Racconto premiato di Maurizio Paganelli

Con questo racconto è risultato 9° classificato – Sezione narrativa alla XIV edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2009


Questa la motivazione della Giuria: «In un horror della solitudine e del degrado, un uomo dal passato controverso e sprecato, vive il suo squallido e alcolico ferragosto tra il letto e la cucina. La sua miopia, seppur invalidante, gli consente di vedere a malapena la bruttezza circostante, e lo protegge dalla tristezza. Ecco perché inforcare gli occhiali, significa vedere la triste realtà tutta intera, e il vuoto angosciante circostante. Unico compagno di vita è un pesciolino rosso, muto e triste nella sua boccia di vetro. Sveglio dopo una bevuta, l’uomo vedrà il suo unico compagno fuori dalla boccia, schizzatone fuori come per un suicidio. E’ il color arancio luminoso che l’uomo vede senza occhiali, il colore del pesce. Gli occhiali confermeranno tale evento e tale perdita. Simbolicamente anche il protagonista si annegherà nella fontana della città, spoglia e vuota per il 15 agosto. Persino quella povera salma sarà trovata in ritardo, con il riflesso delle grosse lenti degli occhiali. Inquietante e poco letterario questo racconto ha una originalità terribile, strascicata e indifferente, che crea uno strappo tra la realtà e il surreale». Alessandra Crabbia


«Color arancio»

Si svegliò in un bagno di sudore. Era affondato nel sonno come piombo, coi vestiti addosso, toltosi solo i grandi sandali, la cinta allentata. Ricordò un attimo le tre stagioni che aveva lavorato come manovale muratore, che periodo di fatica e di sbornie. Anche il bellissimo periodo che andò in giro per l’Italia con una band, erano gli anni sessanta, poi per una ripicca o un senso d’orgoglio tutto suo, gli fece prendere la strada ospedaliera.
Così ora rammenta quanto tempo è passato. Solo, lavoro e solitudine. E pensare che chi lo vede crede il contrario. Ora nel letto con i suoi tanti anni addietro, sempre steso così.
Fuori, un bollente pomeriggio d’agosto, martedì 15, giorno dell’Assunzione S. Vergine, non un’anima.
Scese dal letto e ondeggiando come sul suolo malfermo di una nave, col mare tremendamente agitato si diresse verso la tavola. Gli occhi vagolarono un po’, brancolarono anche le mani, e finalmente approdarono a due vetri tondi e spessi come oblò.
Inforcati gli occhiali, fu come aggredito all’improvviso dal contorno ora nitido e taglienti delle cose: la crudezza di quella realtà immobile lo gettò in un torpore accidioso, un senso di angoscia si impadronì di lui e lo rituffò pesantemente nel letto fradicio.

A pranzo aveva bevuto più del solito. Se è facile bere in compagnia, a volte lo è ancora di più quando si è soli. Aveva chiuso il suo solito pasteggiare disordinato buttando giù tutto il rum che gli restava, ricordo dolce e forte dell’ultimo viaggio ai Caraibi.

Pensare che aveva fatto un coniglio in un letto di patate e radicchio trevigiano degno di nota, Giorgio si sa, è un valente cuoco sempre se né a voglia.

Ora si teneva la testa tra le mani, mani gigantesche in linea con il suo peso. Il capo intorpidito, mentre pensieri vuoti gli fluivano lentamente al cervello.
Improvvisamente due fari blu si illuminarono dietro le lenti e rapidi risalirono dietro la parete antistante fino ad una mensola di legno dove poggiava una boccia di vetro colma d’acqua.
Solo d’acqua. D’acqua e nient’altro. Oh…! un poco di rum o altro, pensò.
Da quella posizione poteva vederla bene, eppure del suo pesciolino rosso con la pinna nera nessuna traccia. Ammesso che si fosse adagiato sul fondo, si sarebbe notato un bel riflesso color arancio, per quanto deformato dalla accentuata curvatura del vetro dell’angolo formato con la base del fortuito acquario. E invece nulla: solo acqua incolore in un vetro incolore. In un luogo incolore. In una vita incolore. Giorgio guardava, finto stupito, il grande buco visibile sul letto, buco causato dalla sua elegante mole.
Fu allora che con orrore si ricordò d’aver udito durante il sonno una sorta di scalpiccio che risuonava flaccido, acuto e vibrante. Un sospetto atroce lo colse. Gli occhi roteanti caddero a terra sullo spettacolo straziante della creatura riversa sul pavimento, che parve boccheggiare ancora in un ultimo sussulto.

Attraversò la piazza desolata che il sole era ancora alto. Giunse alla fontana detta del Masini, ché la gola gli ardeva. Dai gradini della fontana piena d’acqua fresca, immerse una mano per sentire il refrigerio. E pensò al pesciolino, al fatto di aver rabboccato la boccia.

L’unico passante vide l’anziano citologo ergersi sul bordo della vasca, aggrappato alla cannella più grande. Si dissetava. Nessuno invece udì il tonfo, che si perse nell’indifferenza della città sonnolenta e silente. Nessuno vide una macchia blu scura, colore dei suoi pantaloni corti, enormi, diffondersi e svanire nel liquido freddo.
Fu rinvenuto il mattino seguente l’anatomopatologo gli trovò i polmoni, pieni zeppi d’acqua. Gli enormi occhiali abbandonati sul bordo, uno dei grandi suoi zoccoli accoccolato sul fondo. Due variopinte, splendide farfalle si rincorrevano aggredendo l’aria.

Maurizio Paganelli


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