Opere di

Maura Rabotti

Con questo racconto ha vinto il primo premio all’edizione 2007 del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza


Breve come un sospiro

C‘è l’estate alle porte, con i suoi colori, i suoi tuffi nell’acqua gelata, con il caldo che scotta la pelle… C‘è l’estate alle porte con i quotidiani che pubblicano notizie di animali maltrattati e abbandonati lungo le strade, e allora, sfidando i ricordi della scorsa estate, metto su carta le emozioni della mia amicizia più bella e preziosa. Un’amicizia durata tredici anni con un pastore tedesco: Kira… Un’amicizia a cui solo la morte ha messo fine, lasciandomi un vuoto incolmabile e un ricordo che continua a strapparmi sorrisi e lacrime. Era il 1993 quando lei arrivò nella mia vita. La volli fortemente ancora prima di vederla e l’andai a prendere con mio padre. Dovevamo guardarla, sceglierla, studiarla… C’erano ancora molte riserve da parte dei miei genitori per l’arrivo di un nuovo cane poiché nella nostra vita c’era già Argos che apparteneva alla stessa razza. In realtà fu lei a scegliere noi. Si avvicinò con circospezione a mio padre e gli slacciò le stringhe delle scarpe sedendosi, audacemente, di fronte a lui per osservare la sua reazione. Quegli istanti mi parvero eterni ma quando vidi il sorriso di mio padre seppi, con certezza, che Kira avrebbe fatto parte della famiglia.
I primi giorni furono i più difficili perché temevamo che Argos potesse rifiutarsi di accettarla ed invece la prese sotto la sua ala protettrice anche se, durante i loro giochi, involontariamente lui le danneggiò irreparabilmente uno dei padiglioni auricolari e, da quel momento, a Kira fu negata la gioia di alzare contemporaneamente tutte e due le orecchie: quella destra infatti rimase irrimediabilmente inerme e cadente. Si perdeva nella fantasia l’immagine di lei fiera e regale che spalancava le sue orecchie sui rumori del mondo, ma questo non diminuì il mio bene per lei. Zampettava allegramente vicino a noi, mangiava con sincero appetito, si addormentava sui nostri grembi, giocava con Argos e riempivano di entusiasmo la nostra vita. I giorni trascorrevano e il batuffolo di pelo morbido si trasformò in un cucciolo dai movimenti sgraziati e dalle orecchie troppo lunghe rispetto al resto del corpo. L’irruenza, gli impeti di tutti e due messi insieme erano una miscela esplosiva: diventava impossibile controllarli nelle loro scorribande attorno al giardino ma era stupendo giocare con loro. Belli, giovani, ed esuberanti portavano una ventata di allegria anche nel giorno più nero. Forte, coraggioso, ribelle e dallo spirito libero Argos, dolce, affettuosa, e con la testa fra le nuvole Kira. Viveva all’ombra di Argos che la difendeva sempre e aveva costantemente bisogno delle nostre coccole. Era come se vivesse con la paura di essere lasciata sola e le nostre carezze, la nostra presenza sembravano sopire quel timore nato chissà dove. Tremava per me. Non potevo salire su una bicicletta, attraversare di corsa il giardino, non potevo arrampicarmi su un albero perché lei si agitava e mi prendeva a morsi i piedi come se volesse farmi capire che ciò che facevo era troppo pericoloso. Vegliava su ogni mio passo… Era la mia ombra ed io volevo essere la sua. Mi piaceva giocare a nascondino con loro ma Argos mi cercava usando il fiuto, Kira andava in panico e si calmava solo quando riusciva a trovarmi, anche se non era mai lei a riuscire nell’intento. Il terrore di quei momenti le impediva di pensare, di cercare, di fiutare con la logica che dovrebbero avere tutti i cani. Lei usava il cuore e il cuore, si sa, non concede ragionamento. Giocava, saltava, correva ma poi tornava sempre da noi, da me, per la sua dose di tenerezza e di carezze.
Velocemente passarono gli anni e, un mattino di maggio, nel periodo più bello dell’anno, Argos morì. L’amico ribelle e forte se ne andò in punta di piedi e Kira perse la sua guardia del corpo, il suo fedele difensore. Ci ritrovammo un po’ più sole, un po’ più tristi… Tra un dolore e l’altro, tra un giorno che finiva e un altro che iniziava, il tempo passava e il cucciolo sgraziato divenne uno splendido cane adulto. I primi peli bianchi iniziarono a mostrarsi sulle estremità della bocca e sotto il mento, il mantello nero focato sulla schiena si schiarì e il pelo sul petto si tinse di un dolce rosso ramato. I suoi occhi vigili si fecero tristi e colmi di un’intensa malinconia… una malinconia che non l’abbandonò mai più. È difficile, per me, condensare in poche righe la nostra storia, raccontare ciò che lei mi ha dato, il suo sguardo adorante, la sua illimitata fiducia nei miei confronti… Non riesco a spiegare questa magia nascosta ma so che è stato amore… un filo invisibile ci ha legato fin dal primo momento e so che, ancora oggi, non si è spezzato completamente. Crollavano le illusioni, svanivano i sogni candidi della vita ma lei restava… restava sempre accanto a me. Insieme siamo cresciute, insieme abbiamo giocato, insieme abbiamo affrontato gioie e dolori, delusioni e speranze, insieme ci siamo addormentate all’ombra degli alberi ed eravamo così vicine che era possibile sentire i battiti dei nostri cuori. