Le pure scorie

di

Massimo Borgonovo


Massimo Borgonovo - Le pure scorie
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
12x17 - pp. 54 - Euro 6,00
ISBN 978-88-6037-7067

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In copertina: fotografia di Davide Nuzzolo
elaborazione grafica di Massimo Borgonovo


Prefazione

Mi ritrovai a sfogliare le prefazioni alle opere dei grandi simbolisti, cercando qualche idea che potesse introdurre questo libro, di un grandissimo, novello visionario.
Man mano che leggevo mi rendevo però conto che non si trattava del tipo d’introduzione che avrei desiderato; non tecniche analisi dei contenuti, non sublimi dissezioni letterarie, non profonde disquisizioni filosofiche. No. Piuttosto un attento ascolto delle vibrazioni delle parole, la musica che producono, i sentimenti profondi che suscitano con irrefrenabile impeto; e la storia, la nostra storia, quella più personale che non riguarda altro che noi stessi e, a volte, pochissimi fratelli; questa storia che esclude il mondo, così egoista, così superficiale e violento, troppo veloce per volerlo seguire. I passi in un bosco, oltre il colle, raccogliendo legna da ardere, quando “le parole come timidi germi di sottobosco in embrione” parevano accarezzarci i piedi e l’amore era da reinventare.

Tante cose mi vengono in mente rileggendo queste poesie, cose sempre diverse. Ed è proprio questa la forza, la potenza letteraria, la componente onirica e simbolica che permette al lettore di renderle proprie e di interpretarle come crede, dandogli un significato personale, adattandole alla propria esistenza, gioia, sofferenza.
La bellezza dell’arte è personale. Purtroppo inizia già a perdere fascino, nel cuore dell’artista, una volta condivisa; è il pericolo che si corre ma, in fondo, il sogno è sempre lo stesso: lasciare un segno del nostro passaggio in questo mondo.

Rimbaud, nella sua “Lettera del Veggente”, predisse perfettamente ciò che il poeta avrebbe dovuto essere:

“Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi.(…) egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. (…) Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! (…) e quand’anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!”

Dall’orizzonte su cui si abbatté il giovane Arthur, nasce il presente autore, non ricalcandone pedissequamente le orme, ma creando una propria strada, un’evoluzione.

Quando veniamo sospinti su tali altipiani da geni storicamente riconosciuti restiamo sbalorditi, ma quando a portarci, ad indicarci la vetta, là, in alto, è un amico, un comune mortale, l’effetto è strabiliante.
Leggendo, rileggendo, possiamo trovarci con le lacrime agli occhi o sorridere di gioia ma, in ogni caso, la sensazione che proviamo è lo stupore, quello di un bambino che scopre il mondo per la prima volta, ogni volta sempre la prima, ogni volta sempre diversa.

È probabile che a qualcuno le parole di questo libro suonino prive di significato. In questo caso avrà sbagliato lettura, almeno per il momento. Forse non si è ancora affacciato a quel mondo reso filosofia da Nietzsche; sublime poesia da Baudelaire, Rimbaud, Morrison; reso romanzo da Celine, Kerouac, Hesse; saggio da Huxley e Baudelaire ancora una volta; musica da Mozart e dai Doors.

Il Poeta è “L’essere asessuato che danza sul mondo”, grande nell’esplorare le vette, probabilmente goffo e deriso a terra, dagli uomini.

Come ci insegna Baudelaire in “L’Albatro”:

“Il poeta è come lui, principe delle nubi
Che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra tra gli scherni
non lo lasciano camminare le sue ali da gigante”.

Ma adesso basta. Ho già spiegato troppo invano l’inspiegabile.
Ora lasciate che “l’illuminazione devasti l’analisi”.

Il cielo eternale continua a dipingersi ma ha finalmente trovato il suo artista solenne.

Simone Favaro


Le pure scorie


Alla vita
Che riposa
Sotto fogliami immacolati…


Fui condotto nel Bosco
e imparai a rifugiarmi
nella dimora delle api
Raccogliendo l’anima in posa fluida
ed espellendo fangosi detriti
imparai a sudare miele
e accarezzandomi la pelle viscosa
brillai all’istante di voluminosi bagliori
e scrutando peli di linfa
bevvi sorsi di resina
Meravigliosa fu la sensazione
di penetrare la Natura
e di sgonfiare l’umano uomo
Rimpalli di luce a sud
consigliarono ad una tenebra interdetta
di accucciarsi.

Che festa immacolata vidi!
Una giustizia di fiocchi immacolati.

Io devo essere colui che ti smembra
e con fruste di cristallo ti accarezza.
Protendiamo le labbra verso il cielo
e paralizziamole nell’eterno candore.

E se carni polpose diverranno polvere,
Noi non moriremo mai
Perché essa diverrà spirito intelligente.


