è suo. È il paese che decide: che lo cura, che lo tiene in vita, che lo ciba, che lo fa divertire. E per il paese tu devi fare il tuo dovere. E il tuo dovere, Capità, è sempre stato molto chiaro. In fondo poi non è così brutto essere così come sei dalla nascita. Ci sono tanti lati positivi. Tuo padre era sempre arrabbiato, sempre sudato. Senza motivo. E lavorava come una bestia fino alla sera e non rideva mai. E dov’è ora? È sottoterra.
Tu non devi lavorare.
Non devi sudare.
Non devi arrabbiarti, non devi darti ansie.
Devi sono fare il tuo dovere. Puoi fumare e bere e cantare e ballare il salterello quando ti pare. Grandi, grandissimi vantaggi. Devi solo stare zitto quando ti arriva sulla faccia, devi resistere quel decimo di secondo di dolore e niente più. È davvero facile.
E pensi alla canzone, mentre cadi, guaglione, “balla balla ballarella”. E disarticolato ti muovi e le pareti scorrono veloci e le stelle girano girano. Che le puoi toccare. A morte gli extracomunitari, a morte, leggi. È solo un lampo rosso. Il vento caldo ti prende e ti porta in un luogo nuovo, più sicuro. Non ci sono più i pensierini da scrivere che non ti venivano e le divisioni, quelle odiose divisioni e moltiplicazioni che non sapevi fare. Non ci sono più le frazioni e le mele e le pere e la storia e la geografia e le barbabietole e le canne da zucchero, e l’aritmetica che non ti è mai piaciuta perché non ci riuscivi.
Non ci sono più le maestre a dirti che sei un idiota. E tuo padre a maledirti.
Non ci sono più bestemmie né luci, né santi né vino, c’è solo il tuo amico vento.
Ricordi Capitano, che da grande hai imparato a non pisciarti addosso, che avevi oramai diciassette anni, e tuo padre diceva che pure il cane dopo due anni aveva imparato bene?
Ricordi Capitano, di quella volta che il sindaco nel presentare il gruppo di salterello ti ha fatto portare sul palco a spalla e tutti ridevano e battevano le mani a tempo mentre ballavi, e tutto il paese ti guardava?
Ricordi Capitano, di quando portavi il cero alla Madonna che ti piaceva tanto perché assomigliava a Irene? E di quando andavi scalzo dietro a Santo Rocco, col cappuccio, così nessuno ti riconosceva, e tu là sotto ridevi?
Ricordi Capitano, mentre cadi, di quella volta che il farmacista si è arrabbiato perché tu facevi il clacsonn e ha detto di lasciarti perdere e che si dovevano vergognare, e poi giù botte da orbi con gli amici tuoi? E tu spaventato te ne sei andato e hai iniziato a strillare con le mani in testa?
Ricordi, mentre cadi, che Gina della merceria sulla piazza ti dava le caramelle quando andavi là, quella cicciona, però poi voleva le carezze?
Ricordi mentre cadi che ti piacevano i libri vecchi di Salgari di tuo padre con sopra le figure dei corsari e di quelle belle ragazze col vestito lungo?
Ricordi che ti piacevano le crespelle piene d’olio bollente appena fatte e la pizza del forno del paese che sfornava a mezzanotte?
Ti ricordi di quell’uomo-donna che nessuno sapeva dire se era uomo o se era donna? E ti faceva pure un po’ paura?
Ti ricordi del fornaio colla pancia di fuori ricoperta di farina e di sudore?
Ti ricordi della birra corretta con la menta che provasti al bar del Corso, del vino della festa di ferragosto che ti rintronava e poi ridevi nel vicolo mentre la facevi?
Ti ricordi del prete che ti ha battezzato, che tutti dicevano che andava cogli uomini?
Ti ricordi della luce sulle trombe e i clarini della banda a mezz’agosto, sotto il sole cocente, nella piazza, sui piatti e i sassofoni e i flauti colorati d’oro?
Mentre cadi, mentre voli e allarghi le braccia, Capità, pensa a tutte queste cose.
Pensa a tua madre che non ti ha mai visto sorridere. Lei nell’ombra, tu nella luce.
Con un poco, giusto un poco di ritardo. Che vuoi che sia.
Capitano.
Il vento fischia.
Aggiustati l’apparecchio. Sistemati il colletto della camicia. Raccogli le sigarette in terra.
Non passare sopra al corrimano d’acciaio ricoperto di scritte d’amore. Non slacciarti le scarpe. Non ti affaticare. Non ti girare. Non guardare sotto nella marrana, non sentire l’odore dell’erba alta. Non grattare la rena con le unghie sporche, non grattare il ventre di Dio per tornare indietro. Che piangi a fare?
Non salire, non pregare.
Non fiatare nemmeno.
Aggiustati l’apparecchio. Che ne sanno questi qui del paese, gli amici tuoi, di cosa senti tu?
Fai un passo. Fanne un altro. Le luminarie sono accese, la sera sta calando con la sua gilda d’ombra sulle case. Cala fino a dentro il cuore tuo con le sue zampe di sogno.
La musica sta per cominciare, Capitano: le zampogne sono piene del fiato caldo di uomini come te.
Vatti a ballare questo salterello giù in paese.


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