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, la rivedo al mio fianco, sento il suo naso umido contro il mio collo, il contatto della sua fronte con le mia guancia, e la sua lingua che mi inumidisce il viso. Ho ancora la sensazione di toccare con le mani il suo pelo: morbido durante la bella stagione e un poco ispido nei mesi invernali. Ricordo le tante notti trascorse a vegliare il suo sonno durante le lunghe degenze, dopo i numerosi interventi chirurgici, affrontati senza mai emettere un guaito di dolore. Risento il suo sonno profondo, abbandonato ai postumi dell’anestesia, e i suoi occhi che ogni tanto si aprivano per poi richiudersi tranquilli quando mi scorgeva al suo fianco. È stata tanto per me, forse è stata tutto: un’amica silenziosa che sapeva consolare, la compagna di giochi che regalava l’illusione dell’eterna giovinezza, la sorella che ascoltava le mie confidenze, l’angelo custode che tremava per me e che cercava di difendermi da tutto e da tutti.
Sapeva leggere nel mio cuore come un libro aperto senza mai giudicarmi. Non mi ha mai tradito. Il suo sguardo si posava ogni volta su di me, dimenticandosi del mondo intorno a lei e aveva la capacità di farmi sentire amata e importante. Ho trascorso tutta la nostra storia cercando di darle la sicurezza della mia presenza, del mio amore, della mia gratitudine ma, all’ultimo, forse proprio quando ha avuto più bisogno di me, l’ho tradita. La sua ultima malattia è stata più forte del mio bene, della mia volontà e del mio desiderio di tenermela sempre stretta al petto. L’ho curata, coccolata, amata, viziata, ho tentato tutto per fare in modo che il male si conclamasse il più tardi possibile. Poi, quando ho capito che non potevo riuscire a salvarla ho iniziato a dirle addio ogni giorno, ogni istante: in ogni bacio, in ogni abbraccio. Nei nostri sguardi si avvertiva un lungo e muto addio che strappava il cuore. Eppure, nonostante tutto, lei continuava a fidarsi di me venendomi incontro sulle gambe malferme per regalarmi un’umida leccata sulla guancia. Si arrendeva, a causa della malattia, il suo fisico ma non la sua volontà di volermi bene. Era stanca, vecchia, malata ma, per me, era sempre bellissima. Accarezzavo il suo pelo sempre più bianco, sempre più opaco e mi addormentavo la notte con un peso profondo sullo stomaco. Mi risvegliavo da un sonno agitato il mattino dopo, con il cuore diviso fra due strazianti speranze: quella di trovarla morta senza che avesse sofferto e quella di poterla avere ancora con me. E lei era sempre là ad aspettarmi: con il solo orecchio sinistro teso ad ascoltare i miei passi, con il suo sguardo triste eppur vivo, ma sempre un po’ più stanca, sempre un po’ più spenta. E poi, quell’ultimo giorno, in una calda giornata di Settembre in cui non mi venne incontro… Il crollo totale, come se qualcosa dentro di lei si fosse irrimediabilmente rotto e iniziarono i suoi lamenti e il suo pianto disperato per quel dolore che non trovava sollievo. I suoi occhi mi guardavano chiedendomi aiuto. Ricordai la forza che aveva avuto nei giorni migliori, pensai alla sua dignità... Era inutile oltre che sbagliato continuare a farla soffrire e chiamai il veterinario perché l’aiutasse a morire. Le restai accanto fino all’ultimo minuto. La accarezzavo lentamente sussurrandole di perdonarmi mentre il veterinario preparava la dose di liquido che l’avrebbe strappata alla vita e piangevo… I suoi sussulti di dolore erano i miei, la sua disperazione era la mia: eravamo ancora unite per l’ultima volta. Poi il liquido iniziò a scorrere nelle sue vene. Il tempo di uno sguardo. L’ultimo. Disperato e indecifrabile e poi la fine di tutto: delle mie speranze e dei suoi lamenti. La morte passò tra noi e se la portò via senza fare alcun rumore. Il mio impegno verso di lei era finito ma il mio lungo tormento iniziava. Ancora oggi mi sembra di averla tradita e, questo pensiero, unito a quello sguardo di disperazione, offuscano il ricordo dei giorni più belli trascorsi insieme. Quando il dolore si fa più intenso mi assale, fugace, il pensiero che sarebbe stato meglio se, in quel lontano giorno di primavera, non fossi mai andata a prenderla per portarla casa, ma poi… la rivedo giocare, sento nuovamente il suo passo di fianco al mio, la sua fronte contro la mia, la lingua umida sulla guancia… e mi dico che invece è stato giusto così... mi ha dato tanto. L’amicizia più vera, più intensa di tutta la mia esistenza… Si è consumato con lei un pezzo di vita, si è spenta una consistente fetta di gioventù che ci ha visto sempre insieme e passeggiando sola, nel nostro angolo di giardino, mi ritrovo a sussurrare: «Ciao Kira! Grazie per avermi capita, consolata, amata… È stata bella e breve, breve come un sospiro, la vita con te».


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