Passeggiata infuocata

Andai per pensieri, un giorno,
e mi sedetti per offrire loro giustizia.
O giustiziarli.
E mentre sedevo
capii che avrei dovuto confiscare il tempo
a Colui che lo possiede.
Boccate di diavoli in liquido amniotico sbrodolante
si fecero plaudenti.
Piccoli pugni, come diamanti,
bussavano senza noia
ad una parata di teli bianchi.

Spalancarono fauci per mostrare
l’universo
che celavano con tanto brio.
Ed ecco le risa colmanti
che di gioia riempirono gli amanti.
Fu così che i lordi pensieri, seppur potenti,
furono epurati dall’innocenza di figli divini.


Volgi alle nubi scure
avvolte da cieli ignoranti
E staccati da terre bruciate
da peccati umani
Orme pesanti consumano
stupide teste da decapitare
per lasciare il posto
a intelletti rigogliosi.


Io impazzisco

Mi hanno preso, gli Angeli!
Io, vacillante,
nel vuoto mi lascio condurre.
Estasiato, un pò impaurito.

Sussurrando dolci parole al mio orecchio,
mollano la presa, gli Angeli!
Catapultato in questo campo
assorbo il dolore cerebrale della caduta.

Il saggio della tribù mi chiama,
con mani ossute, mente limpida e vorace.
Il sentiero non è infinito, mi annuncia.
Guardati intorno.
Tutto buche e pali. Incastri perfetti.
Cosa c’è di più, Uomo dei Campi?
Attento a quel che dici, uomo d’acciaio,
e guarda qui
Scoprì il petto, il saggio. Orribile, che guardo?
Ossa immagino, pelle secca e
squame di epidermide e
unghie in sfacelo e
voragine ombelicale.
Attendi, ragazzo.

E il mosaico diventò dipinto.
La terra trema e
si spacca e
sbuca la maga e
penetra nel dipinto e
io impazzisco

Angeli, dov’è la strada di ritorno a palazzo?

Il dipinto si fece scultura d’Universo in miniatura.
Tutto era contenuto nella statua.
Perché tornare a palazzo?
Perché non adorarla?


Verme

Fluendo su un tavolo d’argento
è possibile ridestare l’armonia delle cose
Il sole scalda brandelli di carne cruda
e il macello immacolato può riaprire i battenti
È così che anime porche lavano mani putride
per partecipare ai nostri banchetti
con uva marmorea e vino spumeggiante
E dove fuggi Tu, Bellezza?
Dove nascondi il Tuo seme, Purezza?
Dove mastichi Parole, Armonia?
Il sorriso di un verme può inondare il mondo
Feci un applauso al vento che smuove le cose
e baciai colui che sussurrò
al mio orecchio in attesa:
“siediti sulle radici e irradiati nei frutti.
il tempo fluisce”


Incontro

Come stai?
Bene e grazie e poderosa stretta di mano
per ribaltare il tuo esile corpo alle mie tinte
menzogne.
Si rimpicciolirono gli occhi per andare a cullarsi
nella frescura dei globi oculari,
umile diletto per purgare il senso prediletto.
Si ritirarono le gengive ed i rossi muscoli
per sfuggire al vento universale,
seccatore di fauci con il suo ardore.
Esplosero le costole per andare a creare
qualche essere migliore.
Si piegarono le ginocchia per supplicare
un sorso di umile gioia e un sorso di agognata
perdizione.
Per poter stare d’incanto in un bosco oscuro


Serrato

Giù il velo rosato
serrata diviene la
vitale dimensionale visione
e brutale divengono le impressioni
sudano le percezioni
e decisi si fanno i tremori
funerea si para l’immagine
che con rapidi guizzi devasta
la rossa pulsante caverna
e loro, impavidi labirinti colmati
da chissà quali alchimie,
divaricano le umide strutture artritiche
Pensai di divorare spine
pensai di deflagrare
e di perdermi nella sabbia
di diluirmi in mare, pensai.
Di sfondare la bellezza del mondo, decisi.


Erba

Passo passo
Mi si stagliò nel viso – d’incanto-
il prato.
Guardalo bagnato del notturno peccato
Erbosa orgia di fili in amore.
All’alba asciutto di Vita


Odore

È la nota che mi tocca. È l’oscurità che mi mangia come pallido pane. L’azzurro innocente mi chiama. Piove e non vedo. Sento tutto ciò che non voglio. Freddo. Freddo. Non ti sento, sperduta meteora dei cieli bianchi di sotto.
Soffio. Soffio forte. È il fuoco che voglio. Se volo non è per cadere in sfacelo, maciullato d’impatto.
La capanna nell’erba è intimità profonda urlante. Sotto la paglia l’odore. Amore


Giro

Lattescente, splendidamente
giro giro giro
lascivo.
Nella tua pelle
in sospiro
spiro.
In vortice
Brucio
In nubi
Mi alzo
In cenere
Desquamo
In pace, onestamente.


Parole

Le parole scorrono
come timidi germi di
sottobosco in embrione.
Aspettando di bucare e
guardare il cielo
eternale.

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